L'Islam, la guerra e l'Occidente
secondo Daniel Pipes, analista di politica internazionale e consigliere di Bush
Testata:
Data: 31/10/2003
Pagina: 43
Autore: Bosetti - Ottolenghi - Caracciolo - Bartholomew
Titolo: Le due vie dell'Islam - Chi sta vincendo la pace?
Ieri, giovedì 30 ottobre, è stata pubblicata l'intervista a Daniel Pipes.
Finalmente i lettori di Repubblica possono conoscere il pensiero del consigliere di Bush. Meglio tardi che mai.
Ecco l'intervista:

Daniel Pipes è al fianco di Gorge W. Bush nella politica mediorientale. Il presidente lo ha voluto nella direzione del Cosniglio per la Pace, organo di indirizzo strategico, dopo l’11 settembre. Nei suoi saggi aveva preannunciato dal 1995 l’offensiva terroristica e due anni fa, dopo la catastrofe, è apparso profetico. I giornali americani, tutti, da allora se lo contendono. È una celebrità televisiva. Il New York Post di Murdoch se l’è aggiudicato come commentatore. «Chi non ha paura dell’islamismo non lo conosce», è una sua battuta. Pipes è un intellettuale «neocon» a tutti gli effetti. È a Roma ospite della Università Luiss-Guido Carli, dove esibisce agli studenti una eloquenza, essenziale, breve, concretissima. Lo ha invitato Victor Zaslavski, storico dell’Urss, collega del padre di Daniel, Richard Pipes. Il confronto tra padre e figlio è facile quanto inevitabile. Il figlio consigliere di Bush per la questione islamista, il padre consigliere di Ronald Reagan per la questione comunista: fu uno degli uomini chiave del «Team B» della Cia, una commissione che aveva il compito di stimare il potenziale strategico di Mosca e dal cui lavoro dipendeva il dosaggio del budget militare americano. I giornali si sono già esercitati sul tema «la crociata di padre in figlio», ma accolgo il suggerimento di Zaslavski e la nostra intervista comincia da qui.

Lei è portatore di un’eredità intellettuale e politica: accetta l’analogia tra il lavoro di suo padre sull’Unione Sovietica allora e il suo sul mondo islamico oggi?
«Sì, il ruolo di mio padre era quello di studiare e di spiegare all’opinione pubblica americana i fattori per cui la Russia poteva costituire un pericolo. Oggi la democrazia occidentale si trova ad affrontare una nuova minaccia: l’Islam militante».

Quali sono le ragioni principali che fanno dell’integralismo radicale un atteggiamento così diffuso nell’Islam?
«Fondamentalmente un profondo senso di frustrazione. Il mondo mussulmano oggi non si trova più nella posizione privilegiata che occupava in passato. Da ciò scaturisce questa sua incontenibile aggressività».

Non ci sono stati errori da parte degli Stati Uniti e del mondo occidentale?
«I singoli fattori non sono determinanti: la povertà, le carestie, una politica americana sbagliata sono solo la punta dell’iceberg. La base motivante dell’integralismo non è affatto circoscritta. Si tratta di un sentimento profondo, di un risentimento che ha molto a che fare con una crisi di identità del mondo arabo, per la quale l’Islam militante, al momento, sembra a molti l’ujnica soluzione possibile».

A molti, quanti?
«I radicali del mondo islamico sono una minoranza, stimabile intorno a 10-15 per cento, ma sono organizzati, sono loro a fare l’agenda».

La sua conferenza alla Luiss si intitola Esiste un Islam moderato? Come risponde a quella domanda?
«Rispondo che esiste ed è molto importante. E aggiungo: l’Islam militante è il problema e l’Islam moderato è la soluzione».

Il concetto di Islam moderato non è un po’ troppo vasto? Comprende situazioni di Islam democratico come la Turchia, ma altre come i regimi arabi dove «moderato» vuol dire non ostile agli Stati Uniti però per niente liberal.
«Sì, è un concetto un po’ troppo vasto. Sarebbe meglio dire "non islamista", se non fosse più difficile da far intendere. Nella sua storia l’Islam è stato un movimento molto aggressivo, ma ha avuto lunghi periodi di tranquillità nel 1969 quando decisi di dedicarmi a questo tema, l’Islam sembrava una questione in declino. Ora ci troviamo nel momento più radicale della storia dell’Islam, più radicale e distruttivo di quanto sia mai stato in passato».

Come spiega l’emergere del fondamentalismo musulmano negli ultimi decenni?
«Il fondamentalismo è una risposta alla modernità, un modo di rapportarsi ad essa. Si tratta di una particolare maniera di confrontarsi con l’attualità contingente. Ed è interessante notare che alcuni – se non la maggior parte – dei leader e degli intellettuali dell’Islam militante sono professionisti –architetti, dottori, imprenditori, ingegneri- che spesso hanno anche alle loro spalle un’esperienza formativa in Occidente. Non sono contadini di paesi in via di sviluppo».

Ritiene che perciò si stia avverando la profezia di Huntington dello «scontro fra le civiltà»?
«No, non credo sia questo il punto. D’altra parte abbiamo continue dimostrazioni della significativa presenza di occidentali che capiscono e giustificano il fondamentalismo. E altrettanto significative prove dell’esistenza di mussulmani che invece lo odiano. Proprio come alcuni dei maggiori esponenti dell’anticomunismo sono stati di origine sovietica, così anche molti dei più accesi nemici dell’integralismo provengono da paesi in cui esso è una logica dominante. Alcuni dissidenti sono famosi – come Salman Rushdie – molti altri no, ma tutti loro costituiscono una componente imprescindibile del mondo arabo, che potrebbe rivelarsi la chiave per scardinare il fondamentalismo».

C’è chi sostiene, come il tedesco Bassman Tibi, che a fermare il fondamentalismo, a liberarci dalla Jihad, potrebbe essere l’Europa, se si decide a volerlo, attraverso l’educazione democratica degli immigrati, altri come Michael Walzer sostengono che già adesso la società americana sta educando le comunità islamiche. Lei cosa ne pensa?
«L’impulso definitivo alla liberazione dalla Jihad verrà in generale dall’Occidente e non dal Pakistan o dall’Arabia Saudita. Siamo dunque noi che dobbiamo impegnarci, non possiamo aspettarci che il mondo arabo faccia da solo. Tra America ed Europa, sarei più incline a considerare l’opzione americana, proprio perché negli Stati Uniti c’è al momento una maggiore integrazione tra mussulmani e popolazione autoctona. In Europa gli arabi sono ancora relegati in una posizione di marginalità, anche se esistono certamente degli intellettuali di tutto rispetto, come Bassam Tibi, appunto, o Tariq Ramadan. Ma il punto è che la libertà arriverà da qui, dall’Occidente».

Ma sia Ramadam, musulmano, sia Walzer ebreo-americano, insistono che ogni cultura deve arrivare alla democrazia attraverso un suo interno processo e dire a un certo punto: ecco la libertà è una idea che trovo nelle radici della mia cultura. Non da fuori.
«Si tratta di un’estraneità puramente geografica, non concettuale. Si tratta solo di rielaborare la religione islamica compatibilmente con i nuovi valori. Cinque secoli fa, mussulmani, cristiani ed ebrei erano ugualmente convinti che possedere degli schiavi, in alcuni casi, fosse accettabile. Allo stesso tempo, però, dare importanza al denaro non era un comportamento altrettanto condivisibile. Da allora, cristiani ed ebrei hanno cambiato idea: la schiavitù è diventata inammissibile e il denaro, con l’avvento del capitalismo, ha preso a farla da padrone. È stata una trasformazione radicale, che però non si è verificata nel mondo islamico. Nei paesi arabi, la schiavitù esiste e non è assolutamente messa in discussione. E il tabù del perseguimento del profitto personale è vivo più che mai».

Il mondo musulmano corrisponde ad aree di ritardo economico.
«Ma cominciano ad esistere aziende che fatturano anche più di 150 miliardi di dollari statunitensi ed è da lì che può arrivare il colpo di grazia alla Jihad. Da lì, ma anche da una riformulazione del ruolo sociale delle donne e delle minoranze. Il concetto di Jihad è profondamente radicato nel mondo arabo. Per rimuoverlo bisogna scardinarlo dall’interno, modernizzarlo, metterlo a confronto con nuovi valori. Valori che possono anche provenire dall’esterno in senso geografico, ma devono venire introiettati dal mondo islamico».

Alla politica estera dei «neocon» appartiene l’idea di una progressione: dopo l’Iraq, l’Iran. La scrittrice liberal di Teheran Azar Nafisi dice: Americani, per favore, non vi occupate di noi, ce la stiamo facendo da soli… Che progetti ha Bush?
«Non conosco la posizione della Casa Bianca in merito. Sono d’accordo con la Nafisi, ma con una precisazione. Se l’Iran intraprenderà delle azioni aggressive o ostili nei nostri confronti, dovremo fermarlo. Si tratta di stabilire dei limiti. Finché si resta entro una certa area, tutto va bene. Quando si inizia a sconfinare, la situazione diventa più pericolosa. Ma mi sembra che le cose stiano andando per il verso giusto. Il regime iraniano è nelle condizioni della Russia di Breznev».
Segue la trascrizione della tavola rotonda del 29 ottobre 2003 della redazione de Il Foglio con Daniel Pipes, pubblicata sul quotidiano di oggi, venerdì 31 ottobre. Vi hanno partecipato, oltre a Pipes, Reginald Bartholomew, Lucio Caracciolo ed Emanuele Ottolenghi. La trascrizione è stata curata da Rolla Scolari.

Ottolenghi – Dall’11 settembre il mondo occidentale si è reso conto della crescente minaccia dell’Islam radicale, che ha adottato i mezzi del terrore. Dal 2001 una coalizione guidata dall’America ha combattuto due guerre, in Afghanistan, in Iraq. Il conflitto arabo-israeliano è tornato sulle prime pagine
dei giornali ed è stato al centro delle attenzioni della diplomazia internazionale. Oggi siamo qui per discutere, dopo due anni, se esiste una correlazione causale tra il conflitto israelo-palestinese e la nascita del terrorismo islamico, qual è questa relazione, quanto è forte, quali sono i mezzi per far fronte al problema del terrorismo, quali le cause dell’Islam militante. Siamo qui per discutere anche se i mezzi scelti dall’Amministrazione
americana siano la risposta più efficace al problema, se le due guerre abbiano raggiunto gli obiettivi prefissati, cosa dovrebbero fare Stati Uniti ed Europa, e infine come dare potere a coloro che sono direttamente interessati dalle crisi in Medio Oriente. Iniziamo dalla guerra in Iraq. Come sta andando in termini di lotta al terrorismo e pacificazione del paese? Si può importare un modello di governo finora estraneo alla regione?

Pipes – Militarmente la guerra è andata molto bene tra marzo e aprile. Ora non sta andando bene nel senso che a molti in Iraq e in altri paesi limitrofi non fa piacere vedere un successo della coalizione. Sono pessimista: credo che loro siano più determinati a farlo fallire, di quanto la coalizione non sia determinata al successo. Mi piacerebbe vedere una veloce evacuazione delle truppe lasciando il ripristino della sicurezza nelle mani degli stessi iracheni.

Bartholomew – Credo di essere d’accordo. Il pericolo non è che l’esercito rimanga troppo a lungo, ma che se ne vada troppo presto. Non credo che lo farà: la posta in gioco è troppo alta, ma è una situazione politica molto difficile. Sono moderatamente più fiducioso di Pipes: la coalizione terrà duro, perché la posta in gioco è troppo alta. Una disfatta sarebbe un successo dei terroristi,
perfino più grave dell’11 settembre, e avrebbe pesanti implicazioni per tutto il Medio Oriente. Ero ambasciatore in Libano al tempo dell’assalto ai marines (1983, ndr). Il veloce ritiro delle nostre truppe subito dopo fu per noi una sconfitta: è stato un momento storico nello sviluppo del terrorismo.

Caracciolo – La guerra è iniziata quando Bush ne ha dichiarato la fine. Il problema attuale è il tipo di guerra asimmetrica che si farà nei prossimi mesi in Iraq, asimmetrica sia dal punto di vista dei mezzi che degli obiettivi. Prima di tutto gli insorti iracheni stanno scommettendo sul fatto che gli americani se ne andranno. Per accelerare questo processo stanno utilizzando tutti i mezzi terroristici possibili. Sono un gruppo molto diversificato, ma senza un unico comando centrale. Possiamo identificare almeno due tipi di guerriglieri o terroristi oggi in Iraq: i perdenti, dalla parte di Saddam, intendo le forze armate, che sono state smantellate ma non disarmate dalla coalizione e professionisti del Jihad che vedono nell’Iraq un terreno fertile per i loro obiettivi. C’è poi il problema maggiore: l’Iraq non esiste, non esisteva nemmeno prima ed è molto improbabile che esisterà dopo, perché la sola colla che teneva insieme l’Iraq era una dittatura centralizzata. Sotto Saddam i curdi vivevano una vita più o meno indipendente (dopo l’imposizione delle no-fly zones nel 1991, ndr), mentre gli sciiti erano esclusi dal potere. E’ arduo
tenere insieme persone così diverse per cultura, retroterra e obiettivi. Non vedo come i sunniti potranno mai accettare di essere tribù minore nel futuro quadro costituzionale. Né i curdi potranno mai essere governati da Baghdad, sono già una sorta di Stato indipendente, anche se non de iure. Per quanto riguarda gli sciiti, c’è una guerra in corso, che forse esploderà nei prossimi mesi, su chi li rappresenterà. Tutte le figure più rilevanti dell’area sciita
sono legate all’Iran. Ma gli iraniani, molto influenti, non sono interessati a nessun tipo di stabilizzazione dell’Iraq, perché dal loro punto di vista la caduta di Saddam è stata una grande opportunità per eliminare il fattore di potenza iracheno nel Golfo. L’esito della guerra dal loro punto di vista è che l’Iran rimarrà la sola potenza guida dell’area, insieme all’Arabia Saudita. Sul
campo ci sono persone che hanno un’idea completamente diversa dalla nostra di cosa sono la vita, il tempo, il fine dell’esistenza. Non inquadriamo il problema se paragoniamo questa guerra alla Seconda Guerra mondiale, alla Guerra fredda e se facciamo paragoni tra l’occupazione dell’Iraq e quella di Italia, Germania o Giappone. Dobbiamo affrontare il caso specifico.

Ottolenghi – Mi sembra che gli ultimi due anni abbiano sottolineato che molti dei presupposti comunemente accettati si sono rivelati obsoleti o sbagliati. L’ipotesi tradizionale che sciiti e sunniti non si uniranno mai, è stata sconfessata dal supporto iraniano alla causa palestinese, l’ipotesi che il ramo siriano e quello iracheno del Baath non collaborino è stata smentita dall’attiva
cooperazione siriana col regime di Saddam fino alla sua caduta. Anche l’idea che islamisti e laici non possano allearsi appare ridicola oggi, viste le chiare prove di cooperazione in Iraq tra Jihadisti e Baathisti. Stesso discorso per l’integrità dell’Iraq. Possiamo forse immaginare un Iraq diviso in tre Stati? Quali sarebbero le implicazioni, renderebbe l’Iran un attore troppo potente? Che effetti avrebbe sui paesi limitrofi e sulle loro minoranze?

Bartholomew – Ho visto personalmente in Libano sunniti e sciiti cooperare. Per
quanto riguarda la Siria si può spiegare tutto ascrivendolo ai suoi calcoli geopolitici. Esiste un problema sciita in Iraq, e un problema curdo, ma quello che deve essere detto è che la divisione non è un’alternativa. Se il problema è insolubile, allora forse l’unica alternativa è un altro Saddam, un uomo che tenga il paese insieme con la forza. La questione è se possiamo creare una sorta di sistema moderno che garantisca effettivamente una sorta d’equilibrio ed
equità tra queste comunità. E’ un obiettivo ambizioso come creare uno Stato in Afghanistan quando non c’era uno Stato da tempo immemorabile. A me sembra che non si possa lavarsene le mani e andarsene. C’è stato un tempo in cui pensavamo di non potercela fare, si diceva: "non facciamoci coinvolgere!, se si uccidono fra di loro, come possono avere un effetto su di noi?". L’11 settembre ha cambiato tutto: abbiamo scoperto che potevano colpirci. Non credo che ci sia altra soluzione accanto al tentativo che stiamo facendo. Credo che si faccia
della realpolitik parlando di un Saddam meno sanguinario e modernizzatore, un Mubarak magari.

Pipes – Il paragone rilevante è il 1918 e il 1945. Per rimediare gli errori del 1918 che contribuirono all’ascesa del nazismo, nel 1945 gli alleati decisero di riabilitare gli sconfitti. Il modello del 1945 non è però applicabile all’Iraq: solo perché gli Stati Uniti hanno sconfitto un paese, questo non significa che siano responsabili per la sua riabilitazione. Desidero sconfiggere i talebani e
Saddam, aiutare, ma non prendermi la responsabilità di spendere 20 miliardi di dollari per ricostruire l’Iraq. Non penso che avremo successo. Penso che dobbiamo prenderci meno responsabilità e avere un progetto meno ambizioso. Nella seconda guerra mondiale avevamo a che fare con dei paesi sconfitti. In Iraq non c’è il senso della sconfitta, non puoi vincere una guerra senza che gli avversari ne escano con un senso di sconfitta.

Caracciolo – Qual era secondo voi l’obiettivo di quest’operazione?

Pipes – Nel ’91 pensavo che le ispezioni e la politica del contenimento sarebbero state soddisfacenti. Nel ’98 mi sono ricreduto. Saddam si prese un impegno, firmato nel ’91, accettando il disarmo; non lo ha rispettato, quindi occorreva intervenire.

Bartholomew – Nel ’91 non rovesciammo Saddam perché non eravamo pronti ad assumerci le responsabilità che ne derivavano. Ma l’11 settembre ha cambiato tutto. Il contenimento non ci protegge più. Non credo però sia nostro obbiettivo creare un Mubarak, ma un regime relativamente moderno e libero.

Caracciolo – Non sono d’accordo con Pipes quando dice che gli Usa non hanno una
responsabilità. Se fate la guerra a un paese dovete mettere in conto che per un periodo, avrete responsabilità in quel paese. Siete responsabili in quanto forza occupante, anche in termini di legge internazionale.

Pipes – Questo non lo capisco.

Caracciolo – Allora lasciate il paese.

Pipes – Non voglio rimanerci. Non sono moralmente responsabile. Posso rimanerci
per ragioni tattiche ma non esiste un dovere morale di riabilitare il paese.

Caracciolo – Ma ora dopo la guerra se lasciate il paese sembrerà una sconfitta!

Pipes – Ci siamo liberati dei talebani e di Saddam. Questo basta.

Caracciolo – Ma come sa i talebani ci sono ancora in certe parti dell’Afghanistan e Saddam è da qualche parte in Iraq. In ogni caso, qual è l’esito pratico di quest’operazione, parlando dell’Iraq, ma possiamo prendere in considerazione anche l’Afghanistan?

Pipes – Il mio obiettivo è di proteggere il mio paese, non di renderne stabile un altro.

Caracciolo – Sarà, ma intanto quello che sta succedendo in Iraq è che stanno sparando sui vostri soldati.

Bartholomew – Un altro modo di proteggere gli Stati Uniti è non lasciare che il paese diventi un vivaio per il terrorismo.

Pipes – Sono d’accordo con questo, sto solo dicendo che non c’è una responsabilità morale. Se dovessimo decidere di spendere più soldi e vite sarà una decisione basata sull’interesse americano, non un’applicazione di un dovere morale

Ottolenghi – Esiste un’opzione politica diversa per il Medio Oriente oltre ad anarchia, dittatura e regimi islamici? Il secondo punto è che il sostegno regionale alla coalizione del ’91 derivava dal fatto che Saddam aveva sfidato lo status quo. La guerra del ’91 mirava a ristabilirlo, quella del 2003 mirava
a sovvertirlo, da cui l’opposizione dei regimi arabi. Come affronta la regione questa sfida allo status quo minacciato dal progetto di creare un Iraq democratico e chi vincerà lo scontro?

Pipes – C’è un’alternativa a prigione e anarchia, ma occorre tempo. Democratizzazione significa stato di diritto, libertà di pensiero, sviluppo dei partiti, elezioni, associazioni di volontariato… Dobbiamo spingere in questo senso.

Ottolenghi – Ci può essere un interesse nel fallimento dell’America?

Bartholomew – Penso che un fallimento avrebbe un tremendo impatto sulla regione,
creerebbe caos nelle minoranze, e in tutti gli elementi più radicali di queste società. Anche la creazione di un regime moderno potrebbe creare altri problemi.

Caracciolo – Rispondo con una domanda. L’Iraq è più sicuro rispetto a prima ora che si è formata una coalizione di sunniti e sciiti guerriglieri e terroristi?

Pipes – Da un punto di vista americano è una situazione migliore di quella di prima.

Caracciolo – Sono piuttosto scettico. Pensate che la democrazia in Iraq sia possibile? Io non ne sono sicuro. Il mondo non ci sta aspettando per essere occidentalizzato e non occidentalizzeremo il mondo.

Bartholomew – Se tu Lucio dovessi affrontare il problema che ha davanti la politica americana rimarresti o andresti via?

Caracciolo – Io starei. Andarsene adesso sarebbe percepito come una disfatta. Penso che non si potrà mai avere nessun tipo di Stato nazionale iracheno, sono d’accordo con Pipes, ma si può raggiungere un compromesso accettabile. C’è un fattore integrante molto forte in Iraq: il petrolio. Non significa che si avrebbe una democrazia, ma una specie di patchwork di tribù e gruppi religiosi, un compromesso, una sorta di confederazione.

Bartholomew – Credo che sia improbabile che l’Amministrazione stia cercando di
creare una democrazia occidentale. Se riuscissimo ad arrivare a un esito simile a quello di cui tu stai parlando sarebbe da considerarsi un sistema relativamente moderno e stabile. Ma possiamo arrivarci?

Carracciolo – Per me il più grande errore degli Americani in Iraq è il non aver dato prospettive ai sunniti.

Ottolenghi – La seconda questione è la guerra al terrorismo. Da una parte la guerra al terrorismo è stata un successo: dall’11 settembre i terroristi non sono più riusciti a portare a segno un altro attacco contro obiettivi occidentali. D’altra parte al Qaida non è stata sconfitta, bin Laden non è stato
preso, l’opinione pubblica europea è molto divisa. Bin Laden è riuscito a mettere in crisi l’Arabia Saudita, a creare problemi nei rapporti tra Stati Uniti e Riad, il Pakistan è sempre più fragile: il terrorismo è riuscito ad allontanare paesi alleati. Il terrorismo sta vincendo o sta perdendo? Le strategie utilizzate finora sono efficaci?

Pipes – Il terrorismo non è un nemico ma una tattica. L’Islam non è un nemico. L’11 settembre ha cambiato la percezione del terrorismo, ora il punto non è catturare le persone, ma distruggere le infrastrutture del nemico come in Afghanistan. Ma non si tratta solo di terrorismo, ma di un’ideologia totalitaria come il fascismo.

Caracciolo – Bush ha detto "Più avremo successo, più saremo attaccati". Chiaramente una contraddizione. Perché questa è una guerra di una superpotenza contro una serie di reti terroristiche: una guerra asimmetrica, ed è quasi impossibile capire se stiamo vincendo o meno. Come potete evitare che questi gruppi attacchino voi in America o attacchino l’Occidente? Stiamo facendo il possibile a questo proposito?

Bartholomew – Sono stati fatti progressi dall’11 settembre. Quello che Pipes ha detto, che è una guerra contro un’ideologia totalitaria, è vero. Mi rendo conto che potrei rischiare di essere etichettato come anti- Islam, o fomentatore di una guerra tra religioni, ma mi sembra che queste persone rappresentino una forma distorta di Islam nella direzione di un’ideologia totalitaria. Ci vorrà del tempo.

Ottolenghi – I terroristi stanno raggiungendo alcuni dei loro obiettivi?

Caracciolo – Quali sono i loro obiettivi? Non mi sembra che stiano facendo questa guerra per sconfiggere l’America. Non sono stupidi. La stanno facendo per salvare i regimi corrotti, Arabia Saudita, Egitto e Pakistan. Il problema è: daremo sostegno al Pakistan e all’Arabia Saudita contro Osama, anche se sappiamo che hanno connessioni con lui e con i talebani, oppure no? Molti in America dicono di essere stati attaccati non da bin Laden, ma da qualcuno nel regime saudita, quindi bisogna sbarazzarci di questi. E’ una buona risposta?

Pipes – Io non sono d’accordo con lei, e penso che invece queste persone siano stupide. L’obiettivo non è quella di sostituire regimi nel mondo musulmano, ma sono gli Stati Uniti, in parte perché sono visti come il principale ostacolo al cambiamento di questi regimi. E’ il centro del mio lavoro in questi giorni: le aspirazioni islamiche in Occidente. Si sentono in una battaglia cosmica contro l’Occidente liberale. Vogliono rimpiazzare la Costituzione con il Corano.

Bartholomew – Lucio, dire che questi sono paladini che combattono una guerra contro una terribile corruzione, è fuori strada. La corruzione contro la quale combattono sono le connessioni di questi regimi con l’Occidente liberale, il fatto che non hanno imposto la Sharia nelle loro società e che permettono questo terribile modo di vita occidentale. Penso che queste persone vedano gli Stati Uniti come il nemico principale. Cosa accidenti era allora l’11 settembre?

Ottolenghi – Bernard Lewis ha parlato del concetto di Occidente percepito come
Satana. Il concetto di Satana è associato nell’Islam all’idea del grande tentatore che ti seduce e ti porta fuori dalla retta via. Quindi in un certo senso l’Occidente è un nemico che porta i musulmani fuori dal tracciato; sostiene regimi corrotti che hanno abbracciato uno stile di vita occidentale, ma è anche un’influenza culturale che corrompe il loro ideale di modo di vivere. Si tratta di due questioni: la prima, rimuovere questi regimi corrotti che hanno lasciato che questa corruzione penetrasse il mondo musulmano, e infine affrontare il nemico lontano, l’Occidente. Ci sono però obiettivi più immediati: portare il mondo musulmano nuovamente sul vero sentiero di Dio. Dopodiché potranno muoversi nel resto del mondo.

Pipes – Tornando al 1979, la speranza di Khomeini era quella che tu hai appena suggerito. Ci sono due punti importanti in quest’ideologia. Il primo è il tentativo di sviluppare una società islamica basata su un modo di vita musulmano. Il secondo è l’idea che gli Stati Uniti siano i patroni di questi regimi corrotti e il solo modo per realizzare la rivoluzione islamica è mandarli via. Queste persone si presentano come i combattenti della corruzione in Arabia Saudita.

Caracciolo – Difenderemo con ogni mezzo il regime saudita anche se sappiamo che fa parte di una rete oppure no?

Pipes – Per quanto non mi piaccia la monarchia saudita, la preferisco all’alternativa talebana.

Bartholomew – Sono d’accordo.

Caracciolo – La mia impressione è che molti europei, e non sto parlando solo di comunisti o della sinistra, ma anche conservatori e altri, non vogliono che gli Stati Uniti abbiano successo in questa guerra. Per almeno due ragioni. Primo perché se l’America non avesse successo ci sarà una specie di bilanciamento del potere nel mondo, e secondo perché molte persone in Europa sottostimano il problema del terrorismo. Quindi esiste un problema che non è solo l’America nei confronti del terrorismo islamico, ma qual è il ruolo dell’America nel mondo e come le relazioni tra noi europei e l’America stanno cambiando.

Bartholomew – Credo che, alla fine, se si fallisce in Iraq, l’Europa sarà molto più colpita degli Stati Uniti.

Caracciolo – Assolutamente sì.

Ottolenghi – Colgo l’occasione per introdurre un altro argomento. Mi sembra che
una delle differenze che differenzi gli europei e gli americani, sulla percezione dell’attuale crisi, sia la vecchia questione del conflitto israelo-palestinese. In un certo senso si sono potute sentire parecchie voci in Europa durante la guerra in Iraq e subito dopo. La percezione è quella che molti dei problemi che la presente Amministrazione sta affrontando, il problema del terrorismo globale, la nascita dell’Islam militante, sono tutti in un certo senso connessi con il fallimento nel risolvere la disputa arabo-israeliana. Mi sembra che alcune persone dicano dall’altra parte dell’Atlantico: "Non è che abbiamo fallito perché non abbiamo tentato abbastanza, ci abbiamo provato troppo, e abbiamo fallito perché il problema sta da un’altra parte". Una delle differenze principali, forse una delle più significative tra la percezione americana e quella europea sulla presente situazione in Medio Oriente è proprio se si deve iniziare a risolvere il conflitto israelo-palestinese per poi passare al resto della regione oppure se il tentativo è fallito perché il problema non è risolvibile se non vengono prima cambiate le condizioni nel resto della regione.

Pipes – Non sono completamente d’accordo con te. L’Iraq è un problema distinto da quello del conflitto israelo-palestinese.

Batholomew – Bisogna dire che risolvere il conflitto israelo-palestinese aiuterebbe certamente.

Caracciolo – La questione palestinese è centrale, ma non rappresenta il quadro intero. E dobbiamo accettare il fatto che per i prossimi due anni non ci sarà nessuna risoluzione seria, per il semplice motivo che ci saranno le elezioni presidenziali in America nel 2004 e non penso che prima delle elezioni Bush e subito dopo un nuovo presidente saranno in grado di affrontare in maniera seria la questione. In secondo luogo non credo che ci sarà alcun accordo serio con Arafat. C’è bisogno di una nuova e più legittima autorità palestinese, che probabilmente non sarà molto gradita, potrebbe succederli uno come Barghouti, in ogni caso è necessario che ci sia una persona che veramente rappresenti il territorio e il popolo, non che viva a Tunisi o da altre parti. Dobbiamo affrontare il fatto che questo problema non verrà risolto per almeno due anni. Forse mi sbaglio, ma mi sembra che le persone coinvolte, israeliani e palestinesi, che sanno bene che non ci saranno negoziati, stiano cercando di produrre fatti non facilmente reversibili in un futuro negoziato, come il muro e il terrorismo palestinese. Mi sembra anche che in Israele e in alcune parti dell’establishment americano, l’idea della soluzione dei due Stati sia morta. Ci sarà un Israele più grande, e ci sarà un territorio lasciato all’Autorità palestinese, ma sotto un forte controllo israeliano. Accetteremo l’idea di un solo Stato? Secondo me l’unica prospettiva valida è quella di due Stati, perché qualsiasi altra soluzione porterà ad altri conflitti.

Pipes – Non dobbiamo usare la diplomazia. E’ il momento per tutti noi di lavorare insieme, per convincere i palestinesi che Israele esiste ed è una società occidentale moderna. Quando lo faranno ci saranno tanti compensi. Ma non lo faranno, finché non avranno il senso di aver perso guerra. Quindi niente diplomazia.

Ottolenghi – Si può discutere sul fatto che la disputa israelo-palestinese è il conflitto dove la diplomazia occidentale è stata più attiva…

Caracciolo – Quella americana…

Bartholomew – Non direi, c’è il famoso Quartetto…

Ottolenghi – La diplomazia occidentale ha sempre cercato di trovare una soluzione alla questione. Questo sforzo mi sembra basarsi su due punti: primo, c’è un problema, si trova una soluzione. Secondo, è la singola questione che bisogna affrontare. Lo scorso anno ha mostrato che il più intenso sforzo per risolvere il problema è fallito perché il divario tra le parti è troppo vasto; e la quantità di tentativi falliti dovrebbe suggerire che bisogna focalizzare l’attenzione altrove e lasciare le parti utilizzare i loro propri mezzi. Possiamo accettare violenze in corso nella Terra Santa, così come accettiamo la
violenza in Congo? Oppure questo conflitto in atto, è su un livello simbolico, emozionale, geopolitico, economico e sociale troppo pesante da sopportare?

Pipes – Il conflitto israelo-palestinese ha una visibilità che è differente da quella di qualsiasi altro conflitto in Africa Centrale.

Bartholomew – Mi è difficile immaginare un universo dove la disputa arabo-israeliana possa diventare il Congo! Forse c’era un’opzione come questa decenni fa. Ma non dove siamo arrivati adesso. Sarà sempre una priorità nell’agenda internazionale.

Ottolenghi – Perché è così e perché non possiamo trattare la Palestina come irrilevante?

Bartholomew – Perché gli Stati Uniti hanno un impegno molto profondo dalla fondazione dello Stato d’Israele, e non si tratta semplicemente della questione della lobby ebraica nella politica americana. Secondo, penso che la questione abbia talmente tante implicazioni, anche per quanto riguarda l’Europa. E’ un fatto che i più grossi sforzi diplomatici europei siano rivolti al Medio Oriente, Lucio. L’origine del terrorismo, ha un impatto su tutta la politica araba della regione. E non con un buon effetto.

Pipes – Io sono d’accordo, penso solo che a meno che non ci sai una bomba o un attacco o qualche violenza che attrae forte attenzione, si possa dedicare minore attenzione alla questione.

Bartholomew – Se dovessi scegliere un modello simile, sarebbe Cipro: fai una linea verde, separi l’isola e esce dalle prime pagine, perché non molte persone vengono uccise. Ma questa non è Cipro, mi spiace!

Ottolenghi – Una provocazione: se la Bibbia fosse stata scritta in urdu e se Gesù fosse nato in Kashmir, probabilmente il Kashmir avrebbe il posto del conflitto araboisraeliano? Seconda provocazione: finché dura, il conflitto fornisce una solida scusa ai regimi del mondo arabo a non modernizzarsi, e mantenere insatabilità.

Bartholomew – C’è interesse da parte di certi regimi dell’area a deflettere l’attenzione da loro stessi alla questione palestinese.

Pipes – Il problema non è solo di élite, il rifiuto di Israele è condiviso a tutti i livelli della società, è un fenomeno di base. Basti pensare alla Giordania, dove la pace con israele è stata riffiutata a tutti i livelli, da sindacati, intellettuali eassociazioni professionali.

Caracciolo – Io non sono d’accordo su un punto con il dottor Pipes, sul fatto che non dobbiamo intervenire nel conflitto israelopalestinese. Credo che non ci saranno soluzioni, come ho già detto, per altri due anni, per via delle elezioni, e non è possibile trovare una soluzione senza un coinvolgimento americano. Inoltre dobbiamo evitare due pericoli, cosa che prevede il nostro impegno. Il primo è una sorta di anarchia estesa nell’autorità palestinese. Arafat lascerà chiaramente presto, quindi si avrà il problema della leadership. Dobbiamo aiutare i palestinesi a trovare un leader capace di firmare un accordo e rimanervi fedele; secondo dobbiamo evitare che gli israeliani creino un fait accompli sul territorio che non permetta in un secondo tempo di tornare alla soluzione dei due Stati. Con questi due obiettivi in mente dobbiamo fare qualcosa di sensato dal momento che ci divide dai veri negoziati.
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