Ottima la cronaca del Corriere nel servizio di Cristina Marrone. Chiamiamoli pure "presunti", come usa nelle democrazie sino a sentenza avvenuta. Ma almeno difendersi sarà lecito. Giuliani non era applaudito per la sua tolleranza zero ?
Come punteggio noi siamo ancora più vicini al 10 che allo zero. Ma con un piccolo sforzo....Commentavano gli attentati avvenuti in Algeria e Marocco e le prigioni dove ora rischiano di essere rinchiusi anche loro: «Il nostro fratello è stato ferito, poi lo hanno torturato e interrogato. Abbiamo perso molti fratelli, dobbiamo stare molto attenti ai pesci marci e comunque bisogna continuare la nostra opera contro gli americani e gli ebrei». Siamo nell’aprile 2003. Davanti a una tv parla Boutkayoud Mbarek, operaio, uno dei sette maghrebini ritenuti integralisti islamici ed espulsi martedì con decreto del ministro Pisanu. Hamrad Nabil, sposato con un’italiana, ha combattuto la guerra in Bosnia. Per finanziare la causa islamica stava mettendo in piedi un traffico di auto rubate. Progetto quasi subito abortito, perché le loro regole di comportamento non prevedono il rischio di essere arrestati.
A Torino i sette presunti terroristi conducevano vite normali. Lavori regolari, in genere nel settore dell’industria. Chi faceva il fabbro, chi il tornitore, chi era iscritto in un’agenzia di lavoro interinale.
Nessun precedente penale. Sui campanelli di casa c’erano i loro nomi: sapevano di non aver bisogno di nascondersi. La sera si vedevano tutti insieme anche per giocare a calcio. E per due volte i magistrati hanno ritenuto che non esistessero gli elementi per arrestarli. Solo Charef Yacine, l’unico algerino, bracciante agricolo di Napoli, viveva nascosto: glielo imponeva la sua condizione di clandestino. Ha abitato anche in Turchia, dove sarebbe stato legato a un’organizzazione che nascondeva terroristi falsificando i passaporti.
Ma oltre che per giocare a calcio, la sera, si incontravano «per la causa». La loro attività terroristica sarebbe consistita nel reclutare militanti da mandare nei campi in Afghanistan. Raccoglievano denaro da inviare alle vedove dei kamikaze e offrivano ospitalità «ai confratelli in difficoltà». In casa commentavano videocassette con i messaggi di Osama Bin Laden e le immagini sugli attentati in Cecenia. «Guarda, è così che si deve fare. Adesso l’America, poi toccherà all’Italia»; dice Assam Kalid, uno tra i più radicali della « cellula torinese».
Per loro «Bush è il nemico di Dio, l’America il grande diavolo». Sadraoui Azzedine, «la testa calda del gruppo» è affascinato dai combattimenti. «Io volevo andare direttamente a combattere in Cecenia. Io volevo uccidere, la morte o il suicidio.
Io muoio e muoiono con me i non credenti, questo è ciò che volevo».
Non ci sono armi, non ci sono attentati. Ma la «cellula in sonno», seguita per tre anni dalla Digos di Torino, «aveva l’idoneità tecnica e mentale per garantire la risposta ad un’eventuale chiamata» per un’azione kamikaze. Quasi tutti sono stati addestrati a morire e a uccidere nei campi in Afghanistan. Chi torna diventa reclutatore. Il personaggio chiave è Lamor Noureddine, in contatto con la moschea di viale Jenner a Milano. Gli «arruolati» sono persone ideologicamente preparate.
«Ma come fai a capire se sei pronto alla Jihad?», chiede un aspirante soldato a Noureddine. «Lo sa Dio. La Jihad è un dovere».
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