13-12-2001 Gli ultimi giorni di Arafat....
Elogio di Arafat
Testata:
Data: 13/12/2001
Pagina: 1
Autore: Dina Nascetti
Titolo: Gli ultimi giorni di Arafat
Sotto il titolo accattivante "Gli ultimi giorni di Arafat" L'Espresso del 13 dicembre pubblica un lungo servizio di Dina Nascetti, dove le fotografie della "rappresaglia israeliana" (le virgolette sono nostre) hanno la meglio, mentre i morti israeliani per gli attentati terroristici sono relagati nelle pagine successive ed evidenziati in misura minore. Il testo è, come sempre nei servizi di Dina Nascetti, totalmente sbilanciato in favore dei palestinesi. Arafat è "accerchiato dai blindati israeliani", il 1949 è ricordato come "la sconfitta degli eserciti arabi e l'esodo forzato dei palestinesi dalla loro terra a seguito della creazione delloStato di Israele". E poi uno si chiede come mai una certa opinione pubblica in Italia conosce ls storia del medio oriente in modo distorto! Arafat viene presentato come un dio,persino Bush viene descritto come uno che prima blandisce per creare la coalizione anti- Bin Laden e poi in nome della lotta la terrorismo invoca per Israele il diritto di difendersi. Il che è evidentemente male per l'Espresso. Naturalmente Gaza è misera per colpa di Israele, non che le miserie del popolo palestinese vadano ricercate nella sua leadership corrotta e incapace. Infine è Sharon il vero colpevole,"Il premier israeliano con la sua intransigenza ha sfiancato e favorito gli estremisti islamici", ecco, è Sharon il responsabile ultimo del terrorismo islamico!


Leggere tutto l'articolo che pubblichiamo integralmente e poi scrivere la propria protesta all'Espresso.

L'Espresso del 13/12/2001

Il conflitto tra israeliani e palestinesi
Gli ultimi giorni di Arafat
Prima le bombe dei terroristi di Hamas.
Poi,la rappresaglia israeliana.
Contro Yasser Arafat. Anziano e malato.E sempre più isolato

È la nuova naqba. È la nuova naqba ripeteva fra sé e sé Yasser Arafat accerchiato dai Blindati israeliani nel suo ridotto di Ramallah, mentre i missili distruggevano a Gaza, la sua casa, gli elicotteri e l’eliporto. Naqba, catastrofe, è una parola, che ricorda la sconfitta degli eserciti arabi nel 1949 e il forzato esodo dei palestinesi dalla loro terra, a seguito della creazione dello Stato di Israele. È una parola scolpita nella carne del popolo palestinese e mai in tutti questi anni il vecchio e malato Abu Ammar (nome di battaglia di Arafat) l’aveva evocata, pur nella lunga sequela di drammatiche vicissitudini. Anzi. Da ogni sconfitta, quell’ometto piccolo, dagli occhi spiritati e dalla barbetta incolta, attingeva nuova linfa. Non si arrendeva. Riusciva sempre ad incutere ai suoi una bella overdose di ottimismo. Era una sorte di araba fenice sempre pronta a rinascere dalle proprie ceneri.
Ma lunedì 3 dicembre, era appena tramontato il sole, e mentre il muezzin dall’alto del minareto melodiava l’interruzione del digiuno del mese sacro del ramadan, i cieli di Gaza, di Nablus, di Jenin, di Betlemme si illuminavano delle esplosioni dei missili e delle bombe lanciate dagli F16, Arafat capiva di trovarsi in un vicolo cieco, questa volta senza una via d’uscita. Una catastrofe, una nuova naqba, appunto.
Il premier israeliano Ariel Sharon, suo storico e acerrimo nemico, aveva appena iniziato la prevedibile rappresaglia agli sciagurati e terribili attentati dei kamikaze di Hamas e della Jihad che avevano insanguinato sabato l’affollata via Ben Yehuda di Gerusalemme e domenica fatto saltare in aria un autobus ad Haifa. Con un bilancio complessivo di 35 morti, per la maggioranza giovani e oltre 200 feriti. La sera stessa Sharon con la sua proverbiale veemenza lanciava dalla tv un inequivocabile messaggio agli israeliani: «Arafat è il più grande ostacolo alla pace. Lui è il responsabile di tutto quanto accade. Israele utilizzerà tutta la sua forza, tutta la sua determinazione e noi vinceremo».
Niente di nuovo per il leader palestinese. Scontate le irruenze di Sharon che lo paragona a Bin Laden. Ma la vera doccia fredda arriva dal presidente americano: «Israele ha il diritto di difendersi». È il via statunitense alla rappresaglia. Parole come un macigno. Non era stato forse lo stesso George Bush ad aprire uno spiraglio di speranze, parlando per la prima volta di uno Stato palestinese, all’indomani dell’attentato alle due torri gemelle? «È stato solo un espediente» è l’amara conclusione cui sono giunti i palestinesi, «per riuscire a convincere i riluttanti paesi arabi a partecipare alla coalizione antiterrore contro l’Afghanistan e Bin Laden». Un primo sospetto sulle vere intenzioni dell’amministrazione Usa, per la verità Arafat lo aveva avuto a New York in occasione dell’annuale assemblea dell’Onu. Bush si è rifiutato di incontrarlo e di stringergli la mano. Eppure quel gesto avrebbe rafforzato la debole figura del vecchio leader palestinese, sempre più contestato dai suoi. Accusato di permettere ogni genere di corruzione e clientelismo. Ma ancora più grave, l’infamia di svendere gli interessi nazionali fondamentali del popolo palestinese nel corso del processo di pace. Offeso, l’irascibile Arafat, era rientrato nella sua misera Gaza, con previa tappa d’obbligo al Cairo dal presidente Hosni Mubarak. Il capo di Stato arabo con la nomea di grande mediatore. «Invece finge. Anzi spesso eccita i palestinesi. Dice loro cosa fare, spiega la psicologia israeliana, suggerisce come negoziare. Più di una volta quando Arafat voleva accordarsi su l’una o l’altra cosa, ha tentato d’impedirglielo». Parole di Ephraim Dubek, ex ambasciatore israeliano al Cairo. Che aggiunge: «Sono stati Mubarak, re Abdallah, re Fahad, i capi di Stato arabi a dire ad Arafat di non accettare le ultime offerte di Barak e di non firmare su Gerusalemme». La terza città santa dell’Islam, dopo La Mecca e Medina, appartiene a tutto il mondo islamico e non è dei palestinesi. Questo l’alt degli arabi prologo, nel giugno del 1999, al fallimento del vertice di Camp David tra Bill Clinton (alla fine del suo secondo mandato), il premier Ehud Barak e Yasser Arafat. Ed erano sempre stati loro a non fare includere nella lista dei terroristi Hamas e la Jihad, le due organizzazioni che contendono la leadership ad Arafat.
Dall’incontro con Mubarak, Arafat non ricava nulla. Può solo constatare «l’appiattimento acritico e timoroso del rais egiziano sulle posizioni americane», dice un suo stretto collaboratore. La Palestina può attendere. Prigioniero nel suo quartier ge-nerale di Ramallah è sempre più solo, circondato da uno stretto numero di pretoriani, isolato dal resto dei suoi più stretti collaboratori che non possono raggiungerlo a causa del totale blocco delle città e dei villaggi palestinesi, la mattina di martedì 4, Arafat subisce l’affronto anche di un raid di missili lanciati sulla stazione di polizia situata all’ingresso del suo quartier generale. Più di duemila palestinesi sono subito accorsi per proteggerlo. Ma Arafat li ha fatti tornare tutti a casa. Intanto, nelle altre città dell’Autonomia palestinese una pioggia di missili si abbatteva contro i comandi della sicurezza preventiva e contro le sedi del corpo speciale della Forza 17, proprio quelle forze che dovrebbero arrestare i terroristi di Hamas e della Jihad. Ma per il 74enne Arafat, stanco e avvilito, con una vita di modeste e grandi sconfitte e parziali vittorie, l’affronto più grave è il silenzio dei leader arabi. Per di più è circondato da una pletora di collaboratori, spinti da gelosie personali che guardano più al dopo Arafat che al presente. Abbiamo incontrato il leader palestinese più di una volta. Ad Amman, Beirut, Tunisi e poi a Gaza. Nel bene e nel male Mister Palestina (così soprannominato dalla stampa americana), ha incarnato per trent’anni le aspirazioni del suo popolo. Negli ultimi anni si è potuto notare in lui un deterioramento fisico. Occhi meno decisi, una difficoltà a riconoscere vecchi conoscenti, la parola meno facile, il labbro sempre più tremolante. Il tremore, tipico del morbo di Parkinson. Farmaci ben dosati gli consentono comunque di andare avanti, anche se pubblicamente passa da momenti di lucidità ad altri in cui sembra esitare.
Giunto ormai in prossimità dell’estremo limite fisico per la sua carriera politica, c’è ancora chi scommette su un colpo di genio dell’uomo dalle sette vite, come lo descrive un libro di Christophe Boltanski e Jihan El Tahri, di tre anni fa. Sempre sul punto di essere travolto e cancellato dagli avvenimenti e poi sempre in grado di riacciuffare il corso della Storia, quando tutto sembrava perduto, saprà Arafat ancora una volta alimentare la sua leggenda? Oggi è di fronte forse alla prova più difficile. Accusato in questi anni di non essere stato capace di smettere i panni del guerrigliero e indossare quelli del capo di Stato, avrà la capacità di raccogliere gli inviti di Bush e di Sharon da un lato ed evitare dall’altro una guerra civile contro gli estremisti palestinesi? E porre così fine a quella subcultura dei fanatici integralisti che fa prevalere il gesto eclatante sul significato politico di una azione? Nessuno in questi giorni lo può dire.
L’alternativa ad Arafat, è opinione diffusa, è il caos alimentato da una eventuale piena fusione dell’elemento laico e nazionalista con quello estremista islamico, in cui le varie componenti di Hamas e Jihad avrebbero maggiore spazio e forza. «È quello che vuole Sharon. Il premier israeliano con la sua intransigenza, ha sfiancato e favorito gli estremisti islamici che con i loro attentati gli hanno dato l’alibi per invocare la legittima difesa», è l’amara conclusione dei palestinesi.

m.germano@espressoedit.it