Come la vede Amos Oz
uno dei più importanti scrittori d'Israele
Testata: Corriere della Sera
Data: 21/10/2003
Pagina: 12
Autore: Amos Oz
Titolo: Collera, risate e intimità. Così è nata la nostra pace
Riportiamo l'articolo di Amos Oz, pubblicato sul Corriere di martedì 21 ottobre 2003, dove racconta le trattative tra israeliani e palestinesi che hanno poi dato vita al documento "svizzero" che tante polemiche ha suscitato. Oz era fra i negoziatori e ne ha scritto una testimonianza.

a cura della redazione di Informazione Corretta

Mi sono recato alla conferenza israelo- palestinese in Giordania con un certo scetticismo. Pensavo che, come spesso era accaduto in passato, saremmo riusciti probabilmente a stilare una dichiarazione congiunta di principi sulla necessità di fare la pace, fermare il terrore, porre termine all'occupazione e all'oppressione, riconoscere i diritti reciproci, e vivere da vicini in due Stati per due popoli. Abbiamo fatto tutto questo già molte altre volte, a tanti congressi e incontri, con accordi e dichiarazioni pubbliche e così via. In molti punti degli ultimi dieci anni siamo stati a una sorprendente distanza dalla pace, solo per scivolare di nuovo negli abissi della violenza e della disperazione.
Temevo che gli stessi vecchi punti della disputa ci avrebbero di nuovo bloccati: il « diritto di ritorno » o una soluzione al problema dei rifugiati? « Ritorn are ai confini del 1967 » o una mappa logica che tenga in considerazione il presente e non solo la storia? Il riconoscimento aperto ed esplicito dei diritti nazionali del popolo israeliano e palestinese di vivere ciascuno nel proprio Paese o solo qualche ambigua banalità sulla « coesistenza pacifica » ? Consenso esplicito da parte dei palestinesi a rinunciare una volta per tutte a ogni rivendicazione futura, o « buchi neri » che avrebbero consentito una ripresa del conflitto e della violenza? In accordi precedenti, compreso quello di Oslo, le due parti sono state molto attente a non cadere nel « cuo re radioattivo » del conflitto. I rifugiati, Gerusalemme, la fine del conflitto, confini permanenti: tutti questi campi minati sono stati cancellati con il bianchetto e la loro risoluzione è stata rimandata a un futuro migliore. La conferenza di Camp David è fallita, dopo tutto, nel momento in cui ha messo il piede su quelle mine.
CASA BI-FAMILIARE, NON LETTO MATRIMONIALE —
La prima sera i membri dei due gruppi si incontrano per un discorso di apertura. Una strana atmosfera pervade la sala. Qua e là qualcuno fa una battuta, forse per mascherare un misto di emozione, risentimento, sospetto e buona volontà. Il colonnello Shaul Arieli, ex comandante delle forze di difesa della Striscia di Gaza, è seduto di fronte a Samir Rantisi, un cugino del leader di Hamas Abdelaziz Rantisi. Il figlio del defunto Faisal Husseini, Abed al- Qader al- Husseini ( chiamato con il nome del nonno, che, quando ero bambino, era considerato il comandante delle gang arabe e che fu ucciso nel 1948 in una battaglia con le forze israeliane) è seduto di fronte al generale di brigata Shlomo Brom, ex vice comandante della divisione strategica dell'esercito israeliano. Vicino a David Kimche, ex dirigente del Mossad e direttore generale del ministero degli Esteri di Israele, è seduto Fares Kadura, un leader di Tanzim, gruppo militante palestinese di guerriglia.
Attraverso la finestra, oltre il Mar Morto, si vede il piccolo gruppo di luci che contrassegna il Kibbutz Kalia, che il documento di Ginevra trasferirebbe al controllo palestinese.
Si vede anche l'ampia volta di luci che indica Ma'aleh Adumim, il sobborgo di Gerusalemme lungo la strada che porta a Gerico che, sempre secondo il documento di Ginevra, diventerebbe parte inalienabile dello Stato di Israele.
Parliamo e discutiamo (in buon ebraico) fin oltre mezzanotte con Hisham Abed al- Raziq, che ha passato 21 anni — metà della sua vita — in prigioni israeliane. Ora è il loro ministro per le questioni dei prigionieri. È quasi sicuramente l'unico ministro del genere al mondo.
Ma il nostro ministro- prigioniero, Natan Scharansky, a quanto pare è l'unica persona al mondo ad avere il titolo di « ministro della Diaspora » . Un giorno o l'altro molto probabilmente la Palestina avrà un ministro della Diaspora invece di un ministro dei Prigionieri.
Durante questi incontri si stabilisce una certa intimità: gli israeliani e i palestinesi sono nemici, ma non estranei. L'osservatore svizzero alla conferenza si sarà sicuramente stupito al frequente passare dalla collera alle pacche sulle spalle, da coltellate affilate come schegge di vetro a scoppi di risa, a cui si assisteva nelle sale e nel corridoio. Quando verrà il giorno di mettersi seduti a un tavolo di negoziato con i siriani, i volti saranno seri e duri da entrambe le parti. Così sono i palestinesi, dicono, con l'Arabia Saudita. Là si incontrano in un'atmosfera formale e di rigoroso riserbo.
Ma qui, nell'albergo sulle rive del Mar Morto ( ilmembro israeliano della Knesset — il Parlamento israeliano, ndr — Chaim Oron e l'ex ministro palestinese Yasir Abed Rabbo girano in sandali e calzoncini corti; Yossi Beilin no) sembriamo più una coppia sposata a lungo nella sala d'attesa dell'avvocato per un divorzio. Si scherza, si urla, ci si prende in giro, si accusa, si interrompe, ci si mette una mano su una spalla o alla vita, si lanciano invettive, e una volta o due si sparge anche una lacrima.
Perché noi e loro abbiamo avuto 36 anni di intimità. Sicuramente un'intimità violenta, amara, contorta, ma pur sempre intimità, perché solo loro e noi, non i giordani e non gli egiziani e certamente non gli svizzeri, sappiamo esattamente che cos'è un blocco stradale e che rumore fa un'autobomba e che cosa dicono esattamente di noi gli estremisti di entrambe le parti. Perché dalla Guerra dei Sei Giorni siamo vicini ai palestinesi come un carceriere al prigioniero a lui ammanettato. Il carceriere che lega il proprio polso a quello di un prigioniero per un'ora o due è un fatto di routine.
Ma quello che si lega al suo prigioniero per 36 anni non è più un uomo libero. L'occupazione ci ha anche derubati della libertà.
La conferenza non aveva intenzione di segnare l'inizio di una luna di miele tra le due nazioni. Piuttosto il contrario: il suo scopo era di attenuare, finalmente, questa contorta intimità. Di stilare un accordo di divorzio giusto. Un divorzio doloroso e complicato, ma che aprisse le manette. Loro vivranno a casa loro e noi nella nostra. La terra di Israele non sarà più una prigione, né un letto matrimoniale. Sarà una casa bi- familiare. Il legame tra carceriere e prigioniero a lui ammanettato diventerà una relazione tra vicini che hanno una scala in comune.
UN MONUMENTO ALLA MEMORIA COMUNE — Nabil Qasis, ex rettore dell'Università di Bir Zeit e ministro palestinese della Pianificazione, è un uomo gentile, introverso, melanconico. È anche un negoziatore duro. Forse è l'unico membro del gruppo palestinese che non ha alcuna inclinazione a scherzare o a scambiare qualche piccola coltellata con gli israeliani.
Mi ferma nei pressi della porta dei bagni per dirmi: « Per favore, cerca di capire: per me rinunciare al diritto di ritornare alle città e ai villaggi che abbiamo perso nel 1948 significa cambiare la mia identità da adesso in poi » . Io cerco veramente di capire. Quel che le parole significano è che l'identità di Qasis dipende dalla negazione della mia identità. In seguito, durante una discussione nella sala delle riunioni, Nabil Qasis alza la voce e chiede che la parola « ritorno » compaia nel documento. In cambio, lui e i suoi colleghi daranno il consenso a che la parola sia accompagnata da riserve. Avraham Burg, un membro religioso laburista della Knesset e suo ex presidente, alza anch'egli la voce. Anche lui è in collera: si lasci che Nabil Qasis rinunci a una parte della sua identità nazionale proprio come io, Avraham Burg, in questo modo rinuncio a niente di meno che a una parte della mia fede religiosa, poiché sono preparato ad acconsentire, con il cuore spezzato, alla sovranità palestinese sul Monte del Tempio.
Da parte mia, dico che per quel che mi riguarda, « ritorno » è una parola in codice che significa la distruzione di Israele e l'istituzione di due Stati palestinesi sulle sue rovine. Se c'è ritorno, non c'è accordo. Inoltre io intendo partecipare solo a un documento che contenga l'esplicito riconoscimento del diritto nazionale del popolo ebraico al proprio Paese. Questo è stato uno dei diversi momenti difficili di crisi della conferenza. Alla fine né il termine « diritto di ritorno » , né la parola « ritorno » compaiono nel documento. Esso parla di una soluzione complessiva dell'intero problema dei rifugiati palestinesi, fuori dai confini dello Stato di Israele. Inoltre, il documento che abbiamo firmato, l'Iniziativa di Ginevra, riconosce, inequivocabilmente, il diritto del popolo ebraico al suo Paese, accanto allo Stato del popolo palestinese. Per quanto ne so, non abbiamo mai sentito nominare da nessun rappresentante palestinese le parole « popolo ebraico » e certamente non si è mai sentita alcuna parola di riconoscimento del diritto nazionale del popolo ebraico a istituire uno Stato indipendente nella Terra di Israele.
Alle due e mezza del mattino, bevendo la quindicesima tazza di caffè, in un intervallo tra la discussione e la stesura e tra la discussione e il negoziato, dico a Yasir Abed Rabbo e a vari dei suoi colleghi: un giorno dovremo erigere un monumento comune in memoria dell'orribile follia, vostra e nostra. Dopo tutto, voi avreste potuto essere un popolo libero 55 anni fa, cinque o sei guerre fa, decine di migliaia di morti fa — di morti nostri e vostri — se aveste firmato un documento simile a questo nel 1948. E noi israeliani avremmo potuto vivere in pace e tranquillità da tanto tempo se avessimo offerto al popolo palestinese nel 1967 ciò che questo documento offre loro adesso. Se non fossimo stati inebriati dalla vittoria dopo le conquiste della Guerra dei Sei Giorni.
PORTEREMO ANCHE SHARON SULLE SPALLE — Non c'è ragione che giustifichi l'isterismo che gli oppositori del documento stanno ora fomentando. I suoi autori sanno molto bene che Sharon e il suo governo rappresentano il governo legale di Israele. Che la loro iniziativa, che è frutto di due anni di trattative condotte in assoluto segreto, non è che un esercizio. Lo scopo dell' esercizio è solamente presentare al pubblico israeliano e palestinese una finestra attraverso la quale possa vedere un paesaggio diverso: non più autobombe, attacchi suicidi, occupazione, oppressione, espropriazione, non più guerra senza fine e odio. Invece, qui c'è una soluzione dettagliata, prudente, che non elude nessuna delle questioni fondamentali.
Il suo principio fondamentale è: finiamo l'occupazione e i palestinesi finiscano la guerra contro Israele. Abbandoniamo il sogno di un Israele più grande e loro abbandonino il sogno di una Palestina più grande. Cediamo la sovranità di alcune parti della Terra di Israele in cui risiede il nostro cuore, e loro facciano lo stesso. Il problema dei rifugiati del 1948, che è veramente il cuore della questione della nostra sicurezza nazionale, si risolve in modo complessivo, totale e assoluto fuori dai confini dello Stato di Israele e con ampia assistenza internazionale. Se questa iniziativa verrà messa in atto, nel Medio Oriente non ci sarà più neanche un solo campo di rifugiati palestinesi, pieno di disperazione, abbandono, odio e fanatismo. Nel documento che abbiamo in mano, la parte palestinese accetta infine contrattualmente e irrevocabilmente di non fare né ora né in futuro alcuna rivendicazione contro Israele. Alla fine della conferenza, dopo la firma dell'Iniziativa di Ginevra, un rappresentante di Tanzim ci ha detto che ora forse possiamo vedere all'orizzonte la fine della guerra dei cent'anni tra gli ebrei e i palestinesi. Sarà sostituita, ha detto, da una battaglia amara tra coloro che, da entrambe le parti, promuoveranno il compromesso e la pace, e una coalizione fanatica di estremisti israeliani e palestinesi.
Questa battaglia ora è in pieno corso. Sharon l'ha iniziata anche prima che l'Iniziativa di Ginevra venisse resa pubblica e i leader di Hamas e della Jihad islamica si sono affrettati a seguirlo, usando lo stesso vocabolario ingiurioso.
Che cosa non ha il documento dell'Iniziativa di Ginevra? Non ha denti.
Non ha che una cinquantina di pagine. Ma se il pubblico da entrambe le parti lo accetta, domani o dopo, scoprirà che l'ingrato lavoro di fare la pace è già stato fatto. Quasi fino all' ultimo dettaglio. Se Sharon e Arafat vogliono usare questo documento come base per un accordo, gli autori non pretenderanno il
copyright.
E se Sharon presentasse un piano diverso, migliore, più complesso, più patriottico, che fosse anche accettato dall'altra parte? Che lo faccia. Ci congratuleremo con lui.
Anche se Sharon, come tutti sanno, è una persona pesante, i miei amici e io lo porteremo sulle spalle.
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