Il malvagio Sharon, il "muro" e la fantasia della cronista
Dal Corriere ci aspettiamo informazioni obiettive ed autorevoli, non il contrario.
Testata: Corriere della Sera
Data: 26/10/2003
Pagina: 10
Autore: Elisabetta Rosaspina
Titolo: Sharon allunga il muro in Cisgiordania. La casa a Est, gli ulivi a Ovest. In mezzo la ‹barriera›
Una pagina intera del Corriere di domenica è stata firmata da Elisabetta Rosaspina, e non una sola riga di questa pagina riporta un singolo parere di parte israeliana sul tema, delicatissimo, della barriera difensiva che dividerà israeliani e palestinesi.

I pareri citati o assunti come base di ragionamento sono tutti ed esclusivamente di una sola parte, quella palestinese, e la lunga storia strappalacrime di un villaggio palestinese diviso in due è zeppa di inesattezze e contraddizioni, nuovamente tutte intese a mettere in cattiva luce Israele.

Proviamo ad analizzare alcuni di questi passaggi, che danno il tono e costituiscono il motivo conduttore delle due corrispondenze.

La barriera, che viene definita solamente col suo nome spregiativo ed impreciso di "muro", fin dal titolo risulta essere "una prigione" per tutti i palestinesi. E la cartina che correda l'articolo è difficilmente interpretabile anche per chi è addetto ai lavori, figuriamoci per un profano; l'impressione che se ne ricava ad un esame rapido, come normalmente è quello di chi legge l'articolo di un giornale, è che un enorme muro stia rinchiudendo già oggi tutta la Cisgiordania, fittamente punteggiata da supposte colonie ed insediamenti. Il che non è vero, e basta confrontare questa cartina pubblicata dal Corriere con altre semplificate ma più leggibili di quotidiani diversi (come per esempio quella di Repubblica: ed è un raffronto che abbiamo già fatto anche in passato).

Entriamo ora nel merito di quanto scrive Rosaspina.

La linea della politica israeliana è che per combattere il terrorismo non vi sia altro modo che "sigillare ermeticamente il confine", "ridisegnato in modo tale da includere buona parte delle colonie ebraiche insediate nei territori palestinesi".

Sappiamo tutti - tutti meno Rosaspina - che non esiste alcun confine fra Israele e Cisgiordania, fra Israele e Gaza, fra Israele e Libano, fra Israele e Siria: esistono solo linee armistiziali, perché quella parte del mondo arabo non ha ancora accettato l' idea che Israele abbia il diritto ad esistere.

Di conseguenza, Israele non può materialmente "ridisegnare" confini che non esistono. E comunque non intende includere "buona parte" delle "colonie ebraiche" , ma solo una parte di queste. E non lo fa per annettere unilateralmente territori la cui appartenenza all'una od all'altra sovranità è in discussione da mezzo secolo, ma solo per proteggere il diritto elementare dei loro abitanti a non farsi massacrare mentre vanno a fare la spesa o a bere una birra.

Proseguiamo: il muro è costruito "in terra occupata", afferma Rosaspina. Dunque, per lei come per le sue fonti Israele è "terra occupata". Già, perché la stragrande lunghezza e larghezza di questa barriera sono in terra israeliana, e solamente in alcuni casi particolari essa sconfina invadendo terre palestinesi (debitamente risarcite ai proprietari) quando le esigenze di sicurezza lo impongono.

Ancora: "Sharon riesce in un colpo solo a spostare le trattative internazionali dalla road map al tracciato del muro". Quali trattative internazionali? E la road map non è stata sepolta dal terrorismo palestinese e dalla dichiarata incapacità o non volontà del governo palestinese di sradicarlo, come tassativamente richiesto dalla road map?

Ancora, a proposito del documento elaborato e sottoscritto da un piccolo gruppo di persone di buona volontà israeliane e palestinesi, il cui contenuto pare possa delineare una ipotesi di accordo accettabile per entrambi i partners: Rosaspina ne scrive come di un documento in grado di ribaltare la situazione politica esistente, e di aprire la porta alla pace. Con il sottinteso che è Sharon che non ne vuol sentire parlare.

E' verissimo che questo documento, per la procedura seguita e per la personalità dei firmatari, ha scatenato forti polemiche in Israele, dividendo il campo in opinioni trasversali non sempre legate ai partiti, ma è vero soprattutto - e qui si individua la scorrettezza della giornalista - che le procedure democratiche israeliane hanno lasciate aperte tutte le opzioni, mentre notoriamente in campo palestinese il firmatario Abed Rabbo conta poco o nulla e nulla si farà senza che dia il suo consenso Arafat, il solo Arafat e nessun altro.

Passiamo ora alla triste storia del villaggio palestinese di Bartaa. "La frontiera invisibile taglia in due il mercato di Bartaa...non ci sono guardie di confine" , così inizia la descrizione. E precisa, più avanti, che questa situazione esiste dal 1948, quando cioè tutti gli stati arabi aggredirono il neonato Israele, creato per volontà delle Nazioni Unite, con la dichiarata intenzione di annientarlo.

Ma da qui in poi, per Rosaspina, questo "confine invisibile senza guardie" si trasforma in una barriera insormontabile.

Dalla parte palestinese del villaggio "si tira la cinghia: poco lavoro, niente servizi. L'ospedale più vicino è a Jenin, una decina di chilometri ancora più a Est". L'ospedale più vicino è a 10 chilometri: che scandalo! Naturalmente, la colpa è di Israele. Di chi se no? Ed è di Israele la colpa del fatto che si "tiri la cinghia" e non ci siano servizi. Ma come si stava in questo villaggio la settimana prima che, tre anni fa, cominciasse l'intifada? Non vi si stava straordinariamente meglio? Non c'era lavoro per tutti? Ed i servizi...quanti soldi degli aiuti internazionali sono stati intascati dalla nomenklatura palestinese, che avrebbe dovuto invece utilizzarli per dare alla popolazione i servizi che ancora mancano, le infrastrutture che non ci sono, e sostituire le case fatiscenti ed insalubri dei campi profughi con altre dignitose? Se Arafat è il sesto statista più ricco del mondo, come ha stabilito Forbes, e se il ministro delle Finanze di Abu Mazen ha raddoppiato le entrate dalla vendita di carburanti con un solo tratto di penna qualcosa che non funziona ci sarà - e non per colpa di Sharon.

La perla dell'articolo viene però alla fine. Costruita la barriera, Israele richiede agli abitanti del villaggio di compilare un modulo anagrafico per ottenere l' autorizzazione a varcare quel confine (per coltivare i campi, per visitare amici e parenti). Ebbene, scrive Rosaspina, gli abitanti del villaggio "si rifiutano di compilare la richiesta" per protestare contro questa situazione. E poi precisa, la povera giornalista che neppure si accorge dell'enormità della sua contraddizione, che Israele ha fornito all'amministrazione del villaggio un pacco di moduli per la richiesta dei permessi, e che il consigliere comunale Marwan racconta: "L'ufficiale mi ha ordinato di distribuirli immediatamente alla popolazione. Ma non uno di questi formulari è uscito dall'ufficio del governo locale...Questi fogli servono a schedarci, è l'anticamera del transfer, ci cacceranno tutti in Giordania.... No, a Bartaa Est non firmerà nessuno. E se qualcuno cede, andiamo a casa sua e gli strappiamo il modulo".

Ci dispiace constatare che il Corriere, solitamente obiettivo ed autorevole, affidi a giornalisti non altrettanto obiettivi ed autorevoli (pensiamo anche alla cronaca di Ferrari da Damasco, sul Corriere di sabato) incarichi particolarmente delicati, che richiedono informazione e spiegazioni, non il contrario.

Riportiamo il primo pezzo di Elisabetta Rosaspina, dal titolo: "Sharon allunga il muro in Cisgiordania"

Ariel Sharon vince la battaglia del « muro » . Gli Stati Uniti non si oppongono più alla costruzione di una « barriera di sicurezza » tra Israele e Cisgiordania, ma chiedono di discuterne nel dettaglio il tracciato. Passa a Washington la linea del governo israeliano, secondo cui non c’è altro modo per combattere il terrorismo che sigillare ermeticamente il confine. Ridisegnato in modo tale da includere buona parte delle colonie ebraiche insediate nei territori palestinesi. In serata, tank israeliani sono entrati di nuovo a Gaza: una reazione all’attacco di venerdì alla colonia di Netzarim in cui sono stati uccisi tre soldati. Evacuati almeno 2.000 palestinesi dall’area di Al Zahara, di fronte all’insediamento: obiettivo dell’incursione con bulldozer e dinamite sono una decina di edifici che, secondo gli israeliani, farebbero da base per gli attacchi a Netzarim. La risoluzione dell’Assemblea generale Onu che, appena 4 giorni fa, chiedeva a Israele di smantellare i primi 120 chilometri ( sui 360 previsti) di « muro » costruito, è stata liquidata dai portavoce del governo Sharon come un « atteggiamento ostile dell’Onu, che ha nel suo grembo anche Stati terroristi » . A dimostrazione dell’irrilevanza di quel richiamo, il premier ha annunciato in tv che un’altra barriera sarà costruita a Est della Cisgiordania, nella Valle del Giordano, parallelamente al corso del fiume. La novità non farà piacere però neppure all’Amministrazione Usa che sosteneva di poter convincere Israele a mantenere la « parete divisoria » il più vicino possibile alla linea verde.
Per Sharon, il via libera da Washington è comunque un bel sollievo. Pronto a sacrificare parte delle sovvenzioni d’Oltreoceano, il premier era determinato a perseguire il suo obiettivo. Ora Sharon riesce in un colpo solo a spostare le trattative internazionali dalla road map al tracciato del muro. E a vanificare i negoziati paralleli delle « colombe » israeliane e palestinesi.
A giorni, dopo 3 anni di trattative quasi segrete, l’opposizione israeliana, guidata dall’ex ministro Yossi Beilin, dovrebbe firmare a Ginevra, con la delegazione palestinese di Abed Rabbo, l’ « Accordo svizzero » : una dettagliata intesa su confini, colonie, profughi, Gerusalemme. Fino alla creazione di due Stati per due popoli. Sogni che adesso sembrano destinati a infrangersi contro il « muro » .
Il cerchio attorno ai palestinesi si chiude con il nuovo tratto sulla parte orientale della Cisgiordania, allo scopo di proteggere la storica colonia di Ariel, cui Sharon non intende assolutamente rinunciare, e almeno l’ 80% degli insediamenti ebraici che hanno continuato a svilupparsi nonostante le pressioni internazionali. Se la creazione di una barriera poteva far sperare ai palestinesi che ciò servisse perlomeno a creare le basi del loro Stato, la mappa disegnata dagli esperti israeliani sembra precludere la necessaria continuità territoriale. Da Ramallah, la reazione del premier palestinese Abu Ala è disperata: « Questo muro creerà un fatto compiuto sul terreno che renderà impossibile il raggiungimento di qualsiasi soluzione politica » , ha detto uno suo portavoce, Hassan Abu Libdeh. Ancora più pessimista il consigliere di Arafat, Nabil Abu Rudeina: « La costruzione del muro e il suo prolungamento nella Valle del Giordano sono il colpo di grazia alla Road map. Equivale a una dichiarazione di guerra totale al popolo palestinese » .
L’Autorità chiede sanzioni contro Israele al Consiglio di sicurezza Onu: « Il muro dell’apartheid lungo il Giordano — aggiunge il ministro Saeb Erekat — non ha nulla a che vedere con la sicurezza di Israele, ma mira a trasformare le nostre città, i nostri villaggi e campi in grandi prigioni » .
Il sospetto deve essere arrivato anche a Washington, dove si considera che il nome della partita mediorientale è cambiato: non più Road map, ma « barriera » . Mentre il cantiere avanza.
Ecco il secondo articolo, sempre di Elisabetta Rosaspina: "La casa a Est, gli ulivi a Ovest. In mezzo la «barriera»"


La frontiera invisibile taglia in due il mercato di Bartaa: fino alle gabbie dei polli è arabo- israeliana, dopo i materassi diventa palestinese. Lo sanno tutti qui.
Non ci sono guardie di confine.
Ma se un Kabaha ( a Bartaa si chiamano quasi tutti Kabaha) della parte Est del villaggio viene sorpreso a Ovest, rischia l'arresto. Perché non ha la carta d'identità israeliana, quella con la copertina di plastica azzurra e il candelabro a sette braccia stampato.
Mentre un Kabaha occidentale è libero di andare a trovare il cugino della zona orientale. In breve: il pollivendolo può andare dal materassaio, ma non viceversa. Può sembrare una regola bizzarra per un paese di 6.500 abitanti, tutti arabi e molti imparentati, all' estrema periferia Nord della Cisgiordania, 22 chilometri sopra Tulkarem. Ma è così dal ' 49, quando la linea verde divideva in due il villaggio, a Ovest Israele e a Est la Giordania. E poi dal ' 67, quando la guerra dei Sei giorni ha riunito Bartaa geograficamente, ma non politicamente.
Va da sé che a Ovest si vive molto meglio: circolano più soldi e si può andare a far spese e a lavorare in Israele. Dall'altra parte, si tira la cinghia: poco lavoro, niente servizi. L'ospedale più vicino è a Jenin, una decina di chilometri ancora più a Est, nella Cisgiordania più turbolenta.
Ma da quando c'è il « muro » , le regole sono cambiate. Fino ai polli è sempre Israele, ma dai materassi in poi è « Seam area » , che significa « zona cerniera » . E' una striscia lunga 12 chilometri e larga 4, sotto la giurisdizione dell'esercito, tra la vecchia linea verde e la nuova barriera di sicurezza. E i Kabaha orientali rientrano in una nuova categoria del pensiero militare israeliano: sono diventati « residenti permanenti temporanei » . E non importa che stiano lì da cent'anni: se vogliono continuare a viverci devono munirsi di un permesso israeliano, rinnovabile ogni sei mesi. L'unico valido per attraversare il « muro » , che qui è un'alta recinzione metallica, rifinita di filo spinato, sensori elettronici e telecamere.
Dentro la Seam zone è finito anche buona parte dell'uliveto di Hussein Kabaha, 30 anni, moglie, tre figli, un fratello, una cognata, due nipoti, una madre vedova e un parentado stretto di complessivi cento Kabaha.
Che sulle 150 damigiane, da 17 litri l'una, di olio prodotto ogni anno dai tremila olivi, ci contavano parecchio. Ma un quarto della terra se n'è già andata soltanto per far spazio alla recinzione e alla strada destinata alle pattuglie di sorveglianza. Il resto è ancora suo, ma Hussein non potrà più andare a coltivarlo senza quel permesso speciale. E lui, come tutti i Kabaha e gli altri abitanti di Bartaa Est, si rifiuta di compilare la richiesta.
Israele dice che non c'è altro modo per tenere fuori i terroristi, non lo sapete? Seduta all'ombra di un ulivo, le gambe doloranti, mamma Missadi risponde per tutti: « Io non voglio vedere nessuno ucciso, né un soldato né un palestinese. Voglio la pace, sono una donna religiosa. Ma perché i miei figli devono rischiare l'arresto o una fucilata per raccogliere le olive? Una volta era una festa » .
Quest'anno sarà un disastro: 10 damigiane al massimo. Missadi, il cui nome significa impropriamente « felice » , non ricorda da quanto tempo quella terra appartenga alla famiglia, ma può calcolarlo: la buon'anima di suo marito l'ha ereditata alla nascita, anno 1929, dal nonno. Ci sono anche le carte, per il valore che hanno contro i bulldozer israeliani. A Bartaa Est è iniziata la resistenza passiva: l'intero pacco di moduli per la richiesta dei permessi temporanei è passato dalle mani dell'ufficiale amministrativo israeliano al cassetto del consig l i e r e c o m u n a l e Marwan, massiccio e baffuto funzionario politico.
« L'ufficiale mi ha ordinato di distribuirli immediatamente alla popolazione. Ma non uno di questi formulari è uscito dall' ufficio del governo locale — sventola il blocco di carte — . Abbiamo già i nostri documenti di residenza. Cos'altro dobbiamo dimostrare? Questi fogli servono a schedarci, è l'anticamera del transfer, ci cacceranno tutti in Giordania. Che succederà se un giorno gli israeliani decidono di non rinnovarci il permesso? No, a Bartaa Est, non firmerà nessuno. E se qualcuno cede, andiamo a casa sua e gli strappiamo il modulo » .
Così ogni pomeriggio, al check point, si consuma il braccio di ferro con gli abitanti di Bartaa Est che tornano a casa dalla Cisgiordania: « O firmate o non passate » ordina l'ufficiale civile. E quelli aspettano in coda. Fino alle 9 di sera, quando i soldati decidono di lasciarli rientrare. Domani si ricomincia. Finché una delle due parti, e non è difficile immaginare quale, capitolerà
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