Riportiamo il servizio sull'organizzazione Zaka di Goffredo Buccini, pubblicato sul Corriere della Sera di giovedì 6 novembre 2003.Il volontario del motorino 66 s’accosta alla rotonda di via Hanavi, cinque metri dopo la fermata della linea 2. «È successo proprio qui», dice. Nella mattina d’autunno la vita recita un copione di normalità al confine del quartiere religioso di Mea Shearim. «Il tempo passa, se Dio vuole», sospira sotto la pensilina Shlomo Cohen e subito rituffa gli occhi nel giornale, aspettando il bus con pazienza: due mesi e mezzo fa assieme all’autobus qui è passata la morte, confusa tra i passeggeri.
Il volontario del motorino 66 l’ha sentita arrivare col boato dell’esplosione, le sue finestre non sono lontane: «Guarda, là il kamikaze ha fatto saltare l’autobus. E a terra c’era un bambino tra i cadaveri, piccolissimo, il bavaglino pieno di sangue».
« Respirava ancora. Ho provato a rianimarlo. La notte sono tornato a casa e ho sbirciato la pancia di mia moglie, incinta: mi sono chiesto che faccia avrà mio figlio domani, me lo chiedo ogni giorno » .
Ogni giorno vita e morte si rincorrono a Gerusalemme, nelle altre città d’Israele, nei Territori: Shimon Grossman, il volontario del motorino 66 — appena vent’anni e una barbetta rossiccia che non riesce a farlo adulto — l’ha imparato presto. Come i suoi novanta compagni dell’unità d’emergenza — quelli con la sirena e il kit di pronto soccorso sul sellino delle San Yang 125 — e come tutti i volontari del gruppo Zaka. Sono loro — mille in tutto il Paese — con la kippah sopra le treccine da ortodossi e la casacca giallo- fosforescente calzata sulle giacche nere, quelli che le tv inquadrano a ogni carneficina nelle città israeliane, chini tra poliziotti e infermieri, a soccorrere i feriti e a raccogliere brandelli di carne, gocce di sangue, per ricomporre i morti, « perché tutti gli uomini sono fatti a immagine di Dio, anche i kamikaze, e a tutti i corpi va reso onore, perché Dio possa tornare a sorridere » .
Il sorriso a volte è ostinato come la vita.
Sorride, a un’altra fermata di autobus, alla French Intersection sulla strada verso Ramallah, Achia Redivi, che è l’esatto contrario dei giovani dello Zaka: bermuda, maglietta rossa, occhiali scuri, faccia abbronzata da ragazzo dei kibbutz. Alla fermata, che raccoglie sette linee d’autobus, hanno messo una torretta di soldati dopo una mezza dozzina d’attentati. « Ma io vengo dalla valle del Giordano dove gli attacchi sono il doppio, questo per me è un posto di villeggiatura » , dice. Guarda come una vecchia conoscenza Shimon, che ci fa da guida. Con la seconda Intifada, quelli dello Zaka sono entrati nella routine dell’orrore: bisogna seguirli per attraversare questa parte della storia di vittime e sofferenze che - nelle polemiche degli ultimi giorni - gli israeliani ci accusano di non capire. « Per cinquant’anni ci avevano insegnato che tutto quello che è altro da noi è male, che dovevamo tenerci separati » , racconta il capo dello Zaka, Yehuda Meshi Zahav, che un tempo era una testa calda e, col soprannome di 13 Nero, era finito in galera una trentina di volte per tafferugli con laici e polizia: « Ora abbiamo imparato che dobbiamo stare accanto agli altri, nelle strade, nel dolore » . Per cinquant’anni, lui e i suoi sono rimasti chiusi nelle sinagoghe di Mea Shearim, barricati nei loro precetti. Ora la gente li chiama gli « angeli a due ruote » perché i loro motorini arrivano sul posto anche prima delle ambulanze, quando il caos blocca il traffico dopo ogni attentato.
La marcia secolare degli haredim, la comunità religiosa cui appartengono quasi tutti i volontari dello Zaka, è un effetto collaterale della pace mancata di Camp David e della nuova Intifada.
L’effetto principale sta nella crisi sociale ed economica e nella ritirata dei laburisti, che sulla pace, con Ehud Barak, avevano investito il loro patrimonio politico.
« Siamo furiosi e spaventati » , spiega Shlomo Avineri, laburista, decano di Scienze politiche alla Hebrew University di Gerusalemme: « Invece dovremmo ragionare, sull’economia, sui problemi sociali. Ma per tornare a ragionare bisogna che i bambini come mio nipote vadano a scuola senza rischio di venire ammazzati. L’iniziativa di pace di Ginevra? Una delle belle idee che finiscono sepolte nei cimiteri del Medioriente. La pace oggi è impossibile. Però ci vuole stabilizzazione, per rompere il circolo tra stragi terroriste, brutalità dei nostri soldati, nuove violenze » . La risposta apparente a questo bisogno di stabilizzazione è il « Muro » , una barriera contro le infiltrazioni dei kamikaze lunga 700 chilometri attorno ai Territori e a difesa delle colonie, già in parte costruita con costi faraonici e sconfinamenti di cinque o sei chilometri al di là della Linea verde del ’ 67, con terre e famiglie palestinesi separate, umiliazioni quotidiane ai check- point, nuova miseria. Molti israeliani non amano
REPORTAGE
TRA LA GENTE DELLA TERRA SANTA
chiamarlo « Muro » , perché la parola evoca ghetti, dittature, apartheid: preferiscono « fence » , « recinto di sicurezza « , disquisendo su quanti siano i chilometri di cemento e quanti quelli di reticolato. Avineri non ha paura delle parole. Però dice: « Ogni attentato è un mattone che si aggiunge al Muro, come fate a non capirlo voi europei? E come fate a non capire che nella battaglia contro il Muro avete la pessima compagnia della nostra estrema destra, che non vuole divisioni semplicemente perché desidera annettersi tutto? » . Fermare le stragi. Fissare un « punto zero » da dove si ricomincino a calcolare colpe e menzogne. E superare il senso di tradimento, che si avverte subito nel « triangolo della morte » , al centro di Gerusalemme, fra i ristoranti e le vetrine di Jaffa Road, King George e Ben Yehuda Steet, altra calamita per i « suicide bombers » .
David Dvir, 28 anni, compagno di Shimon Grossman nei gruppi di pronto soccorso, è il secondo volontario di Zaka a farci da guida. Il 21 marzo dell’anno scorso, alle quattro di pomeriggio, era fermo al semaforo su King George Street quando, dall’altro lato della strada, davanti all’Aroma Café, un ragazzo della sua età, Muhamad Hashaika, ex poliziotto dell’Autorità palestinese, s’è fatto saltare in aria, ammazzando tra gli altri Tzipi e Gad Shemeshi, moglie e marito. Tzipi usciva da uno studio medico, le avevano appena detto che era incinta di due gemelli, a casa aveva due bambine che ancora si domandano quando « papà e mamma torneranno dal cielo dove stanno » . David racconta: « La mia prima reazione è stata quella di chiunque. Sono scappato, sconvolto, mi sono infilato qui accanto, nella libreria Stematzky, ho telefonato a mio padre per dirgli ’ sto bene’.
Poi mi sono ricordato che sono un volontario, sono tornato indietro. Al walkie- talkie ci dicevano che i feriti dovevano essere decine, ma io vedevo solo i morti e pochi altri. Molti s’erano trascinati via sanguinanti, li hanno raccolti in un raggio di cinquecento metri » . Pochi giorni prima Muhamad Hashaika era stato arrestato dall’Autorità palestinese su soffiata dello Shin Bet.
Gli avevano trovato una cintura esplosiva. Poi i palestinesi hanno chiesto agli israeliani il permesso di portarlo a Ramallah, « in una casa sicura, per tenerlo sotto controllo » . Da lì è scappato o è stato rilasciato e s’è infiltrato a Gerusalemme per compire la missione e diventare un martire onorato nelle scuole di Gaza e West Bank.
A poche decine di metri da Aroma Café, c’è Sbarro: 15 morti, di cui sette ragazzini, e 130 feriti, due anni fa. Il locale è rifatto: tutto viene rimesso in piedi subito, qui, dopo ogni bomba. Il cuoco di allora fa adesso la guardia della sicurezza all’entrata: « Basta parlare, ora basta » , dice. Una ventina di clienti sfilano davanti al bancone delle pizze, David guarda i tavoli nuovi di zecca e racconta di quando « la gente era sminuzzata qui a terra, tra le cose » . « L’odore del sangue e della carne bruciata ti resta dentro anche dopo dieci docce. Quella notte ci siamo trovati alle due, venti di noi, a parlare di quello che avevamo visto. Hanno preso degli psicologi per aiutarci, anche se i nostri precetti non lo prevedono.
Qualcuno crolla » .
A Hillel Café, otto morti lo scorso settembre, David ha tirato giù dall’ambulanza una ragazza appena spirata, per far posto a un ferito: « E allora l’ho riconosciuta, era la mia amica Nava Appelbaum, vent’anni, la mattina dopo doveva sposarsi » . Nava è morta con suo padre, che da primario del pronto soccorso aveva salvato centinaia di vite e s’era preso un’ora, quella sera al caffè, per parlare con la figlia della sua nuova vita.
Gioia Perugia di figli ne ha tre. Daniel, il più piccolo, le ripete sempre « meglio se moriamo tutti insieme, mamma » . Lei votava per il Meretz, la sinistra, e lavorava con « Peace Now » . Adesso dice: « Non ho più la forza per queste cose » . Il ministro della giustizia Tommy Lapid, capo dei centristi dello Shinui, ci annuncia un’iniziativa di pace del suo partito: « La gente vuole speranza » . Ma la speranza pare uno slogan. Al Muro tra Abu Dis e Gerusalemme est una ragazzina scavalca, come tutti i palestinesi, sotto gli occhi dei soldati, mentre già si fa pomeriggio: si chiama Marwa Abuqalbeen, ha 16 anni, stessa età dell’ultimo terrorista suicida.
Tra lei e il suo liceo si estende la barriera di cemento. La cartella le rimane incastrata tra due lastre, punta i piedi per liberarla. « I kamikaze — dice — sono patrioti che ci difendono » . I soldati le fanno cenno di muoversi. Nei suoi libri di testo Israele nemmeno esiste, gli angeli in motorino sono dall’altra parte della storia.
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