I lati nascosti di Arafat
rivelati da Barry Rubin, consulente del ministero della Difesa israeliano
Testata: L'Opinione
Data: 06/11/2003
Pagina: 1
Autore: Aldo Torchiaro
Titolo: Arafat, nobel e dinamite
Riportiamo l'intervista di Aldo Torchiaro a Barry Rubin, uscita sull'Opinione di mercoledì 5 novembre 2003.
Incontriamo Barry Rubin, presidente del Global Research in International Affairs Center, consulente del ministero della Difesa israeliano, esperto di geostrategia e di questioni palestinesi in particolare, durante un suo breve soggiorno romano, ospite della Luiss. Invitato di alto livello, conteso da pubblicazioni, enti di ricerca, università di tutto il mondo, Rubin ha accettato una conversazione con L’opinione per anticipare alcuni punti della sua attesa biografia di Arafat. Della quale non si sa ancora quando e con chi uscirà in Italia. Ma sulla quale possiamo già scommettere: date le premesse, avrà l’effetto dilaniante e doloroso che sempre la verità assume, quando a lungo taciuta. "Alla base di tutte le incomprensioni non ci sono altri problemi se non quelli di natura economica", esordisce il nostro interlocutore. Che va dritto al punto: i soldi. "Arafat ne vuole tanti, per sé ed il suo clan. L’Anp ha negoziato con Israele su tutto. Sulla questione dei cosiddetti rifugiati, sui nuovi insediamenti, sulla spartizione di Gerusalemme. Come tutti sanno.

Quello che invece non si conosce è che un punto inamovibile delle trattative verteva sulla possibilità di aprire in tutti i Territori autonomi palestinesi delle sale da gioco, dei casinò, senza nessuna interferenza da parte israeliana". A Gerusalemme alla fine erano d’accordo tutti, a quanto pare. Ehud Barak fu quello che si pronunciò senza timidezza sulla questione: "Israele non ostacolerà alcuna iniziativa economica palestinese e meno che mai la liberalizzazione del gioco d’azzardo", aveva detto. "Incassata questa prima vittoria", ci dice Rubin, "ad Arafat non sembrava vero di poter parlare del punto che davvero gli stava a cuore: l’incasso dell’Iva". Si tratta, come tutti ben sappiamo, della tassa che ciascun consumatore paga ogni volta che acquista un qualsiasi prodotto. L’Iva, in Medio Oriente come da noi, è una garanzia di introito continuo per le casse dello Stato. Un tesoro vero e proprio, intorno al quale non a caso Israele e Palestina non si sono messi d’accordo.

Perché nelle trattative per la Road Map il punto vero di frattura a quanto pare era questo: a chi, nei prossimi due anni, fino cioè al primo gennaio 2005, versare l’Iva dei prodotti acquistati in Israele e nei Territori? E ben oltre questo, la richiesta più esosa: a chi andrebbe il versamento del 50% dell’Iva di quello che è oggi l’intero consumo in Israele? Arafat ha calcolato l’impatto miliardario che si sarebbe riversato nei suoi forzieri. E ha deciso di non mollare la presa. Non a caso il raìs è noto per la sua insaziabile fame di denaro. Malgrado non sia proprio un abilissimo investitore, ha saputo rastrellare negli anni milioni di dollari da fonti anche molto diverse tra loro. Dal Partito Comunista Cinese al Congresso Americano, dalla Lega Araba alla Chiesa Cattolica e all’Unione Europea, passando per tutti gli organismi dell’Onu, le ong, i sindacati, le associazioni culturali, i partiti politici, fino a giungere agli scouts. Praticamente il pianeta ha inondato di denaro i forzieri di quella Holding dello Shaìd-businness che è l’Anp. Società che, se fosse quotata a Wall Street, meriterebbe un rating altissimo. Propone un prodotto assolutamente inesistente, come l’identità storica palestinese, e lo riesce a vendere senza problemi in quasi tutto il mondo al prezzo che decide il suo amministratore unico, Yasser Arafat.

Che è infatti uno degli uomini più ricchi del Medio Oriente, ma si piazza solo centoventunesimo nella classifica mondiale basata, ahinoi, sulle sole stime dei servizi di intelligence. Essendo egli anche uno dei più clamorosi evasori fiscali del pianeta. Di Arafat ci viene fornito un dipinto ben diverso da quello che l’iconografia tradizionale diffonde. Barry Rubin ci parla dei due enormi conti correnti del raìs, capaci da soli di alimentare due istituti di credito non da poco: uno è a Londra, l’altro in Svizzera. Perché sa che se il primo potrebbe un giorno cadere sotto i colpi di una inchiesta internazionale sul terrorismo, il secondo sarebbe invece sempre e comunque al sicuro. E gioca, come in ogni frangente della sua vita, una partita doppia. In via formale chiede soldi "per le sofferenze del popolo palestinese", come in questi giorni ha indicato in una questua inoltrata al Papa, in via informale canalizza i finanziamenti sui conti correnti cifrati cui solo il rais stesso e pochi intimi hanno accesso.

Uno di questi, suo consulente finanziario, nel corso del 2001 ha "scelto la libertà" e, ottenuto un lasciapassare israeliano, ha preso una piccola parte del bottino per prendere il volo – più voli – fino a trovarsi una qualche isoletta paradisiaca dove vivere indisturbato la sua vita, lontano dalla corte di Arafat. Ma nella fuga ha lasciato capire all’intelligence di Gerusalemme qualche dettaglio che ancora mancava all’appello. E che ha anche consentito agli investigatori di ripercorrere all’inverso i canali di finanziamento partiti da alcune capitali arabe che hanno irrorato, oltre alle casse dell’Anp, quelle di altre multinazionali del terrore.
"L’Occidente si è innamorato un’altra volta della persona sbagliata", dice Rubin. "Arafat non ha alcuna preparazione per fare lo statista: perché non ha alcuna idea di come si costruisce e si amministra uno stato". Il suo successo internazionale? "Un misto di romanticismo, terzomondismo e nazionalismo. Arafat sa come pescare in mari diversi, come catturare le diverse sensibilità europee".

E allora cosa si può fare per fermarlo? "Bisogna fermarlo, questo è sicuro. Chi, come, quando non saprei dirlo", chiosa il nostro intervistato. "Ma le responsabilità individuali di quel signore sono evidenti, e un tribunale internazionale dovrebbe arrestarlo e giudicarlo. Ci sono documenti che provano come egli abbia finanziato le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, che hanno provocato decine di morti in Israele. E’ un mandante ed un complice dei terroristi, se esiste una giustizia al mondo lo devono giudicare per i suoi crimini, prima o poi". Barry Rubin ha pubblicato uno studio analitico sulla storia di Jenin che vorrebbe rendere noto in Italia, dove la propaganda palestinese ha insabbiato la verità dei fatti. Il professor Rubin parla pacatamente e con tutte le citazioni del caso. Sa di trovarsi a Roma, dove in tanti, in buona o cattiva fede, finiscono per avvalorare le solenni menzogne dell’entourage di Arafat. Ma non si perde d’animo e riassume i passaggi di quella vicenda.

"Arafat arma le Brigate dei Martiri, e vuole fare a Jenin la loro base d’azione, il loro quartier generale. Ma il sindaco di Jenin, che è un amico di Abu Mazen, si oppone. E’ uno di quelli che non condividono la teoria della duplicità negoziale arafattiana, ramoscello d’ulivo in una mano, kalashnikov nell’altra. Nasce una crisi istituzionale, che naturalmente Israele segue con preoccupazione. Nella stessa Jenin i sostenitori delle Brigate di Al Aqsa si fronteggiano in duri scontri di piazza con i sostenitori del sindaco e di una linea di disarmo. In capo a qualche giorno di anarchia, il sindaco si dimette. Arafat nomina un suo fedelissimo a nuovo podestà locale, e dà il via libera all’installazione delle strutture delle Brigate di Al Aqsa, con i depositi per i missili Qassam ed i campi di addestramento per i kamikaze. Solo a quel punto, una volta consapevoli dello spadroneggiamento dei caporioni del terrorismo sulla cittadina palestinese, Israele ha deciso di agire, entrando nella città e affrontando de visu i terroristi".

L’universo mediatico italiano ha filtrato la sola parola d’ordine del "massacro di Jenin", dopo che i carri armati e gli elicotteri israeliani avevano condotto una massiccia operazione di pulizia dell’area. Solo ora, con la puntuale ricostruzione di Barry Rubin, capiamo in pieno cosa è successo. "Israele non poteva agire diversamente. In pochi chilometri di città, occupata da terroristi ben armati, si concentravano quintali di tritolo che sarebbero serviti ad organizzare gli attentati kamikaze. Ecco che i soldati li hanno fatti saltare in aria, quei depositi. E tra i palestinesi sono morti in molti. Ma cos’altro potevano fare?".
Chiedo all’analista strategico il senso della minaccia del governo Sharon di espellere Arafat. Mi dice che "si tratta di un messaggio in codice. Di un avvertimento, se preferite. Nulla da prendere alla lettera. Anche perché non sarebbe possibile, senza un gravissimo spargimento di sangue, mandare a prendere Arafat nei meandri del suo bunker per invitarlo a salire su un aereo. Non voglio neanche immaginare quello che potrebbe succedere." L’idea del messaggio in codice va approfondita.

"Arafat ha capito che Israele vorrebbe che se ne andasse. Sa che non lo andremo a prendere con la forza. Ma sa anche che sappiamo molte cose su di lui, e che se lo scontro arriva al calor bianco, dal punto di vista anche personale, i servizi di intelligence israeliani potrebbero tirare fuori qualche asso dalla manica". Assi tali da mettere paura ad Arafat e indurlo a compiere le scelte che Israele si aspetta, quindi. Sulla natura di queste "leve" l’informatissimo Barry Rubin chiede il rispetto per i segreti di stato più scottanti, ma qualcosa la lascia trapelare. "Al di là dell’apparenza, in molti sanno che Arafat è perdutamente gay. In sé non ci sarebbe nulla di male. Ma diciamo che nella cultura islamica, oggi che i loro imam predicano una più rigida osservanza del Corano, l’evidenza sarebbe inaccettabile. La pratica omosessuale, per loro, è un tabù incrollabile. Avere le prove della consumata esperienza sessuale del loro raìs con altri uomini, sarebbe per i palestinesi uno choc senza precedenti".

La rivelazione è di quelle clamorose. Ci sarebbe modo di fornire la prova di questi ripetuti rapporti omosessuali? "Si, ci sono delle videocassette girate senza che il raìs se ne accorgesse. Che lo riprendono in una situazione davvero scabrosa, con uno e con più uomini contemporaneamente". Immagino sia materiale che l’intelligence israeliana è riuscita a realizzare. Rubin mi smentisce. Gli israeliani posseggono i nastri adesso, perché li hanno comprati a caro prezzo. "E’ andata così", mi dice il nostro interlocutore, che davvero di Arafat conosce ogni segreto. "Il raìs ha una passione per i giovani slavati, alti e biondi, così diversi dagli arabi da costituire ai suoi occhi un esotismo dall’attrattiva insopprimibile. Tra coloro che ben lo sapevano, il presidente rumeno Ciauseschu, che fingendo una complicità tra le righe una volta mandò al raìs una squadra olimpionica rumena fatta di bellissimi atleti biondi. Tutti pagati da quel regime per stare al gioco, e una volta nell’intimità della Muqata filmare ogni dettaglio, senza essere visti. Così hanno fatto.

E in breve il filmato hard è passato di mano in mano, ed è stato venduto in primis al Kgb, che lo ha analizzato, discusso, duplicato e infine proposto in acquisto ai colleghi del Mossad, ad un costo esorbitante. Gli israeliani naturalmente lo hanno comprato, ma non ne hanno mai fatto cenno apertamente. E’una delle carte che giocheranno se il raìs non vorrà farsi da parte nelle prossime settimane." Conclude Rubin. "Ma quello che passa nella mente di quell’uomo, ahimé, lo sa solo il diavolo". Del quale, per saperne di più, ci rimanda all’uscita della biografia.
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