Sul decimo "anniversario" della stipulazione dell'accordo di Oslo:
1) Fiamma Nirenstein con il suo: "La pesante eredità della 'pace dei bravi'" pubblicato su La Stampa sabato 13 settembre 2003, in terza pagina;Sono passati dieci anni dalla «pace dei bravi», dieci anni dall'accordo di Oslo che il 13 settembre del 1993 vide Arafat e Rabin stringersi la mano, Bill Clinton benedicente. Arafat, uno dei «bravi» della pace, è ormai sulla soglia dell'espulsione; le sirene urlano; a ogni angolo di strada, la polizia sorveglia; le borse vengono frugate ovunque, al supermarket si trema di paura per ogni nuovo venuto, al caffè non ci si va più; chi ha due figli, li manda a scuola su autobus diversi per evitare la strage; anche i palestinesi seppelliscono i loro ogni giorno; l'economia palestinese è disperata, quella israeliana in ginocchio; Hamas promette di far saltare per aria ogni «edificio alto», gli uomini dello sceicco Yassin girano vestiti da donna per paura degli elicotteri israeliani; anche la gente della strada ha paura, anche donne e bambini cadono nella caccia ai terroristi. E’ il risultato di Oslo.
Per gli israeliani, da 210 uccisi nei dieci anni precedenti a Oslo, si è passati nel decennio successivo a 1110. Ai palestinesi non ha portato uno Stato, agli israeliani ha portato solo morte. Già nel 1995 Shimon Peres, la mente politica più attiva nella costruzione del processo di pace, aveva capito il nodo del problema: «Arafat deve mostrare più forza di carattere, più decisione nella lotta al terrorismo. Perché, se non si decide a intraprendere lo scontro col terrore, noi dovremmo negoziare con lui?» Peres, la colomba che ancora oggi si oppone all'esilio di Arafat, vedeva il terrorismo come segnale di una strada senza sfondo, la scelta che impediva ogni scelta, che toglieva al processo di Oslo un fine, il fine che ancora oggi tutti sognano, «due Stati per due popoli». Una formula che discendeva direttamente dall'impostazione internazionale che ha sempre individuato nell'idea di «terra in cambio di pace» lo sfondo teorico di ogni accordo. Una costosa illusione ottica: Anthony Lewis sul «New York Times» chiamò l'accordo di Oslo «costruito ingegnosamente» e «stupefacente», molti libri lo mostrarono come un manuale di tecniche politiche (rimandare i problemi cruciali, creare fiducia) e psicologiche (chiacchiere notturne davanti al caminetto, centinania di sigarette, decine di chili di semi salati) che insegnava il «peacemaking». Ma la verità e che già dopo i primi sgomberi da tutte le città palestinesi, col passaggio del potere in mano dell'Autonomia, gli autobus cominciarono a saltare; che Netanyahu vinse le elezioni e rallentò il passo (pur proseguendo nello sgombero di Hebron e nell'ulteriore promessa del 13 per cento di Wye Plantation) dopo che Peres le ebbe prevedibilmente perse a causa degli attentati; che Arafat abbandonò nel 2000 il tavolo di Camp David sotto gli occhi stupefatti di Clinton e dette il via agli attentati, la seconda Intifada.
Israele, a dieci anni di distanza, si interroga su che cosa andò male. E qualcuno cerca ancora di sottolineare che cosa andò, invece, bene: «Nessuno dei critici di Oslo ha ancora pensato a un'alternativa», dice Yossi Beilin, ministro al tempo di Barak: «Infatti anche la Road Map ne è una copia conforme. L'unica soluzione ragionevole è sempre e comunque il tavolo negoziale». «Nonostante i limiti creati dalle esitazioni di Rabin - sostiene un'altra famosa colomba, Uri Avneri - Oslo è stato un grande passo avanti. Ha portato con sé il mutuo riconoscimento di Israele e Palestina, e condotto a un embrione di Stato Palestinese, e ha pavimentato la strada per l'idea di "due popoli, due Stati". Anche se il presente è oscuro, i semi sono stati piantati». Ma la realtà è percepita in genere in maniera molto diversa: «Già nel maggio 1994, nella moschea di Johannesburg, Arafat paragonò gli accordi di Oslo con la tregua di Maometto a Hudaibya con la tribu dei Qureish, firmata con l'intenzione di farsene giuoco, come accadde, con una conseguente strage, appena ebbe consolidato il suo potere». Così il professor Joel Fisham, del Centro di Gerusalemme per gli Affari Pubblici: «E Faisal Hussein nel giugno del 2001 chiamò l'accordo di Oslo "un cavallo di Troia". «Il fine è tuttora la liberazione della Palestina dal Giordano al Mediterraneo».
Israele decise di ignorare questi avvertimenti e di obliterare il pensiero dei molti atti di terrore e incitamento in corso. Persino quando Abu Mazen disse nel luglio 2002: «Israele ha fatto il più grande errore della sua storia sostenendo gli accordi di Oslo». In termini pratici, spiega Yeoshua Porat, professore di Storia mediorentale alla Hebrew University di Gerusalemme, gli errori sono stati giganteschi, altro che «peacemaking»: il primo, rimandare la discussione sulle fondamenta, ovvero, l'accettazione preventiva di uno Stato ebraico al proprio fianco, di rifugiati e di confini. La Carta Palestinese, che prometteva la costruzione di uno Stato dal Giordano al Mediterraneo e la sparizione dello Stato d'Israele, fu trattata futilmente come un esercizio filosofico, mentre era la base fattuale di ogni possibile accordo. Ogni volta che i palestinesi parlavano di terra e territori, gli israeliani non capivano che ci si riferiva, dice Porat, a un diritto acquisito su tutta la terra e tutti i territori, che Israele era «territori rubati» sui quali Israele non aveva diritto a niente. Rabin non chiese di fatto reciprocità e benché le armi che lui stesso aveva consegnato ai palestinesi si aggiungessero a quelle importate clandestinamente da Arafat, non dette segno di chiedere il rispetto degli accordi.
Le armi spararono presto, appena Arafat si fu ripreso dalla debolezza in cui l'aveva lasciato la prima Intifada e il suo sostegno per Saddam durante la guerra del Golfo. Diventò presto chiaro che i palestinesi non avevano mai abbandonato la richiesta del ritorno dei profughi. Nel ‘95 l'accordo di Salim Zaanoun, il presidente del Parlamento palestinese con Haled Mashal, capo dell'ufficio politico di Hamas, e la promessa di lasciargli continuare «la resistenza», alias gli attacchi terroristi, «fintantochè l'Autorità palestinese non ne sia imbarazzata». L'accordo fu presentato al Cairo in una conferenza stampa. «Tuttavia oggi - dice Yuli Tamir, deputata laburista - anche Sharon riconosce che siamo un "Paese occupante" e che dobbiamo andare a "penose concessioni", ciò che significa che le conclusioni di Oslo sono accettate sia da Israele sia dai Palestinesi».
Non è vero, rispondono in coro i sostenitori del fallimento totale del processo: il terrorismo, specie dopo l'11 settembre, è diventato il centro del conflitto, la ragione della propria continuazione; i palestinesi sanno che Israele è pronto ad andarsene dai territori occupati, ma non è quello che vogliono. Usare il terrore per conquistare il vero obiettivo, che non è quello di Oslo. Quindi, spiega Daniel Pipes, uno dei più eminenti storici del Medio Oriente, bisogna riconoscere gli errori, non ripeterli, fare dell'accettazione di Israele presso i palestinesi l'obiettivo primario e dare a Israele la possibilità di difendersi dal terrorismo. Quando i palestinesi accetteranno l'esistenza di Israele, allora confini, risorse, armi, tutto si discuterà ex novo.
2) "Oslo col senno di poi" di Emanuele Ottolenghi e pubblicato su Il Foglio, anch'esso sabato 13 settembreDel senno di poi sono piene le fosse, dice il saggio. Parlava di Oslo? Forse. Dieci anni fa il mondo guardò con entusiasmo la stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat alla Casa Bianca. Non ci saranno celebrazioni oggi per segnare l’inizio di un nuovo Medio Oriente. Necrologi qualcuno, imbarazzo molto. Oslo è stato un sogno interrotto dall’incubo della realtà mediorientale.
Israele è troppo impegnato a cercare una via d’uscita dalle conseguenze di Oslo. I palestinesi, vittime della loro scellerata e irresponsabilmente vile leadership, inseguono le illusioni alimentate dai loro capi. Meglio farebbero a riconoscere l’errore di aver scatenato l’Intifada invece che accettare il compromesso che Oslo prospettava e che Israele aveva loro offerto. Ma non lo faranno, finché il desiderio di eliminare Israele dalla mappa ne guida ideologia, politica e azioni. Le cancellerie europee, troppo mediocri per riconoscere lo sbaglio di una visione diplomatica da loro sostenuta, fingono di non capire e si appellano ai soliti proclami sul "circolo vizioso della violenza" o se la prendono con gli "estremisti dalle due parti". Gli intellettuali, specie a sinistra, continuano a prestare la penna al soldo del conformismo, offrendo prestigio e ragione alle facili equivalenze morali tra terrorismo e rappresaglia, stragi di innocenti e uccisioni mirate, confondendo causa ed effetto, mali con cure. E il male, l’errore di Oslo, sta nel fatto di non avere imposto ai palestinesi, in maniera chiara, il riconoscimento pieno della legittimità delle rivendicazioni sioniste su parte di quel che per loro continua a chiamarsi per intero Palestina. Oslo omette qualsiasi riferimento esplicito al popolo ebraico e al suo diritto storico alla terra d’Israele. Il dramma corrente è il prodotto di questa omissione. Lo scontro che si consuma tra Israele e i palestinesi è uno scontro tra due rivendicazioni nazionali mutuamente esclusive, che si può ricomporre attraverso non solo un compromesso basato sulla pragmatica visione della spartizione territoriale dettata dalle realtà storiche e l’equilibrio di potere creatosi nel corso degli anni, ma prima di tutto con il riconoscimento reciproco della legittimità della rivendicazione opposta. Israele doveva riconoscere il diritto palestinese a uno Stato su parte della Terra d’Israele, i palestinesi dovevano riconoscere il diritto degli ebrei a uno Stato su parte della Palestina. Il riconoscimento è avvenuto a metà: Israele ha accettato e continua a riconoscere a grandissima maggioranza il diritto dei palestinesi a uno Stato. I palestinesi –forte del sostegno del mondo arabo- non hanno ancora riconosciuto il corrispettivo diritto degli ebrei. I palestinesi hanno deciso di negoziare con Israele solo perché erano troppo deboli per imporre il loro volere con la forza. Non una scelta strategica dettata cd un mutamento del prisma ideologico attraverso il quale vedono la realtà, ma una scelta tattica vissuta come provvisoria.
Chi è davvero miope?
La lezione di Oslo dunque è questa: la pace emergerà quando il mondo arabo e i palestinesi riconosceranno che Israele ha diritto a esistere non solo come presenza tollerata in virtù della sua forza militare ma come legittimo Stato degli ebrei. Le scene tragiche di questa settimana hanno indotto molti a cercare facili spiegazioni, dimenticando che all’origine del fallimento del processo di pace rimane l’ostinazione a distruggere Israele. Israele fu creato con un atto dell’ONU, quindi dotato di una legittimità internazionale alla quale gli Stati arabi si sono opposti. Quel riconoscimento manca ancora dopo più di cinquant’anni e senza di esso nulla potrò condurre alla pace. In un articolo sul Messaggero un ex premier italiano, due giorni fa, ha accusato Sharon di miopia politica, dimostrando di non capire –lui che l’arte di governo l’aveva saputa un po’ praticare- che un governo ha come primo compito quello di garantire la sicurezza dei suoi cittadini. Presumere che Hamas e la leadership palestinese siano disponibili a riconoscere la legittimità dell’esistenza di Israele solo se Israele cambiasse politica significa essere peggio che miopi. Vuol dire non vedere lo spettacolo di due realtà contrapposte: l’una, quella israeliana, che celebra la vita e accetta, nonostante tutto, il compromesso col nemico; l’altra, quella palestinese, che celebra la morte, esaltando il culto dei martiri e chiamando eroi gli assassini. Sharon miope? Detto da un cieco, forse forse suona come un complimento.
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