Certamente succede
ma è scorretto non dire di chi è la responsabilità
Testata: Corriere della Sera
Data: 12/11/2003
Pagina: 15
Autore: Goffredo Buccini
Titolo: La vita sotto il muro, tra umiliazioni e paure
Un rapporto Onu condanna la barriera: « Creerà sofferenza a 700 mila arabi » . Il governo Sharon: « Informazioni inaccurate »

E'questo l'occhiello del pezzo di Buccini. Tralasaciamo la condanna dell'ONU. Roba vecchia e ripetuta. Con la testa ingessata sempre rivolta a Israele l'ONU non vede altro. Ne abbiamo già parlato mille volte, quindi lasciamo perdere. Ma perchè, pur riferendosi all'ONU, il governo israeliano parla di "informazioni inaccurate" ?

Prendiamo ad esempio il pezzo di Buccini. Un pezzo sotanzialmente corretto, dove il cronista racconta quello che vede, senza particolare enfasi. Ma il lettore del Corriere, se non è a sua volta già informato, non sa che gli viene data solo un parte della verità. Gli è taciuta quella che dovrebbe informarlo sulle reali responsabilità di quanto sta accadendo nel conflitto israelo-palestinese. Israele non costrtuisce la barriera di difesa perchè non sapeva cosa fare altro. La barriera è indispensabile per proteggere la vita dei cittadini dai terroristi palestinesi. I quali palestinesi indubbiamente patiscono disagi e sofferenze. Ma Buccini avrebbe dovuto spendere qualche riga per descrivere come da quelle tre città in particolare partano la maggior parte dei terrorisdti che vanno a farsi esplodere in Israele. Così i lettori avrebbero capito di che è la prima responsabilità di quanto sta accadendo. Non l'ha fatto.Come non ha verificato la famosa questione degli ulivi tagliati.

la polizia ha portato un esperto che ha concluso che gli alberi non solo non sono stati tagliati ma che sono stati sfoltiti in modo da non daneggiarli per niente.
Tra l'altro, questi ulivi si trovano su terreno demaniale non sono proprieta' degli arabi.
Alla richiesta della polizia, che sospettava una provocazione e false accuse, di sostenere un esame con la macchina della verita' da parte di quelli che hanno sporto la denuncia questi hanno rifiutato il test.La questione degli ulivi tagliati è troppo delicata per riferirla così come viene usata dalla propaganda palestienese. Può essere sicuramente successo, ma visto che la notizia si è rivelata succulenta è diventata uno strumento da usare ad ogni piè sospinto. Compito del cronista è verificare sempre.


Ecco l'articolo:

Sicurezza contro diritti umani? « Due Stati per due popoli » o pura annessione? Queste e molte altre domande pesano sul muro anti- kamikaze già in parte costruito da Israele nei Territori. Nella prima puntata dell'inchiesta sulla Terra Santa, il Corriere ha dato conto delle ragioni che muovono la società israeliana verso il progetto: le stragi di civili nelle città d'Israele, il senso di tradimento dopo il processo di pace fallito. A fine ottobre un sondaggio di Peace Index ha rilevato come l’ 83 per cento sostenga le finalità dichiarate del muro e il 63 per cento lo voglia costruito non lungo i confini della Linea Verde, ma secondo « le valutazioni » del governo. Tuttavia proprio questo — lo sconfinamento nei Territori, lo smembramento e l'isolamento di intere comunità palestinesi — è il punto controverso per una parte non marginale della società israeliana: « La barriera ha perso il suo scopo durante la sua pianificazione e costruzione » scrive il quotidiano di Gerusalemme Haaretz: in molte aree « separerà o ha già separato non i palestinesi dagli israeliani, ma i palestinesi dai palestinesi » , « inciterà l’ostilità tra quei palestinesi che sono stati calmi durante buona parte dell'Intifada » .
Proprio ieri un rapporto delle Nazioni Unite ha criticato la costruzione del muro, sostenendo che causerà « molta sofferenza » . Almeno 680 mila palestinesi, secondo la relazione, saranno tagliati fuori dalle loro fattorie, dalle scuole, dai posti di lavoro; il 14,5 per cento della terra palestinese sarà di fatto annessa a Israele; e solo l’ 11 per cento del tracciato corre sulla Linea Verde. Il governo di Gerusalemme rigetta queste conclusioni, ribadendo che il muro è un’opera fondamentale di difesa. Il rapporto Onu è « inaccurato » afferma un alto funzionario del ministero degli Esteri, perché la barriera isolerà solo il 4 per cento dei Territori, dove vive il 14 per cento dei palestinesi. « La relazione si basa su una idea imprecisa del percorso della recinzione e non tiene conto che ci saranno porte che consentiranno ai palestinesi di raggiungere le loro case » .
Alla vita sotto il muro è dedicata la seconda puntata della nostra inchiesta.
DAL NOSTRO INVIATO
RAFAT ( Cisgiordania) — Per piantare il reticolato, le hanno sradicato dal terreno un centinaio di ulivi che davano da campare alla sua famiglia. E ogni notte i riflettori delle torrette di guardia illuminano il suo letto matrimoniale come un palcoscenico.
« Sopportiamo » sospira Ghada « la vita col muro è così » . Ma quello che proprio non le va giù sono le stoviglie sporche che le si accumulano nel lavello. Già, perché per lavarle ci vuole fegato, è come andare al fronte. « Qui sotto — ci spiega — proprio davanti alla finestra della cucina passano di continuo le pattuglie israeliane in jeep. Qui dal lavello posso guardare i soldati quasi negli occhi. Hanno già minacciato di spararmi quando sono salita sul tetto a riparare la cisterna, ho paura che sparino anche se mi vedono dietro i vetri. Si sentono molti spari, la sera, a Rafat. Così i piatti li lavo piegata o in ginocchio, ma è molto scomodo, non lo faccio tanto spesso e a casa siamo in cinque, capirai: diventano subito una montagna » .
Di quei piatti Ghada Shawkat si vergogna ed è questa la cosa che in fondo non riesce a perdonare: l'umiliazione. Un sentimento che la unisce ad altri duecentomila palestinesi sparsi in una sessantina di comunità e costretti ad abituarsi, nell'ultimo anno, a vivere sotto i primi 145 chilometri di muro in Cisgiordania e, soprattutto, nei distretti settentrionali di Tulkarem, Qalqiliya e Jenin, nell'area metropolitana di Gerusalemme e a pochi chilometri da Ramallah. Il progetto, in cinque fasi, prevede settecento chilometri complessivi, con una spesa faraonica che sta mettendo in ginocchio la traballante economia israeliana.
A volte si intuiscono facilmente i motivi di sicurezza di cui parla il governo Sharon, fermare i terroristi suicidi che si infiltrano in Israele per farsi saltare sugli autobus e nei ristoranti: nel caso di Tulkarem, sono dodici i kamikaze usciti dalla città negli ultimi tre anni. Più spesso, tuttavia, è difficile non intravedere la voglia di punire l'intera popolazione o il tentativo di spostare ancora verso est il confine della Linea Verde, inglobando chilometri di terre palestinesi nella nuova zona protetta.
Ghada Shawkat ha 28 anni e tre figli: l'ultimo arrivato, Qutaiba, un anno e mezzo, le sta appeso alla gonna. Ma le più grandi, Balkies e Sara, 7 e 6 anni, gironzolano insofferenti nella parte di giardino coperta dalla casetta di mattoni: le biciclette restano a impolverarsi in un angolo.
« Io e mio marito — dice Ghada — abbiamo proibito alle bambine di girare attorno alla casa, dalla parte del muro è pericoloso » . Il muro dista una dozzina di passi dalle sue finestre e qui non è di cemento come a Qalqiliya o ad Abu Dis; è un doppio reticolato, con sensori elettronici e filo spinato, che sormonta un terrapieno: ma l'effetto è identico e le disquisizioni ideologiche sulla parola « muro » ( gli israeliani preferiscono chiamarlo « recinto di sicurezza » ) sembrano lunari in questo villaggio arrampicato sulle colline a pochi chilometri da Ramallah. Il marito di Ghada, Nahed, è in giro a cercare lavoro come manovale per raggranellare 200 dollari al mese, ma non sempre ha fortuna: un bel pezzo di terra è rimasto dall' altra parte della rete, il taglio degli ulivi ha rovinato la famiglia. Sono 102 mila, secondo i palestinesi, gli ulivi sradicati solo dall'estate del 2002 alla scorsa primavera, una striscia delle terre di Cisgiordania è ora confiscata o isolata tra il muro e la Linea Verde: coltivare i campi è impossibile per molti contadini e una vecchia norma mai abrogata prevede che un terreno, incolto per tre anni, possa essere espropriato.
Ghada ricorda la mattina che ha visto le ruspe scavare nella sua campagna: « Abbiamo chiesto ai soldati: che fate? Non ci hanno neanche risposto. Allora con gli altri agricoltori abbiamo formato un comitato e abbiamo fatto ricorso in tribunale: nemmeno stavolta ci hanno risposto, non ancora » .
Un esempio di ordinaria assurdità si può trovare ad Abu Dis, lungo le centinaia di metri di lastre di cemento che tagliano il quartiere fuori da Gerusalemme Est. Non è stato costruito un cancello: anche i palestinesi che passano coi documenti in regola devono quindi inerpicarsi sui blocchi di cemento, sotto gli occhi dei soldati. Abid ha 68 anni e parecchi acciacchi ( ha perso le dita del piede sinistro per via del diabete), vende porta a porta medicine omeopatiche e ha i clienti dall'altra parte. Sbuffa: « Vi pare che alla mia età devo saltare su e giù due volte al giorno? Vergogna! » .
Salendo a nord e costeggiando la barriera di cemento di Qalqiliya, si finisce nella gigantesca recinzione che racchiude la città di Tulkarem coi suoi 80 mila abitanti, i suoi dodici kamikaze eletti a « martiri » , il suo ospedale regolarmente assaltato dai soldati alla ricerca di qualche terrorista ferito. Alle 8 e 40 di una mattina qualsiasi, il cancello è chiuso. « Quando aprono? Non si sa » mormora la piccola folla di palestinesi, donne con in testa la sporta della spesa, vecchi. Due giovanissimi militari non fanno passare nessuno: nemmeno Mohammad Elommor, 13 anni, che si tira appresso due tesori, un sacco carico di pezzi di alluminio e un camioncino di plastica rosso. L'alluminio, comprato all'ingrosso da un rigattiere di Taibe, dovrebbe fruttargli una ventina di shekel ( cinque euro scarsi) al mercato di Tulkarem; il camioncino non si capisce se finirà su una bancarella o se è l'ultimo giocattolo che gli è rimasto. Mohammad prova a passare dalla sera prima, « ma non c'è stato niente da fare, ho dormito nella moschea di Anabta » . Trascorre un'ora finché, sempre per ragioni imperscrutabili, il cancello si riapre e solo per quelli col permesso di rientrare. Passa pure Aslam, una bambina di dieci anni, che non stacca gli occhi dai mitra israeliani e non smette di piangere e di tremare, riparandosi dietro il corpo di sua madre. La press card
governativa apre i cancelli anche a noi. Con un taxi si arriva dall'altra parte della città: e qui ci si ferma. Il quadrivio tra Jubara, Ar Ras, Tulkarem e il muro è un girone dantesco. Centinaia di palestinesi aspettano da ore che, con una cadenza di vari minuti a passaggio, i soldati li lascino andare uno per uno al lavoro, a scuola, all'università, al mercato, dai parenti, tra macchine che si tamponano cercando di farsi largo, imprecazioni, carretti stracarichi, malori. Da Jubara scendono ogni giorno 44 bambini per andare alle elementari ad Ar Ras « e restano ai check point almeno fino alla seconda ora » dice Rasem Atout, il preside di Ar Ras, che oggi è incastrato pure lui nella fila infinita.
Azioni e reazioni si aggrovigliano nell'inferno del quadrivio. Solo la storia dei prossimi anni potrà dire se tutto questo sarà servito a fermare i kamikaze o a fabbricarne degli altri. I soldati del check point sulla strada del ritorno mostrano simpatia per gli italiani: « Totti! Spaghetti! » ridono. A quest'ora, sulla collina di Rafat, Ghada forse si sarà decisa a lavare i piatti nel gabinetto o a spostare la cucina dal lato opposto della casa.
In fondo basta organizzarsi, anche al tempo del muro.



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