Prodi condanna la barriera di sicurezza
Sarà perchè a Bruxelles gli autobus e i ristoranti non saltano in aria
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Data: 13/10/2003
Pagina: 9
Autore: Baquis - Benni
Titolo: Prodi al Cairo: «Il Muro è il peggior errore»
Sarà perchè nè a Bruxelles nè a Bologna gli autobus e -soprattutto- i ristoranti non saltano in aria che Romano Prodi può permettersi di condannare la barriera di difesa.
Chissà come la penserebbe se gli attentati di cui Israele è vittima lo riguardassero da vicino. Lui o i suoi cari.
Una nostra curiosità che rimarrà tale. Prodi è al di sopra di queste miserie umane.

In seguito l'articolo di Aldo Baquis pubblicato oggi su La Stampa.

«All'orizzonte non c’è alcuna luce». Dal Cairo Romano Prodi al termine di un incontro con il presidente Hosni Mubarak ne condivide il senso di «profondo pessimismo». Per la pace in Medio Oriente, secondo il presidente della Commissione europea, i maggiori ostacoli sono rappresentati dal terrorismo palestinese, dagli insediamenti israeliani e dalla costruzione di una lunga barriera di separazione con la Cisgiordania. «Il muro è una disperazione, è il peggior errore», ha detto, affermando che gli Stati Uniti sbagliano quando si astengono dall'esercitare pressioni adeguate nei confronti di israeliani e palestinesi.
Ci saranno appena sette ministri alla prima seduta di lavoro del governo di emergenza, convocata dal premier palestinese Abu Ala a Ramallah, e mancherà il ministro degli Interni: una carica di importanza critica per un esecutivo che vorrebbe concludere con Israele una tregua illimitata ed estirpare l’anarchia dai Territori palestinesi e delle strutture dell'Anp. In un breve incontro con la stampa, Abu Ala ha previsto che questo governo resterà in carica solo fino alla fine del mese. Poi il Parlamento dovrà decidere se sostituirlo con un governo allargato. Neppure la sua presenza al timone del nuovo esecutivo è certa: a novembre i palestinesi potrebbero avere un nuovo primo ministro. All'origine di tanta instabilità politica c’è il contrasto, rivelatosi insanabile, fra Abu Ala e il presidente palestinese Yasser Arafat sulla persona del generale Nasser Yussef, che secondo il premier avrebbe dovuto rivestire la carica di ministro degli Interni e come tale coordinare le attività delle forze di sicurezza palestinesi. Ma lo scoglio che a settembre aveva già affondato il governo di Abu Mazen (ossia la riluttanza di Arafat ad affidare ad altri il controllo di decine di migliaia di palestinesi armati) ha impedito ora ad Abu Ala di far approvare la nomina del generale Yussef.
Al termine di una nervosa seduta del Comitato esecutivo di al-Fatah è stato dunque stabilito che la poltrona del ministro degli Interni resterà vacante, anche se già si profilano nuovi candidati: Hani el-Hassan, Hakam Balawi e Abdel Razek Majaida. Nel frattempo tutte le questioni che sarebbero di pertinenza degli Interni saranno sottoposte al vaglio del Consiglio di sicurezza nazionale: un forum di una dozzina di responsabili politici e militari palestinesi, presieduto dallo stesso Arafat e pilotato da un suo stretto consigliere, Jibril Rajub.
Su queste basi sono molto basse le speranze che il governo di Abu Ala riesca a concordare con Ariel Sharon un cessate il fuoco. Ancora ieri un ministro di Sharon, Dany Naveh, ha accusato Arafat di essere «l'orchestratore della campagna di violenze contro Israele».
Sul terreno la situazione resta drammatica, specialmente nel campo profughi di Rafah dopo due giorni di battaglia: dopo il parziale ritiro dei militari israeliani impegnati nella ricerca dei tunnel per il passaggio di armi, le autorità palestinesi locali hanno subito constatato, oltre alle perdite umane (otto morti, oltre ottanta feriti di cui venti in condizioni gravi), danni economici rilevanti. Secondo le prime stime le ruspe militari israeliane hanno raso al suolo una quarantina di case. Fonti ufficiose affermano che il numero complessivo è almeno doppio. L'Unrwa, l'ente delle Nazioni Unite per il soccorso ai profughi palestinesi, afferma che i senza tetto a Rafah sono aumentati adesso di almeno mille unità. Nella città di 140 mila abitanti, mancano l'olio, la farina, l'acqua potabile, la corrente elettrica, le comunicazioni telefoniche. Ad accrescere lo stato di emergenza ci sono i posti di blocco eretti dai soldati israeliani fra Rafah e la vicina città di Khan Yunes che impediscono i contatti con il resto della striscia di Gaza.
Ieri Mubarak ha ricevuto anche la «colomba» israeliana Yossi Beilin, reduce dalla firma sul Mar Morto di un documento congiunto con i moderati palestinesi che delinea un possibile accordo di pace definitivo. Da parte palestinese vi è la rinuncia al diritto del ritorno di milioni di profughi in territorio oggi israeliano. Da parte israeliana la rinuncia alla Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Il 75 per cento dei coloni, con modeste correzioni delle linee di demarcazione in vigore fino al 1967, resterebbero in Israele. Un compromesso - ammette Beilin - che non impegna nessuno, ma che potrebbe essere utilizzato come elemento di pressione sui rispettivi governi. Ariel Sharon lo ha subito bocciato, Abu Ala potrebbe farlo suo.
Riportiamo anche l'articolo di Remigio Benni su Prodi pubblicato oggi, 13 ottobre 03, su Il Mattino.


Il Cairo. Il terrorismo, gli insediamenti e la della costruzione della barriera di sicurezza («il muro è una disperazione...è il peggior errore») sono i maggiori ostacoli per la pace in Medio Oriente ed ora c'è solo spazio per un profondo pessimismo, in assenza di azioni da qualsiasi parte per l'applicazione della «roadmap», l'itinerario di pace del «Quartetto» (Usa, Onu, Ue e Russia) per la creazione di uno stato palestinese entro il 2005.
Lo dichiara senza reticenze il presidente della Commissione Europea, Romano Prodi, in visita al Cairo dove ha avuto colloqui con il presidente egiziano Hosni Mubarak ed il segretario generale della Lega Araba Amr Mussa. L'Europa ha conseguito un iniziale successo in Medio Oriente proprio volendo il cosiddetto «Quartetto» e contribuendo all' elaborazione dell' itinerario di pace. «Oggi non sospendiamo certo la nostra azione, ma ne vediamo i limiti», sottolinea scorato e non nasconde di aver condiviso con il «rais» egiziano il «profondo, molto profondo pessimismo» perchè non c'è «nessuna luce all'orizzonte», se l'Onu non riesce a svolgere un ruolo sul caso palestinese.
Alle domande sull' Iraq, nelle conferenze stampa che seguono i due incontri della mattinata, Prodi risponde sempre con tono pessimistico: «Non si vedono miglioramenti, non ci sono cambiamenti». Ma quello che più preme al presidente della Commissione Europea è senz'altro quello che chiama più volte «il caso palestinese», destinato irrimediabilmente a peggiorare se «i due protagonisti non decideranno azioni concrete. Fermare il terrorismo e fermare gli insediamenti». A parte, c'è la costruzione del muro, che «è una disperazione... il più grande degli errori», ripete. E allarga le braccia.
Quello che sembra anche deprimere Romano Prodi è «l'assenza di qualsiasi pressione da parte degli Stati Uniti sui protagonisti per dare avvio alla road map, che non può essere considerata morta, semplicemente perchè non è mai nata. Purtroppo - aggiunge - è da considerare che se non c'è un intervento, una pressione da parte degli Stati Uniti, anche il ruolo dell'Europa, che è solo uno dei membri del quartetto, è molto limitato». E anche quello dell' Onu, che deve comunque rimanere l'unico riferimento di quella che gli arabi chiamano «la legittimità internazionale».
Aggiunge poi che il colloquio con Mubarak gli «è sembrato una gara a chi era più pessimista, era come se ci fossimo parlati prima, purtroppo, nel senso che nessuno di noi vede imminente con la ragione una situazione di apertura e di cambiamento» per la crisi mediorientale. «Naturalmente la speranza non la perdiamo, ma uso proprio quella parola perchè oggi non c'è altro che la speranza. Ma abbiamo una situazione abbastanza simmetrica, perchè noi come Europa non possiamo forzare nessuno e indubbiamente in questo momento gli Usa tengono il cuore di Israele o Israele tiene il cuore degli Stati Uniti. È una posizione molto forte, quella che gli americani possono avere, ma, ripeto, non c'è sul terreno una condizione per un cambiamento di politica».
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