Incapace, farabutto, violento...ma che simpaticone
Un articolo del Corriere traccia un ritratto impietoso di Arafat, ma...
Testata: Corriere della Sera
Data: 12/09/2003
Pagina: 3
Autore: Antonio Ferrari
Titolo: Il declino del combattente che non ha saputo farsi statista
Ferrari non nasconde al lettore che Arafat è un terrorista, che non ha saputo riciclarsi per fare lo statista, e che dunque i suoi molti errori, commessi per decenni ed uno più grave dell'altro, lo hanno condotto in un vicolo cieco dal quale oramai non è più capace di uscire. Ma accompagna questo ritratto con alcune considerazioni personali che stridono con quanto scrive, oltre che con la realtà.

L'occhiello sotto il titolo, ripetuto nel contesto dell'articolo, ci ammonisce che "Lo stato ebraico ha fatto di tutto per mettere Arafat in difficoltà", "per ostacolarlo" come scrive poco oltre. Ma Arafat, così ce lo descrive Ferrari, è un "indomito combattente, pasticcione e imbroglione, ma pur sempre simbolo della causa palestinese, che è una causa giusta".
Con ciò, Ferrari ha messo a nudo la sua posizione ideologica che segna col pre-giudizio (o pregiudizio) le cronache che egli ci ammannisce dal più prestigioso quotidiano d' Italia.
E con ciò si spiega anche perché, pur descrivendo un Arafat inaffidabile, velenoso, arrogante, guerrafondaio, e tutto sommato stupido, Ferrari tace su un altro lato del suo carattere che lo ha reso inviso alla sua stessa gente: la corruzione personale, l'avidità, le manovre con cui stacca dagli aiuti umanitari le tangenti per sé ed i finanziamenti per i terroristi.
Quel che vorremmo sapere da Ferrari - noi stessi lo sappiamo benissimo - è per quale motivo Israele avrebbe dovuto evitare di "ostacolare" o "mettere in difficoltà" un personaggio che non è mai stato un partner di pace, ma solo un avversario sempre, un nemico mortale spesso.
Ecco l'articolo di Ferrari.

In chi lo conosce e che ha provato umana simpatia per questo indomito combattente, pasticcione e imbroglione, ma pur sempre simbolo della causa palestinese, che è una causa giusta, la decisione di Israele di espellerlo (prima o poi) provoca un moto di tristezza. Soprattutto per i madornali errori compiuti da un leader che è rimasto un condottiero militare, ma non è stato capace di acquisire un ruolo politico e istituzionale, da statista. Infatti Yasser Arafat, dopo aver dimostrato, con gli accordi di Oslo del 1993, d'essere diventato uomo di pace (ricevette il Nobel, assieme a Rabin e Peres), è stato incapace di diventare davvero il Nelson Mandela di Palestina. Si è avvitato su se stesso e ormai non ascolta più nessuno: gli amici non lo capiscono, e gli altri vengono definiti traditori. Certo, Israele ha fatto di tutto per ostacolarlo, ma il presidente palestinese ha fatto davvero poco per affrontare una situazione che probabilmente era superiore alle sue forze e alla sua capacità di governarla. Si potrebbe scommettere che da una parte Arafat sogna un destino da martire, che s'immola con la pistola in pugno, e dall'altra già medita che cosa potrebbe fare, una volta costretto all'esilio.
Il colpo di maglio finale, assestato su una mente ormai confusa dall'isolamento, è stato provocato dall'essere considerato irrilevante e dal non volersi convincere che ci sono dirigenti palestinesi, più giovani di lui, che sono pronti a contraddirlo. Fino a poco tempo fa, nell'Anp, esisteva un solo pensiero, il suo. Ora le voci e le volontà sono tante, e Arafat è troppo attaccato al potere per poterlo condividere, per piegare la propria ambizione a un ruolo di rappresentanza. Finché soltanto Israele lo accusava, faceva spallucce, convinto che gli Usa, l'Europa e i fratelli arabi non l'avrebbero mai abbandonato. Alla fine, non ha neppure compreso che il governo di Abu Mazen poteva essere la porta per il suo rientro sul palcoscenico, con un potere ridotto, ma con un intatto prestigio.
La caduta dell'ex amico-premier, costretto alle dimissioni, era dunque il segnale della sconfitta proprio per il presidente palestinese, che era convinto di aver vinto. Come a Beirut, durante l'assedio dell'82; come a Tripoli del Libano, quando nell'83 la Siria gli scatenò contro alcuni suoi ex fratelli, che non ne riconoscevano la leadership; come a Tunisi, dove preparò la riscossa; come a Ginevra (nell'88), quando rinunciò al terrorismo; come a Oslo, dove capì che stava per cominciare l'avventura da uomo di Stato; come in Palestina, dove l'ha vista fallire, illudendosi di poter controllare tutti. Nelle interviste e nelle conversazioni (chi scrive l'ha incontrato almeno 25 volte) era incapace di accettare il contraddittorio.
Nell'85, a Tunisi, dopo il bombardamento di Israele contro il quartier generale dell'Olp, rivelò per la prima volta notizie apparentemente interessanti, raccontando che si salvò perché stava facendo jogging sulla spiaggia.
Bugie.
E adesso? L'assedio della Mukata verrà rafforzato, in attesa di dare esecuzione alla decisione presa ieri. Esilio, ma dove? Tutti, a parole, dicono d'essere pronti a ospitarlo. Pochi sono pronti a farlo davvero.
Anche perché un Arafat umiliato può creare instabilità e imbarazzi. Sarebbe molto meglio se il presidente accettasse la riduzione del proprio potere. Un calcolo lucido che forse non è più in grado di fare. Non è quindi difficile prevedere, per i palestinesi, un'altra stagione terribile.
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