Riportiamo le cronache e i commenti del secondo giorno di visita di Fini in Israele. Cominciamo con Il Foglio, a pagina 3: "Sharon ha un altro piano ambizioso per una grande destra"Gerusalemme. La visita del viceprimo ministro, Gianfranco Fini in Israele, che si conclude questa mattina, ha avuto almeno tre valenze diverse. C’è l’incontro bilaterale tra un vicepremier di un governo alleato con le massime cariche dello Stato ebraico e il rafforzamento di idee e intenti comuni. C’è il conto con la storia italiana, passato per la visita allo Yad Vashem, il memoriale
alla Shoah, per la condanna delle leggi razziali fasciste e perfino della Repubblica di Salò. C’è infine il confronto con la "memoria profonda", non soltanto degli ebrei italiani – in Italia prima e in Israele poi – ma degli israeliani in genere. Quella cicatrice incancellabile che ha portato ieri lo speaker della Knesset Reuven Rivlin a dire a Fini: da ebreo continuo ad aspettarmi che si gridi ad alta voce "siamo noi i colpevoli!". Molte parole saranno spese su queste espressioni, forse nell’incapacità di afferrare fino in fondo quanto nessun ebreo potrà dire di fronte a un esame di coscienza, anche il più serio, "è abbastanza". E quanto ciò non tolga nulla al percorso compiuto
da Fini e a lui riconosciuto. Tutti questi livelli, difficilmente associabili
in un’unica descrizione del viaggio, confluiscono però in una quarta lettura, data dal governo israeliano e legata al presente. Il rapporto con l’Italia, di cui la visita di Fini è considerata una "pedina importante", rientra in un progetto strategico più ampio, quello di creare una "internazionale di destra" che abbia un’unica agenda e un unico obiettivo: combattere duramente il terrorismo e le matrici islamiche fondamentaliste che lo alimentano. Sharon è convinto che il deterrente sia un elemento centrale e vincente della forza di uno Stato. Su questo punto ha trovato alcuni alleati veri: George W. Bush, Silvio Berlusconi. Vladimir Putin, l’indiano Atal Behari Vajpayee e, in parte, il premier spagnolo José María Aznar. Naturalmente l’11 settembre lo ha aiutato. Pochi mesi prima, quando fu eletto in febbraio alla carica di primo ministro, era molto più solo. Oggi questa alleanza diventa necessaria, irrinunciabile. Forse non solo per Israele. Il club dei conservatori – fanno notare alcuni analisti israeliani – funziona ormai ben oltre l’amicizia politica bilaterale e quella personale tra leader. Serve ad appoggiarsi nelle decisioni politiche internazionali, a far convergere le informazioni della propria intelligence, a combattere, senza compromessi ed esitazioni, nemici comuni. Serve soprattutto a disegnare comuni strategie. Il governo di Sharon ne è convinto e cavalca per questo l’alleanza con l’Italia concretamente. "L’arrivo di Fini in Israele non è stato banale sotto nessun profilo", commenta una fonte autorevole legata al primo ministro dello Stato ebraico. Come non è banale il continuo consultarsi tra Berlusconi e Sharon. E’ stato grazie anche a quest’alleanza che Sharon ha incontrato a Roma Eliot Abrahams, che si occupa di Medio Oriente all’interno del dipartimento di Sicurezza nazionale americano. In modo che lo stesso giorno potesse annunciare a Berlusconi e contemporaneamente a Bush che intende aprire il dialogo con Abu Ala. La visita di Fini si colloca in questo contesto. Non a caso a Fini è stato chiesto aiuto con l’Iran, la Siria e la Libia. Con lui si è discusso di Hamas e di Iraq. Su Fini si conta per quanto riguarda i rapporti con l’Europa. Nel vicepremier Israele vede un impegno contro il terrorismo, l’antisemitismo e l’isolamento. Fini è considerato da Sharon un alleato a tutti i livelli: frutto di dichiarazioni, ma soprattutto di fatti.
Riportiamo dal Corriere della Sera tre articoli, firmati da Cazzullo, Rosaspina e da Caprara.CORRIERE DELLA SERA
1) "Il leader all'esame di Israele si ferma solo su El Alamein"
di Aldo Cazzullo; pg. 12
Alla fine, quando gli è stato indirettamente chiesto di condannare pure i combattenti di El Alamein, Gianfranco Fini proprio non se l'è sentita: «Il dialogo con gli ebrei è cominciato, questo è solo un punto di partenza, mi rincresce non avere tempo di approfondire».
Aveva già condannato in un giorno e mezzo il fascismo, Salò, Mussolini, sempre rispondendo alle domande di cronisti, parlamentari, conferenzieri.
Forse, se avesse detto qualche parola in più il mattino del primo giorno, al Museo dell'Olocausto, non avrebbe dovuto rincorrere gli interlocutori, fino a toccare limiti che sarebbe ingeneroso imporgli — forse neppure Cossutta includerebbe il fascismo nel «Male assoluto» — e che anzi per curioso contrappasso appaiono di segno opposto alle revisioni storiche. Ma, oltre gli incidenti e le obiezioni, che Fini aveva previsto e disinnescato ringraziando i suoi critici « per la franchezza», resta e anzi si compie la cifra politica della sua prima visita in Israele: la destra italiana non è più antisemita, si dichiara al fianco di Israele (trovando presso i vertici di Israele credito quasi unanime), e lancia un'accusa evocata il primo giorno ed esplicitata ieri sera: gli antisemiti esistono ancora, però nell'altro campo, a sinistra. Tutto questo, a giudicare dalle prime reazioni di dirigenti e soprattutto militanti già esacerbati dalla mossa sul voto agli immigrati, espone Fini a rischi elettorali, a meno di convincere un Berlusconi più che mai riottoso ad affrontare le europee con una lista unica. Ma apre una nuova prospettiva alla destra italiana; che, dopo essere andata nel ' 94 al governo prima della sinistra, potrebbe prima della sinistra esprimere un leader in grado di guidare il proprio schieramento e parlare all'intero elettorato.
Non è stata una giornata facile per il vicepremier. Se il Jerusalem Post
pubblicava un editoriale in suo sostegno, Haaretz
titolava così un intervento del parlamentare pacifista Yossi Sarid: «Primo Levi gli avrebbe stretto la mano?». Subito dopo è lo speaker della Knesset Reuven Rivlin a rivolgergli di persona le stesse accuse di reticenza. Fini compie allora un altro passo, parla di «responsabilità del popolo italiano» nella persecuzione degli ebrei, e il presidente degli italiani di Israele David Cassuto, in contatto via posta elettronica con i parlamentari amici, decide di partecipare all'incontro del pomeriggio tra Fini e la comunità. Appuntamento in teatro, canti, balli di ragazzi vestiti da reclute, cori di shalom, e lungo intervento di Sergio Della Pergola, docente di demografia all'università di Gerusalemme. Riconoscimenti, critiche, e poi un inciso: «Chi ha voluto di recente rievocare con nostalgia la battaglia di El Alamein sappia che, al di là del valoroso comportamento dei singoli soldati italiani, se quella battaglia fosse terminata con diverso esito nessuno di noi sarebbe qui oggi ad accogliere i nostri distinti ospiti». Fini evita di entrare nel merito, esprime «un ringraziamento, un apprezzamento e un rincrescimento», per non avere appunto abbastanza tempo di approfondire le varie questioni. Alla fine Cassuto, caloroso nel dargli il benvenuto, si dice soddisfatto a metà, ma convinto che «oggi sia stata colmata una lacuna storica; finalmente l'Italia, come la Germania ha fatto da tempo, ammette le proprie responsabilità, e fa seguire fatti concreti», ad esempio le prime cinquanta pensioni riconosciute ai figli degli internati.
Dribblata la condanna di Caccia Dominioni, al vicepremier viene sottoposto il caso Mussolini. Stavolta non si tira indietro: sì, «ho cambiato idea, altrimenti non sarei qui». Ma quel che preme a Fini, e agli israeliani, più che le condanne del passato sono le garanzie sul futuro.
E siccome nelle giornate a Gerusalemme ha percepito la paura dell'isolamento e il malumore nei confronti dell'Europa, Fini dà corpo a un fantasma finora solo evocato: l'antisemitismo alligna « nei circoli della sinistra e dell'estrema sinistra»; se non è vero, « lo dicano, e soprattutto dicano i motivi per cui non è vero». Cosa che alla sinistra italiana, prevede il vicepremier, non riuscirà. Qualche problema glielo darà pure la destra. Ieri per un attimo è sembrato che davvero gli esami, e gli intoppi, non finissero mai. Rutelli vuole che An tolga la fiamma, La Russa intende ravvivarla, e lei? «A Rutelli risponderò in Italia». L'incontro con il tosto Netanyahu è accolto come una liberazione, ma anche lì la gaffe è in agguato, ne nasce un «equivoco clamoroso » sulla provenienza dei terroristi iracheni, poi chiarito. Luzzatto se n'è andato ma un aiuto viene comunque dagli ebrei italiani della delegazione, attenti a smussare gli angoli, ad esempio a mettere ordine nel balletto di versioni sulla movimentata mattina alla Knesset. Fuori dai dettagli, il successo politico è evidente, la nuova stagione comincia davvero: non è solo Fini a dirsi amico degli ebrei e alleato di Israele, sono i suoi interlocutori a contraccambiare, a dargli credito, a chiedere e ottenere impegni. Per quanto restino ambiguità da sciogliere, i nemici di ieri riconoscono non soltanto la legittimità ma anche l'interesse reciproco: c'è un nuovo nemico comune, l'estremismo islamico, e un avversario, l'estremismo
gauchiste.
Stamattina, a meno di cambiamenti di programma, la preghiera al Santo Sepolcro e la visita al muro del Pianto, quasi a sintetizzare le «radici giudaico- cristiane» che Fini ha tentato di far inserire nella Costituzione europea. Le reazioni dall'Italia lasciano pensare che il rientro non sarà agevole, che il prossimo passaggio elettorale potrebbe essere ancora più difficile di quello dell'Elefantino alle ultime europee; ma pure che la nuova destra c'è davvero. Nasce destinata a perdere qualche pezzo, a ridefinire ulteriormente la sua identità, ad affrontare il mare magno del centro già democristiano, a reggere responsabilità impopolari in una stagione drammatica di guerra non dichiarata; ma con la possibilità teorica di governare il Paese, e non solo un ministero appaltato da Berlusconi. La giornata si chiude con il canto dei muezzin, i banchetti di Id el Fitr, la festa che celebra l'ascensione di Maometto dalla roccia qui custodita nella moschea di Omar, e le agenzie di stampa che battono le dichiarazioni — «Bene viaggio, male giudizi su Salò» — di Donna Assunta Almirante; segno per Fini che tutto è davvero compiuto.
2) "Yehuda, cacciato nel '38: «Sia il benvenuto, oggi ho un po' più di speranza»
di Elisabetta Rosaspina; pg. 12
C’è una specie di figliol prodigo anche nella tradizione religiosa ebraica e, mentre il profilo delle spalle di Fini si restringe all’orizzonte di questa memorabile visita, Yehuda Pardo decide che sì, forse perfino un ex fascista può ritrovare la retta via. «Abbiamo un’espressione ebraica che si potrebbe tradurre così: è tornato nella risposta di Dio. Significa che anche un ateo può scoprire a un certo punto la verità divina. E allora, che sia il benvenuto». A 83 anni, Yehuda Pardo ha capito tante cose della vita. Ma non quella pungente sensazione di ritrovarsi dalla parte sbagliata che affiora puntuale nei momenti cruciali della sua esistenza. La subì, come una tegola in testa, a 18 anni, quando all’esame di maturità i professori gli indicarono un banco separato: «Perché tu non sei ariano», gli avevano spiegato austeramente. Non la tollerò più quando gli consegnarono il diploma, con specificato a chiare lettere, sotto il suo nome: «Appartiene alla razza ebraica», facendogli desiderare di lasciare, oltre al liceo classico Cristoforo Colombo di Genova, anche l’Italia. «Non potevo aspirare a un posto di impiegato statale, non potevo iscrivermi all’università, per via delle leggi razziali».
Capì di essere davvero nel posto sbagliato. Come quella volta in piazza Colonna, a Roma, più di vent’anni dopo, quando ormai era diventato israeliano e si trovò in mezzo a una manifestazione in cui si gridava «Viva Israele».
Si guardò intorno: erano dimostranti di destra che protestavano contro Gheddafi e la cacciata degli italiani dalla Libia.
«Io ero di sinistra. Senz’altro più di oggi» riflette Pardo, che pure non riesce a trovare naturale, e forse nemmeno del tutto a posto, di essere qui, seduto sotto il palco da cui Gianfranco Fini professa la sua amicizia per gli ebrei, a battere le mani.
«Non posso più considerarmi di sinistra adesso — abbassa la voce, esitante —. Beh, lo dico: ho votato per Sharon, anche se quando sono arrivato io in Israele, nel ’ 49, trionfavano le idee di Ben Gurion. Però dopo Oslo, dopo che hanno fatto tornare qui Arafat, mi sono arrabbiato. Se l’avessero lasciato a Tunisi, l’accordo coi palestinesi si sarebbe fatto da tempo». È passato dall’altra parte, quella conservatrice, inseguito dalla stessa sensazione di disagio che trapela adesso dal suo sorriso benevolo e scettico: « La politica è opportunista. Lo è sempre stata. Mussolini iniziò la sua carriera grazie all’aiuto finanziario degli ebrei. Mandò una divisione al Brennero, per fermare i tedeschi e l’annessione, poi ebbe paura di Hitler e, l’anno dopo, promulgò le leggi razziali. Mi ricordo ancora il titolo del Corriere della Sera.
Mi pare dicesse: gli ebrei non sono più italiani».
Per Yehuda Pardo, che allora si chiamava ancora Giorgio Leone Pardo, tramontava il sogno di diventare medico in Italia. Si assicurò un diploma di geometra, professione e un passaporto per la Svizzera. Sarebbe diventato medico in Israele, anzi un medico israeliano: «E per molti anni non ho più rinnovato il mio passaporto italiano». Ma non è un documento che ti fa sentire al posto giusto o sbagliato. Yehuda Pardo è stato per 18 anni presidente dell’Istituto Dante Alighieri di Gerusalemme. Non ha mai smesso di arrabbiarsi con la sinistra italiana: «Che attaccava Israele per interesse, perché Craxi aveva bisogno del petrolio degli arabi. Invece dei partiti antifascisti, proprio la destra è diventata nostra amica».
Ieri pomeriggio, Yehuda Pardo si è seduto nella platea della sala del centro Einaudi ad ascoltare Fini, con il dubbio di essere ancora una volta fuori posto. È stato convinto da una telefonata del professor Sergio della Pergola, docente di sociologia: «Mi ha detto: se non ci andiamo, non otteniamo niente, non facciamo nulla contro l’antisemitismo. Quando ho letto che tanti pensano che gli ebrei debbano andarsene dall’Italia, mi è sembrato di tornare indietro di 60 anni».
Pardo non sa se, ieri pomeriggio, il suo posto fosse tra gli ebrei italiani che applaudivano Gianfranco Fini, ma pensa di aver fatto la scelta giusta: «Me ne vado con un po’ più di speranza — dice uscendo, alle spalle di Fini —. Sicurezza no.
Questo sarebbe troppo».
3) «Su Mussolini ho cambiato idea, per questo sono qui»
di Maurizio Caprara; pg. 13
Gianfranco Fini ha affermato di aver cambiato idea su Benito Mussolini.
«Certamente sì, altrimenti non sarei qui e non avrei fatto ciò che ho fatto», ha risposto ieri il fondatore di Alleanza Nazionale a una domanda sull’uomo che già da tempo aveva rinunciato a definire grande statista del XX secolo. Una nuova presa di distanze dalla tradizione missina nella giornata meno facile della sua visita in Israele, contrassegnata ancora da contatti istituzionali ad alto livello, ma anche da un’attenzione delle autorità locali a non ostentare più di tanto l’ospite in pubblico.
Per evitare due stereotipi opposti e fuorvianti — a Gerusalemme Fini è rimasto identico a prima o è diventato completamente un altro — conviene ricostruire i passi compiuti.
« Nessuna scusa a nome della parte fascista, neanche a nome degli italiani » , lo criticava in mattinata il quotidiano Haaretz commentando il suo discorso di lunedì al museo dell’Olocausto. Il vice presidente del Consiglio è stato ricevuto dal presidente della Knesset, il Parlamento che è di destra e si chiama Ruben Rivlin. «Il popolo italiano si assume le responsabilità per quanto è avvenuto dal 1938, quando sono state varate le leggi razziali » , gli avrebbe detto Fini secondo una prima versione. I cronisti a chiedersi: le parole «popolo italiano» sono sue? È un passo in direzione della sollecitazione ebraica a non tacere le responsabilità collettive dell’indifferenza o un modo per annacquare le colpe del Fascismo? Poco prima delle 15, il fondatore di An era nell’hotel King David. Di fronte a un giudizio analogo, poco tempo fa, antifascisti di varia provenienza si erano sentiti offesi. Quasi inevitabile domandare a Fini: quegli italiani che si opposero al Fascismo e ne pagarono i prezzi, perché dovrebbero sentirsi colpevoli delle persecuzioni? «Ma va da sè: di chi si ribellò che cosa si dovrebbe condannare?» è stata la risposta di Fini al Corriere.
«Va da sè che se si entra nelle responsabilità personali ci sono i responsabili, i meno responsabili, i non responsabili. La sanzione però, ammesso che su vicende del passato si possa parlare di sanzione, la storia la dà anche a chi fu indifferente». Dunque? «Se si va oltre la responsabilità dei singoli bisogna farsi carico della responsabilità collettiva. Ci sono due modi di condannare: come giudice di un fatto avvenuto tra terzi o con una condanna che implica un’assunzione di responsabilità».
Fini ha preferito il secondo tipo di condanna. Da Roma, Francesco Rutelli chiedeva di togliere dal simbolo di An la fiamma dell’Msi, nata in omaggio a Mussolini. « Non c’entra nulla con il viaggio. Risponderò quando sarò in Italia», il commento. Nel frattempo il portavoce del presidente della Knesset ha fornito un resoconto dell’incontro. Rivlin: « Non è possibile condannare soltanto i nazisti, ma bisogna dire ad alta voce « siamo colpevoli» e purtroppo da te non l’ho sentito (in ebraico non esiste il lei, ndr)». Fini: «Il mondo deve sapere che l’antisemitismo in Europa esiste e se non chiariamo quello che è successo non potremo insegnare ciò che ha causato la morte di sei milioni di ebrei. Responsabili ne sono molti popoli, ma non tutti i cittadini d’Europa. Lo sono tutti coloro che hanno accettato idee razziste e collaborato. Circa l’Italia, nel 1938 furono varate le leggi razziali e noi italiani ne accettiamo la responsabilità. (...) riconoscere la colpa significa diventare responsabili».
Rivlin: «Sì, ma devi dichiarare la colpa del movimento fascista » . Fini: « Per la condanna è uguale all’assunzione di responsabilità». Dal Knesset, in una nota, è stato riferito che secondo Fini le colpe non sono state soltanto dei tedeschi.
All’incontro con gli ebrei italiani c’erano soltanto trenta- quaranta di loro fra decine di ragazzi di un collegio. Riconoscimenti alla rielaborazione di Fini e richieste di andare oltre. Sergio Della Pergola, demografo, lo ha invitato a non accettare Julius Evola, «teorico dell’ineguaglianza», nella cultura della nuova destra. Da Fini, un discorso breve. Più tardi, ha assicurato che tra gli autori di riferimento di An «Evola non c’è, altrimenti non sarei qui». E ha sostenuto che i sondaggi sull’Europa riconducono a «movimenti e circoli di sinistra o estrema sinistra» la diffidenza verso gli ebrei. «Vorrei sentirmi dire i motivi per cui non è vero, ma nel mio Paese non è possibile».
Su Avvenire, a pagina 9, una cronaca di Arturo Celletti dal titolo: "Fini attacca: la sinistra italiana è antisemita"Ora Fini decide di liberarsi degli abiti istituzionali. Di parlare da uomo di parte, da capo di An. E di affondare il colpo più duro contro la sinistra italiana. Due parole rimbalzano da Gerusalemme: sinistra antisemita. Fini parte privilegiando il ragionamento. Invitando a riflettere sull’ultima inchiesta sull’antisemitismo in Europa: «Ha evidenziato che la diffidenza verso gli ebrei è riconducibile a movimenti o a circoli culturali di sinistra o di estrema sinistra». Prende fiato il capo della destra. Sono attimi. Poi va avanti. «Ovviamente chi è di sinistra o di estrema sinistra ha il diritto di dire che non è vero, ma vorrei che sentisse anche il dovere di spiegare i motivi. Io vi assicuro che in Italia questo non è possibile». Arrivano a fine giornata i colpi che fanno rumore: l’accusa di antisemitismo gridata contro la sinistra italiana e la marcia indietro su Mussolini, un tempo definito statista. I microfoni puntati, le telecamere accese: Fini ha cambiato idea sul Duce? Il presidente di An non tentenna: «Certamente sì, altrimenti non sarei qui; non avrei detto quello che ho detto e non avrei fatto quelo che ho fatto». Ancora una pausa, ancora una precisazione: «Cambiare opinione ed ammettere di aver espresso un giudizio sbagliato è solo espressione di libertà e di buona coscienza». Finisce così il secondo giorno di Fini in Israele. Un giorno difficile: fatto di nuovi esami, di nuovi chiarimenti, di nuovi passi lungo un percorso sempre più preciso. È mattina: Gianfranco Fini e Reuven Rivlin siedono uno davanti all’altro. «Capisco l’importanza di questa visita, capisco i passi avanti.. Ma io sono prima di tutto ebreo e e come ebreo non posso accettare, e non accetterò mai, quello che molti in Europa hanno fatto contro di noi. Sì, molti e tra questi anche i fascisti in Italia». Fini ascolta silenzioso l’atto d0accusa di Rivlin. L’espressione di chi non capisce. Di chi si chiede perché e non riesce a darsi una risposta. Sono attimi. Il presidente della Knesset, il Parlamento israeliano, torna a posare gli occhi severi sul capo di An e riparte: «E’ vero non si può incolpare solo il fascismo della tragedia del popolo ebraico, ma bisogna dire a voce alta "anche noi siamo colpevoli"». Ancora una pausa. Impercettibile. «E queste parole fino ad oggi non le ho ancora ascoltate». E’ una richiesta precisa. È un nuovo, inatteso, esame. Èun invito a riconoscere le proprie colpe. Forse non dirette, ma sempre colpe. Fini capisce che non può tirarsi indietro. Che non può cavarsela solo ricordando la sua data di nascita e allora parla con una speranza: spazzare via gli ultimi dubbi. «Noi italiani ci prendiamo la nostra porzione di responsabilità». E "noi italiani" vuol dire fascisti e collaboratori del fascismo. Vuol dire chi «odiava» e chi «poteva salvare anche una sola persona e ha preferito voltare le spalle». Ora è Fini a prendere fiato. È lui a fissare Rivlin. «Riconoscere la colpa significa assumersi la responsabilità». Sembra un esame infinito. Forse anche un esame ingiusto, esagerato. Davanti al presidente della Knesset, davanti alle commissioni Esteri-Difesa, davanti alla comunità degli ebrei italiani di Gerusalemme. Il sole è quasi tramontato quando il vicepremier sale sul palco allestito nel centro studi intitolato a Luigi Einaudi. Ci sono tanti bambini. Qualcuno applaude anche. Il discorso di Fini è un discorso già ascoltato. Una nuova condanna alle «pagine oscure del nostro passato». E una nuova promessa a «impegnarsi per un futuro sgombro da quella che è la più pericolosa delle infezioni dello spirito: l’idea di superiorità». I leader degli ebrei italiani di Gerusalemme scuotono però la testa. David Cassato è freddo: «Ci poteva mettere più impegno. S’, almeno io, mi aspettavo di più». Poi tocca a Sergio Della Pergola: «Non crediamo di aver sentito un pronunciamento di rigetto esplicito, inequivocabile e definitivo sulla Repubblica sociale italiana». Ma i titoli dei giornali? Ma quella netta condanna a Salò? Della Pergola scuote ancora la testa: «Non è possibile cavarsela rispondendo sì a una domanda. Doveva essere Fini a dire che la Repubblica sociale è una pagina vergognosa». È un giorno difficile, eppure non c’è alcuno strappo. Anzi Fini, passo dopo passo, riannoda le fila di un rapporto che sembra possibile. In un’ovattata saletta del lussuoso hotel King David il vicepremier comincia ad allontanare le ombre. E per farlo riparte dalla fine del "faccia a faccia" con Rivlin, dalla condanna del Male Assoluto: il fascismo, Salò, le leggi razziali. «Si può condannare come giudizi terzi, ma si può condannare anche come parte in causa. E in questo caso vuol dire che ci stiamo assumendo le nostre responsabilità per il passato e per il futuro». L’ultima scena è al centro Einaudi, Cassato cammina sul prato verde e affonda i colpi. La sinistra italiana? «Da loro solo calunnie». Cosa voterei se votassi ancora in Italia? «Voterei Fi, ma da Berlusconi quante dichiarazioni concentranti. Prima quel kapò, poi quei giudizi su Mussolini…». E Fini? Cassato riflette solo qualche istante: «Ha fatto bene a sottolineare le responsabilità del popolo italiano. E credo che sarebbe giusto che gli italiani si guardassero allo specchio e ammettessero quello che devono ammettere». Ammettere? Cassato annuisce e lascia a Della Pergola la responsabilità di andare avanti: «E’ la scelta di un dirigente coraggioso che dice "quella era l’Italia". Non come Mitterand che disse quella non era la Francia. Fini non si nasconde dietro gli altri». Dubbi è vero. Sul completamento di un percorso e sulla classe dirigente di An. Ma anche apprezzamenti. Sempre più forti, più chiari. Apprezzamenti che spingono Della Pergola a sbilanciarsi in una promessa: «La prossima volta che Fini verrà a Gerusalemme gli apriremo le porte della Sinagoga».
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