Un'analisi conclusiva interessante sugli aspetti della visita di Fini in Israele sulla Stampa, firmata da Pierluigi Battista, dal titolo: "«Shalom Israele», per Fini un doppio strappo". E' sulla Stampa a pg.9.Prima di ripartire per Roma, Gianfranco Fini visita, in forma privata, il Muro del Pianto e il Santo Sepolcro. «Shalom Israele», dice lasciando Gerusalemme. E’ una conclusione in chiave turistico-religiosa di una missione politica che aveva come scopo la duratura pace siglata tra il leader alla ricerca di una definitiva uscita non solo dal neo-fascismo ma anche da post-fascismo e con il mondo ebraico e con Israele. Con lo strappo di Gerusalemme, Fini si è spinto nella condanna di Mussolini, dell’infamia delle leggi razziali (volute dal fascismo) e della «responsabilità» della Repubblica di Salò, oltre la soglia fin qui soltanto immaginata. Ne ha ricavato un temperato apprezzamento da parte degli ebrei, che non possono considerare la Shoah come l’inerte capitolo di una storia raffreddata e oramai sepolta e consegnata agli archivi della memoria. Ne ha ricevuto, se si eccettuano singole manifestazioni di diffidenza anche autorevoli, come quella del presidente Likud della Knesset, l'esplicito e reiterato sostegno delle autorità dello Stato di Israele, dal primo ministro Sharon al presidente della Repubblica, fino a Simon Peres, custode del patrimonio di sinistra e laburista nella compagine israeliana.
Un duplicità di carattere che a un certo punto ha suggerito l’impressione di due percorsi paralleli di Fini a Gerusalemme. Da una parte l’itinerario della memoria e della colpa, l’omaggio a Iyad Vashem il ricordo dell’orrore dell’Olocausto, le responsabilità fasciste, dell’Italia del regime che soffocò e represse le nobili ed eroiche azioni dei Giusti per salvare la vita dei discriminati e dei perseguitati. E poi le radici stesse del Msi nato e cresciuto nell’humus politico che ha rivendicato la fedeltà al fascismo e alla Rsi, la ricostruzione dei primi passi politici compiuti da un leader che ha sì abbassato il sipario sulla «casa del padre» missina ma conservandone anche tracce mentali, detriti culturali, atteggiamenti psicologici, giudizi e pregiudizi. E’ questo il primo tracciato che Fini ha dovuto percorrere passo dopo passo, parlando ma ascoltando obiezioni, riserve, richieste di ancora maggiore trasparenza. Interrogativi ancora non sciolti a cui Fini ha dovuto, magari di mala voglia, ma ha dovuto rispondere, depositi di rancori ancora, legittimamente, non risolti, grumi di ostilità ancora non liquefatti. Fini è riuscito a rendersi credibile, ma al prezzo di una sequenza di passaggi, di un tour del pentimento nel cuore di una tragedia tuttora viva nella mente e nei cuori di chi, fra chi ha subito sulla propria pelle l’orrore della Shoah, interrogava, obiettava, interloquiva, reclamava chiarimenti ulteriori, definitivi.
Ma poi, parallelamente, al primo Fini a Gerusalemme ha percorso la strada per rinsaldare la sua amicizia con Israele, uno Stato tuttora minacciato di annientamento, circondato da nemici che ancora agitano i manuali antisemiti distribuiti nelle scuole palestinesi, diffondono le menzogne dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, l’archetipo della propaganda anti-ebraica, senza che nell’Occidente se ne faccia grande scandalo. Il legame tra questi due percorsi paralleli è costituito dalla sottolineatura da parte di Fini del messaggio attuale contenuto nel rifiuto dell’antisemitismo. L’invocazione del «mai più», pronunciata solennemente al termine della visita al Museo dell’Olocausto, voleva significare appunto che non è soltanto sul giudizio storico, sulla memorie del passato, che si misura la forza di contrasto della sensazione antisemita, ma anche nell'impegno a riconoscere sintomi e segnali forse camuffati e mimetizzati dell’odio antiebraico. Da qui anche, l’allusione alle debolezze della sinistra italiana nei confronti dell’antisemitismo nascosto nell’esaltazione acritica della causa palestinese.
I rappresentanti d’Israele hanno potuto ascoltare ciò che volevano e pretendevano di ascoltare. Fini si è detto d’accordo su ogni singolo aspetto della politica israeliana, dalla necessità della «recinzione» ai modi per rispettare le indicazione della Road Map. E su questo punto ha avuto tra gli interlocutori di Gerusalemme un’accoglienza senza incrinature e dubbi. Per ottenere questo risultato, «l’amico d’Israele» non poteva più avere nel suo armadio scheletri e ombre. Lo strappo di Gerusalemme è stato anche questo, una ripulitura degli angoli ancora nascosti. Una frattura personale e politica per rendere possibile il suo accreditamento di alleato nella battaglia contro il nuovo antisemitismo. Un punto d’arrivo. E di partenza, anche per il suo futuro politico italiano.
Il pezzo del Corriere riporta le opinioni dei giornalisti israeliani, firmato da Elisabetta Rosaspina.
"E il vicepremier fa litigare la stampa israeliana", pg. 9Gianfranco Fini parte e il dubbio rimane: era sincero? Cercava solo l’imprimatur ebraico alla sua carriera politica o è venuto a suggellare un patto d’alleanza, prezioso soprattutto per Israele? Si è rammaricato abbastanza, poco o per niente delle sue antiche simpatie per il Duce? Gli editorialisti dei principali quotidiani israeliani sono al lavoro. Nel fine settimana usciranno analisi, commenti e giudizi su una visita che, proprio come in Italia, promette di avere più ripercussioni di politica interna che internazionale. Il benvenuto offerto dalla destra governativa ha irritato la sinistra all’opposizione, il cui boicottaggio dell’ospite italiano ha innescato la controffensiva dei conservatori. E il match domestico interessa l’opinione pubblica più delle intime convinzioni di Fini sulla Repubblica di Salò e sulla statura politica di Mussolini.
Domani i lettori di Haaretz
troveranno un bilancio di Adar Primor, caporedattore degli esteri, sulle due lunghe giornate del vicepremier italiano a Gerusalemme. « Mi sto arrovellando su un enigma — anticipa Primor, autore di una decisiva intervista a Fini, l’anno scorso a Roma — .
Mi chiedo perché lui non abbia detto che pure il fascismo rientra nel male assoluto e che la Repubblica sociale è un terribile capitolo della storia italiana al Museo dell’Olocausto, allo Yad Vashem, anziché a un incontro con la sola stampa italiana, dove i giornalisti israeliani e internazionali non erano stati invitati. Mi chiedo perché non l’abbia ripetuto almeno a me, qualche ora più tardi, quando mi ha ricevuto » . Primor sa bene che quelle specifiche revisioni storiche di Fini sono state sollecitate da domande dirette: « E con ciò Fini ha commesso un errore, perché quelle erano proprio le frasi che gli ebrei si attendevano da lui, spontaneamente, allo Yad Vashem. Perché quello era il luogo dove scusarsi, come aveva promesso di fare un anno fa a Roma. A quell’epoca aveva già condannato il fascismo e le leggi razziali.
Da lui, qui, ci aspettavamo un altro passo avanti. Ma forse pretendevamo troppo » . Quindi ciò che Fini ha detto e fatto non basta? « Condannare e scusarsi non sono la stessa cosa, ma non possiamo ignorare le sue parole. La sua venuta ha aperto un nuovo capitolo nelle relazioni fra Italia e Israele e con il mondo ebraico. All’incontro con gli ebrei di origine italiana ha detto che questa visita è un punto di partenza e non di arrivo.
Gli crediamo. Ma ha perso un’occasione importante, l’altra mattina allo Yad Vashem, per trasformare il suo viaggio in un evento storico » .
Non è sulla stessa linea il commento che sta scrivendo Uri Dan per Maariv, quotidiano in lingua ebraica: « Si amo a una svolta storica, invece.
Duemila anni dopo aver assediato Gerusalemme, Roma aiuta Israele nella sua battaglia contro l’antisemitismo e il fondamentalismo islamico.
Non vedo niente di ipocrita nell’atteggiamento del vicepremier italiano verso gli ebrei. Trovo molto più ipocrita la reazione della sinistra estrema israeliana, rappresentata da Yossi Sarid e da Yossi Beilin, che si sono rifiutati di accogliere Fini in Parlamento » . Ma l’editorialista di
Maariv non ha digerito nemmeno la frecciata che gli ha rivolto Shimon Peres, seduto accanto al vicepremier italiano alla cena di lunedì sera: « Mi ha detto: solamente tu sei rimasto un fascista. Scherzando, ma non troppo. Gli ho risposto: se chiami me fascista, come definisci Fini? E lui: un pentito. Così Peres, Nobel per la Pace, distribuisce timbri kosher come un gran rabbino. Proprio lui, che ha portato Arafat a Davos su un tappeto rosso, sette o otto anni fa, definendolo un ex terrorista. A quell’epoca, come ministro, boicottava Fini. Chi è più pentito, allora: Peres o Fini? » .
Si parlava dei ripensamenti di Fini, no? « Appunto. Dovendo scegliere se stringere la mano a Fini o a Yossi Sarid e a Peres, preferisco Fini. E non da ieri, ma da molto tempo » chiude il discorso Uri Dan.
Anche Yoshua Porat, professore di storia e columnist del più diffuso quotidiano israeliano, Yediot Ahronot,
se la prende con la sinistra locale: « Perché preferisce gli europei antisraeliani al vicecapo di governo di uno dei pochi Paesi amici che abbiamo. Questo è il problema: chi è filoisraeliano disturba uomini di estrema sinistra come Yossi Sarid » . Non c’era un vecchio problema storico con Fini e con il suo partito? « C’è una diffusa ignoranza sul periodo fascista, su Mussolini e su ciò che è accaduto agli ebrei in Italia. Quando Yossi Sarid sostiene che Mussolini fu secondo solo al nazista Hitler non sa di cosa parla. Ma la sinistra israeliana sta cercando di trarre profitto dalla visita di Fini » . Che, se avrà un seguito, sarà anche qui nelle pagine di politica interna.
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