Yehoshua: il "muro" prima lo voleva, adesso no
contraddizioni d'intellettuale
Testata: Corriere della Sera
Data: 24/10/2003
Pagina: 14
Autore: Elisabetta Rosaspina
Titolo: Ma non è questo il muro che volevamo per Israele
Gli intellettuali che fanno politica sono bizzosi. In genere gli si perdona tutto, anche le contraddizioni più vistose. Come a Yehoshua, che è stato tra i primi a teorizzare la necessità della barriera di divisione, mentre adesso, visto che è stato Sharon e non Barak a farla, non gli va più bene.

-a cura della redazione di Informazione Corretta-

Aveva detto: «Il muro è come la porta di casa. Serve a decidere che può entrare e chi no». Nelle sue parole, sembrava un sacrificio necessario, ma non crudele. Non una punizione, ma un civile distacco.
Avraham Yehoshua, scrittore pacifista, autore di successi come «L'Amante» e, da ultimo, «La sposa liberata» , ne era stato un sostenitore convinto. Insieme con altri intellettuali israeliani, come Benny Morris, italiani, come Piero Citati, e una buona parte della sinistra israeliana e internazionale: «Ci vuole una barriera fra arabi e israeliani per creare un buon vicinato» , aveva approvato anche il leader laburista, Amram Mitzna, senza che questo lo aiutasse a vincere le elezioni o a erodere voti al rivale Ariel Sharon.
Il progetto, riveduto e corretto, è stato messo in pratica poco più di un anno fa. Con la posa della prima pietra, o blocco di cemento, il governo israeliano ha dato il via alla costruzione di una barriera lunga 360 chilometri, e prolungabile a 600, che, nelle intenzioni del premier, servirà ad arginare il terrorismo. Una barriera visibile e impenetrabile ai kamikaze, ai trafficanti di esplosivo e a tutto quanto possa minacciare la sicurezza d’Israele. Una commissione di esperti americani è venuta a esaminare da vicino un tratto del cantiere, ma l'assemblea delle Nazioni Unite, nella notte tra martedì e mercoledì ha condannato il progetto, ritenendolo « in contraddizione con il diritto internazionale».
Non c'era bisogno del parere dell'Onu, perché Yehoshua disconoscesse la creatura de- generata dalla sua proposta: «E' chiaro che non era questo che intendevo — si arrabbia — . Io parlavo di un confine, non di un muro. Mentre questa è una barriera, senza essere un confine» .

Un confine senza un trattato di pace?
«Con l'inizio della seconda Intifada, nel 2000, l'opinione pubblica israeliana aveva perso qualunque fiducia nei palestinesi. Era diventato evidente che non c'era possibilità di accordo. E per responsabilità di entrambe le parti»
Ci voleva una «porta» per trovare una via d'uscita?
«Innanzitutto ci vuole il ritiro israeliano, unilaterale, dalla maggioranza dei territori occupati. Diciamo l' 80, 85 per cento. E in questo credo ancora. Mettiamo da parte per ora il problema di Gerusalemme, che richiede una soluzione speciale. Ma già prima di qualunque accordo, è necessario ritirarsi da quasi tutte le colonie, a cominciare da quelle di Gaza. E poi costruire una frontiera.

Un confine politico?
«Un confine come tutti gli altri. Con reticolati, torrette di controllo, punti di accesso. Una porta da aprire o chiudere, come la porta di casa, a chi chiede di entrare. Certo, la frontiera a cui pensavo io sarebbe servita anche a fermare i terroristi. E avrebbe aiutato l'Autorità palestinese a combatterli».

Grande quanto?
«Più o meno quanto quello del ’ 67. La nostra proposta era che la barriera ricalcasse la linea verde. Con eventuali compensazioni territoriali per le colonie che non si possono smantellare».

Un confine come tutti gli altri è a doppio senso di circolazione. E’ controllato da due dogane.

«Certamente. Anche i palestinesi, nella mia idea, avrebbero avuto la possibilità di chiudere o aprire la porta di casa».

Già, ma chi avrebbe stabilito la collocazione della porta?
«Ripeto: il confine del ' 67. Il peggior errore israeliano è stato quello di abolirlo. Così facendo avrebbe dovuto altrimenti prendersi la responsabilità della popolazione che, di fatto, si annetteva. Riconoscere loro il diritto alla cittadinanza, per esempio. Invece non lo ha fatto, creando una situazione avvelenata».

Avvelenata?
«Sì, la mescolanza fra arabi e israeliani dà la sensazione a ciascuno dei due popoli di essere invaso dall'altro. Sarebbe come se esistesse una doppia circolazione fra Turchia e Iran, se non ci fosse una barriera che stabilisce nettamente il confine e le identità. Perché un Paese è un'identità. Lo dimostra il fatto che neppure l'Unione Europea ha cancellato i confini, pur avendo aperto le frontiere tra i paesi membri».

Ma per includere le colonie irrinunciabili, il confine israeliano deve fare uno slalom nei territori.
Obiettano i palestinesi: che Stato può essere il nostro, senza continuità territoriale?
«Certo che hanno diritto alla continuità territoriale. Ma non si potrà mai unire la striscia di Gaza alla Cisgiordania, questo è evidente. Come è chiaro che è stato un errore penetrare così in profondità nei territori».

Sharon ripete che la barriera non è un confine politico. Secondo lei, il premier pensa invece a ridimensionare una futura Palestina?
«Nessuno sa che cosa pensa Sharon. E credo che non lo sappia neppure lui. L'uomo agisce d'impulso, per reazioni ai fatti contingenti. Era contrario all'idea di una linea divisoria, di una barriera. Finché non ha cambiato idea, due anni fa. Obbligato dalla realtà».

Che ne pensa della risoluzione dell'Onu?
«L’Onu si è pronunciata dietro pressione dei palestinesi che, pure loro, non vogliono un confine».

Perché?
«Perché, esattamente come la destra israeliana, vogliono tutto. Comunque la risoluzione non è chiara. Questo è il suo difetto».

Sono le colonie e gli insediamenti il nodo cruciale?
«Sì, l'Italia dovrebbe fare pressione su Israele, perché finalmente vengano tolti».
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