Ogni comunità nazionale si fonda sulla storia di un popolo, elaborandone memoria ed ethos sociale per creare una cultura nazionale e miti politici in cui un popolo si riconosce.
Le versioni politiche e sociali sono particolarmente importanti per legittimare l’esistenza di una comunità nazionale e le sue scelte politiche.
Nei conflitti, i miti politici e le versioni storiche nazionali acquisiscono un ruolo fondamentale nel giustificare l’esistenza di un gruppo e nel legittimarne le richieste politiche.
Le prospettive storiche e politiche degli israeliani e dei palestinesi
Nel conflitto arabo-israeliano la prospettiva storica è lo strumento principale che definisce le due comunità in conflitto, le pretese di sovranità sul territorio così come la legittimità del diritto a uno stato-nazione.
Le versioni israeliana e quella palestinese sembrano essere parallele e incompatibili poiché basate sugli stessi eventi, ma con costruzioni politiche opposte.
In questo senso, la versione palestinese deve molto a quella israeliana, proponendosi come una contro-narrativa finalizzata a sostituirsi alla storia e alla politica di Israele.
Esempi di divario tra le prospettive storiche palestinese e israeliana
Il legame con la Terra di Israele. Durante la Diaspora l’ebraismo ha mantenuto una forte connessione sia nazionale sia religiosa con la Terra di Israele, per cui lo Stato di Israele trova il suo primo significato nella terra in cui si è formato il popolo ebraico. I palestinesi hanno vissuto una breve esperienza d’indipendenza collettiva nei vent’anni del Mandato Britannico, quando ancora la loro identità nazionale non era distinta da quella araba. Ciononostante, la versione palestinese ha sviluppato l’idea dei palestinesi come “popolo indigeno”, mentre il legame degli ebrei con la Terra di Israele sarebbe una ridondante costruzione sociale.
Nakba/Giorno dell’Indipendenza/Shoah. Mentre la versione politica israeliana ha elaborato la memoria collettiva della Shoah, delle guerre e della fondazione dello Stato d’Israele in celebrazioni nazionali, i palestinesi hanno ripreso gli stessi elementi per elaborare la Nakba, che serve da memoria collettiva opposta alla Shoah, ricordando la “catastrofe” della creazione di Israele per il popolo palestinese.
Gerusalemme/Al-Quds. Gerusalemme ha un significato di straordinaria importanza nella storia ebraica quale capitale della nazione ebraica, cui gli ebrei rivolgono le proprie preghiere e quale città che ospita l’unico luogo sacro per l’ebraismo, ossia il Muro del Tempio. I palestinesi hanno sviluppato una narrativa parallela che suggerisce una simile importanza di Gerusalemme per l’Islam.
La sofferenza collettiva. L’idea su cui si poggia Israele è la liberazione del popolo ebraico dall’oppressione e dalle persecuzioni attraverso la fondazione di uno Stato che serva non solo da rifugio per gli ebrei ma che ne rispecchi anche i valori e la cultura. Allo stesso modo, i palestinesi hanno rielaborato la nozione di sofferenza collettiva, creando l’idea di Palestina quale liberazione dall’oppressione e occupazione straniere.
Tra i maggiori leader del mondo ebraico e analista per il Jerusalem Post e Yisrael Hayom. Gestisce il blog “Candidly Speaking from Jerusalem”: http://wordfromjerusalem.com
Quando si parla del conflitto arabo-israeliano si fa riferimento normalmente a un conflitto territoriale, nazionale o religioso. Che importanza hanno le versioni storiche nel conflitto? Credo che le versioni della storia abbiano un ruolo fondamentale, in quanto entrambe le parti ne sono influenzate e in un qualche modo condizionate. È proprio la versione della storia che ha creato un conflitto che non potrà esser risolto finché i palestinesi non accetteranno la realtà di una sovranità ebraica in questa regione. Credo anche che l’intero conflitto si riduca a un problema solo, ossia il concetto palestinese per cui non c’è spazio per un’entità non-islamica in queste terre. I palestinesi considerano la creazione di Israele una catastrofe; questa posizione ha assunto toni nazionali e religiosi, mentre l’aspetto religioso è sempre più importante; nella prospettiva palestinese questo significa non accettare Israele, anche se il conflitto che potrebbe andare avanti per decenni.
Ogni conflitto, anche se risolto, lascia sempre più versioni della storia (basti pensare ad Austria e Italia), ma cos’ha di particolare il conflitto arabo-israeliano? In sostanza i palestinesi vedono in Israele un intruso cancerogeno e non sono disposti ad accettarlo – il che, come ho detto, assume tratti religiosi sempre più marcati, rendendo la soluzione del conflitto più difficile. Da un punto di vista puramente nazionalistico, ci potrebbe essere una soluzione con scambi di territori e in conformità a altre idee introdotte da Oslo, ma nel contesto attuale, tutto ciò è chiaramente irrilevante.
Gerusalemme, i territori, lo Stato ebraico, lo Stato palestinese: ogni volta che le parti si siedono al tavolo delle trattative sembrano essere problemi senza soluzione. Perché? Le trattative richiedono che entrambe le parti siano disposte ad accettare delle concessioni nonostante le differenze, proprio per raggiungere una forma di convivenza pacifica. Ci possono esser stati degli errori commessi da Israele negli anni, ma la volontà del popolo e dei governi israeliani è sempre stata di cercare mezzi e vie per raggiungere una convivenza pacifica, che è stato l’obiettivo primo del popolo di Israele fin dalla fondazione dello Stato. Gli israeliani vogliono mettere fine alla catena di guerra, pace temporanea e ancora guerra; gli israeliani cercano e desiderano stabilità.
I palestinesi anche sostengono di volere la pace e la fine del conflitto. È sbagliato mettere le due parti sullo stesso piano: Israele è una democrazia, fatta di idee e concetti diversi, che vanno dall’estrema sinistra all’estrema destra, mentre l’entità palestinese è una struttura essenzialmente autoritaria. Spingendomi oltre, anche se so che non è politicamente corretto, direi che i palestinesi sono una vera e propria società criminale.
La comunità internazionale ha accettato l’idea di uno Stato palestinese, cosa intende per “società criminale”? Si giudica una società criminale dall’ethos sociale che promuove, e ritengo che sia criminale una società che promuove la distruzione di uno Stato vicino, educando i propri giovani fin dall’infanzia a credere che la forma di ultima realizzazione personale sia sacrificare la propria vita per distruggere Israele uccidendo le persone e diventando degli shahid, dei martiri. Tutto ciò ha una connotazione religiosa: gli dicono che andranno in paradiso e che avranno ogni sorta di benefici per i loro sacrifici. Questo è quello che definisco una società criminale, in cui degli stragisti sono non solo santificati, ma diventano dei veri e propri eroi della nazione.
Queste persone e i loro atti sono anche parte della storia palestinese? Vede, nei Territori Palestinesi ci sono piazze intitolate agli stragisti, centri culturali, anche associazioni di calcio. Anche quando sono rilasciati dalle prigioni, sono invitati in TV, come si è visto negli ultimi mesi, a parlare di come hanno ucciso civili israeliani e il pubblico li applaude e li considera degli eroi. In più, quando sono incarcerati, l’Autorità Palestinese paga un salario: più devono stare in prigione più alto è il loro salario e più sostanziosa la quota mensile. Tutto questo, a mio avviso, non è parte di una società normale, ma di una società che promuove l’odio, la morte e che è essenzialmente criminale.
Anche se nell’Autorità Palestinese ci sono due regimi, Fatah e Hamas. So che quanto sto per dire non è politicamente corretto, ma le distinzioni tra Autorità Palestinese e Hamas sono puramente teoriche in questo senso. Hamas dice apertamente che vuole uccidere tutti gli ebrei, mentre l’Autorità usa la lingua dell’odio in arabo parlando alla propria gente, mentre al resto del mondo parla in maniera soave, costruendo un’immagine dell’entità palestinese completamente straniata dalla realtà.
Negli ultimi anni però i palestinesi non sono poi così attivi negli atti di guerra quanto invece nella diplomazia. I palestinesi hanno compreso che il terrorismo non è così efficace come la diplomazia: il mondo occidentale, che vuole arrivare a una soluzione, farebbe di tutto per mettere Israele sotto pressione, se non deve avere a che fare con la questione del terrorismo suicida. C’è un’atmosfera nel mondo per cui Israele è il nemico e deve fare delle concessioni. Israele ha fatto delle concessioni e anche sostanziali. Al contrario, i palestinesi non solo non ne hanno fatte, ma hanno anche aumentato le loro richieste, come il ritorno dei profughi, che è diventata ora una loro priorità e che significherebbe la distruzione di Israele. Queste trattative sono state come un’operazione di fantasia, senza alcun legame con la realtà. Le trattative non porteranno da nessuna parte perché i palestinesi non sono pronti ad arrivare a un accordo, come ha dimostrato chiaramente Arafat quando nel 2000 Barak gli ha offerto il 90% dei territori oltre la Linea Verde: e non hanno nemmeno fatto una controproposta! Credo che Abbas non abbia la minima intenzione di mettere in pericolo la propria posizione facendo delle concessioni. Non può arrivare a un accordo, questo è il vero problema. I palestinesi impongono delle precondizioni alle trattative e si comportano come se Israele fosse il questuante e non il contrario. Si è creata una situazione ormai impossibile per noi, e la pressione del mondo su Israele ha avuto effetti negativi per quanto riguarda il processo di pace, perché ha rafforzato coloro che non vogliono un compromesso e vogliono solo distruggere Israele. Le offerte che sono state fatte ai palestinesi per un accordo di pace sono diventate ora le condizioni per sedersi al tavolo delle trattative: è un processo finalizzato a colpire Israele. Questa è la battaglia che combattiamo ora.
La versione storica israeliana è considerata anacronistica ed è ridicolizzata, quella palestinese invece, basata sugli stessi principi, è legittimata, perché? Mi sta facendo una domanda delicata e molto difficile da rispondere, perché tratta dell’essenza del problema di Israele tra le nazioni. Potrei essere accusato di sciovinismo nel sostenere che Israele è soggetta a doppio standard. Allo stesso modo in cui l’ebreo nel Medioevo era un paria, la causa di tutti i problemi, accusato anche di tutti i disastri naturali, Israele oggi ha assunto lo stesso ruolo a livello internazionale, il capro espiatorio dei problemi del mondo. Oggi in Europa, quasi metà della popolazione è convinta che Israele stia compiendo un genocidio contro gli arabi; metà degli europei pensa che gli israeliani si comportino come i nazisti verso gli ebrei. Come si spiega tutto ciò? In parte è dovuto alla propaganda antisemita islamica, ma c’è anche un fattore sostanziale di antisemitismo ancora molto vivo in Europa. E poi c’è l’inversione della Shoah: inconsciamente la convinzione che gi ebrei si comportino male con gli arabi mitiga in un certo qual modo il senso di colpa che l’Europa prova per la Shoah. Infine, l’Europa è diventata anti-nazionalista, così che qualsiasi forma politica che non rientra nei suoi parametri diviene colonialismo. Tutti questi fattori messi insieme portano alla conclusione che Israele è il male, come dimostra il movimento dei diritti umani rapito da parte di persone per cui Israele rappresenta il male e i suoi presunti crimini offuscano la realtà di quanto sta accadendo in Siria con 150.000 morti e altre atrocità commesse nel mondo. Israele, come l’ebreo nella storia, è diventato il paria, destinatario di un odio irrazionale, per cui alle volte siamo completamente isolati. Alle volte credo che il mondo sia impazzito.
Cosa rende così accattivante la versione storica palestinese? Capovolgerei la domanda e chiederei invece cosa rende l’antisemitismo un odio così radicato nella storia, completamente irrazionale, presente in tutti gli ambiti dello spettro politico da destra a sinistra. Secondo me, questo è il vero problema. Invece che amore per i palestinesi, c’è un pregiudizio contro gli ebrei e contro lo Stato ebraico. Sembra una posizione quasi egocentrica, ma se si guarda al mondo arabo e alle violazioni dei diritti umani, il modo in cui vengono trattate le minoranze, la persecuzione dei cristiani, la mancanza di tolleranza, ossia tutti i principi propugnati dal mondo occidentale, tutto questo è in qualche modo cancellato. Mi chiede perché la causa palestinese sia difesa contro uno Stato democratico, che è l’unico Stato della regione che pratica i diritti umani, nonostante tutte le sue mancanze. Perché? Credo sia un pregiudizio contro di noi, irrazionale e difficile da spiegare. C’è anche un altro fattore politico da non sottovalutare: le nazioni islamiche sono un gruppo molto potente, anche se il petrolio non è più così importante, ma con i loro alleati, con i Paesi in via di sviluppo e altri Stati canaglia costituiscono la maggioranza dei voti nelle organizzazioni internazionali. Per questo, se decidono che il mondo è piatto, potranno adottare una risoluzione che dichiara che il mondo non è rotondo. Ecco perché Israele è sempre al centro delle risoluzioni, all’infuori di ogni razionalità e buonsenso. Ma questo è l’ordine politico del mondo in cui viviamo.
Gli arabi israeliani hanno abbracciato la causa palestinese; si definiscono palestinesi, celebrano la nakba, la catastrofe della creazione di Israele, e si oppongono ai tentativi delle minoranze di lingua araba di integrarsi in Israele, come i cristiani, i beduini e i drusi. È un problema per Israele? È un problema molto complesso, perché gli arabi estremisti hanno assunto la guida della minoranza araba in Israele e hanno più in comune con i palestinesi oltreconfine che con gli israeliani. Non credo che non ci siano prospettive nelle relazioni con gli arabi israeliani, ma credo che Israele debba fare ancora molto per migliorare lo status degli arabi nel Paese: godono di eguaglianza di diritti, ma il loro status socio-economico è ancora inferiore. Si può fare un paragone con la minoranza afro-americana negli Stati Uniti: ci è voluto del tempo, ma le cose stanno migliorando. Quando la loro posizione all’intero di Israele sarà più solida, credo saranno dei buoni cittadini e un giorno forse potranno servire da tramite con i nostri vicini. Questa è la mia visione molto ottimistica. Detto questo, ci sono dei problemi molto gravi. Non condivido per nulla la posizione del nostro Ministro degli Esteri che suggerisce di spostare i confini. Non si possono tagliare fuori, dobbiamo trovare una soluzione. Allo stesso tempo sono convinto che non possiamo assorbirne degli altri, perché la situazione diventerebbe ingestibile. Quanti parlano di annessione dei territori, sostenendo che gli ebrei rimarrebbero la maggioranza, sono dei pazzi! Non è solo una questione di essere la maggioranza, ma l’obiettivo è non fare di questo Paese un altro Libano, esattamente ciò che accadrebbe se avessimo qualche altro milione di abitanti arabi.
Che ruolo hanno gli arabi israeliani nel promuovere la causa palestinese? Non credo abbiano un ruolo nello sviluppo della causa quanto invece l’hanno assorbita e la riflettono. I concetti che si legano alla nakba sono stati esportati e hanno trovato un suolo fertile tra gli arabi estremisti in Israele. C’è un problema grave di sovversione, perché ci sono dei limiti che una democrazia deve imporre: un Paese sotto assedio non può permettere alcun tipo d’incitamento contro la società. Nessuno Stato lo può accettare e tanto meno uno Stato sotto assedio. La democrazia deve trovare un equilibrio, senza negare il diritto alla libertà di espressione.
Crede che l’odio anti-israeliano sia parte integrante della politica palestinese? Sì, senza dubbio. Sto per fare un’affermazione molto radicale. Ma prima vorrei chiarire che i palestinesi, a mio avviso, sono tra i più talentuosi e capaci nella regione. Se raggiungessimo un accordo di pace, potremmo fare delle cose straordinarie. Non provo alcun tipo di odio o astio etnico per i palestinesi in sé, ma avendoli definiti una società criminale vorrei fare un paragone. Direi che i tedeschi prima dell’avvento del nazismo erano tra i popoli più illuminati dell’Europa, trasformatisi poi in mostri con il lavaggio del cervello della gioventù. Oggi i tedeschi sono ancora tra i più illuminati d’Europa, dopo il processo di de-nazificazione e democratizzazione. Così direi anche i palestinesi. Arafat ha estremizzato l’educazione e ha cresciuto generazioni di giovani che ci odiano ancor più dei suoi predecessori. Finché non si cambia la propaganda nelle scuole, nelle moschee e nei media non ci si può aspettare che l’opinione pubblica sia altro che contro di noi. Ci sono stati momenti in cui siamo andati abbastanza d’accordo; forse il miglioramento delle condizioni economiche porterà di nuovo a forme di collaborazione a certi livelli, che comporteranno un cambio di leadership e una qualche forma di coesistenza.
Come vede il futuro? Non vedo alcuna soluzione immediata. Lo status quo è forse la migliore delle soluzioni accettabili: Israele rappresenta un miracolo negli ultimi cent’anni, un’impresa compiuta in condizioni straordinariamente difficili e avverse. Sono ottimista. Israele è un Paese consolidato, un’isola di tranquillità in una regione in subbuglio. È senza dubbio un periodo difficile. Ma sono molto ottimista.
Consulente sulla Delegitimazione allo Strategic Dialogue Centre, Natanya Accademic College. Autore di “Israel Reclaiming the Narrative – Exposing the Big Lie and Its Perpetrators”.
Qual è il ruolo della narrativa palestinese nel conflitto? Lo scopo della narrativa palestinese è la decostruzione dell’intera nozione di Israele quale focolare nazionale del popolo ebraico. Per Israele invece la narrativa ha un ruolo di legittimazione e giustificazione dell’esistenza dello Stato ebraico quale Stato nazione del popolo ebraico.
Che funzione svolge la richiesta costituire uno Stato palestinese nell’intera narrativa che si oppone a Israele? La strategia di Abbas è di creare uno Stato palestinese sotto occupazione; in questo modo, una volta costituito uno stato palestinese legittimo, si solleverà la questione: qual è il resto della Palestina? In quest’ottica, il resto della Palestina comprenderebbe anche dove io e Lei siamo adesso, ossia Tel Aviv. Se Israele non ha legittimità in Giudea e Samaria, non è nemmeno legittimo qui a Tel Aviv. Questo è il piano dei palestinesi.
Cos’ha a che vedere con le trattative tra Israele e Autorità Palestinese? I palestinesi non riconoscono Israele come Stato ebraico. I palestinesi non possono accettare che Israele sia uno Stato ebraico e non possono accordarsi sulla fine del conflitto, perché non ne hanno interesse. Quindi chi ci dice che dovremmo ritirarci dai territori non ha compreso cosa comporterebbe la cessione dei territori: lo stadio successivo sarebbe la creazione di una Grande Palestina che comprenderebbe Israele. Il problema qui è lo scontro di due mentalità opposte che non lasciano spazio a fiducia reciproca, con una controparte palestinese che cerca solo la distruzione di Israele. Kerry sostiene che è un errore richiedere il riconoscimento di Israele come Stato ebraico, ma allora di cosa stiamo parlando? Peres anche sostiene che la richiesta sia ridondante, ma è esattamente il motivo per cui Israele è stata creata. Il riconoscimento comporterebbe la fine del conflitto, perché i palestinesi si dimostrerebbero un partner affidabile che riconosce l’esistenza di Israele.
La comunità internazionale ha accettato la posizione israeliana di uno Stato ebraico e la posizione palestinese di uno Stato nazionale per i palestinesi, ossia la soluzione dei due Stati. Perché allora non si arriva a una soluzione del conflitto? Credo che sia proprio il vicolo cieco in cui Israele si trova. Netanyahu riconosce il diritto del popolo palestinese a uno Stato e l’idea dei due Stati come soluzione al conflitto, ma ora vien fuori che non è quello che i palestinesi vogliono, perché non accettano nessun compromesso. Siamo intrappolati in questa situazione per cui Israele deve fare concessioni, ma senza alcun partner per la pace. L’idea di base è che Abbas sia il partner nelle trattative con cui fare la pace, ma dà prova di non esserlo ed è proprio il problema di Israele ora: fare la pace senza un partner.
Può fare un esempio di come le due versioni storiche siano diverse? C’è un abisso tra le due visioni storiche e politiche. Per esempio, Giudea e Samaria sono divenute i “territori contesi”, poi sono state definite West Bank, e ora invece sono i Territori Occupati. Gli stessi territori amministrati da Israele dopo la guerra del 1967 sono “Giudea e Samaria” e “Territori Palestinesi Occupati”. Un altro esempio riguarda il diritto internazionale. Basta leggere il testo del Mandato sulla Palestina: utilizza espressioni come “la creazione di un focolare nazionale ebraico” e soprattutto “insediamenti ebraici”, che ora invece sono diventate brutte parole. L’ONU avrebbe dovuto dare continuità alla Lega delle Nazioni ma allora non si capisce come gli stessi insediamenti ebraici che erano legali con la Lega delle Nazioni siano diventati illegali sotto l’ONU. Se il Mandato Britannico non ha rilevanza per quanto riguarda la legittimità di Israele, allora non lo è nemmeno il Mandato che ha fatto nascere Siria e Giordania, e, allo stesso modo, nemmeno Austria e Ungheria sono legittime perché sono il prodotto delle stesse risoluzioni! L’uso erroneo della lingua ha un ruolo centrale. Una volta si parlava di due popoli e due Stati, ora si parla solo di due Stati, perché? Perché i palestinesi vogliono i due Stati come soluzione intermedia col fine ultimo di liberare quella che considerano l’intera Palestina, cioè anche il territorio di Israele!
Eppure il mondo sta con i palestinesi. Che cosa rende così accattivante la causa palestinese? Il messaggio elaborato scientemente da un gruppo di estremisti pro-palestinesi è quello della soluzione dei due Stati, fabbricato in maniera seducente per i liberali laici e progressisti. Costituiscono quella che chiamo la “inebriante industria della menzogna”: è come una droga. Nelle università seducono gli studenti con la religione laica dei diritti umani, così che è diventato quasi un crimine non stare dalla parte dei poveri palestinesi oppressi. Ma nessuna soluzione di due Stati è perseguita realmente, mentre il vero obiettivo è la distruzione di Israele. E come risultato si ha una strana forma mentale nella sinistra e anche in molte organizzazioni ebraiche.
Parla delle organizzazioni ebraiche che sostengono la causa palestinese? Molti ebrei sostengono che per il bene di Israele dovremmo fare una serie di azioni anti-israeliane. Insomma Israele è presa di mira proprio da chi dovrebbe conoscerla meglio! In America una delle più grandi organizzazioni ebraiche, Hillel, invita oratori anti-israeliani nei campus universitari: è una follia – un’organizzazione ebraica che invita anti-israeliani e antisemiti a parlare nelle università. Però non permettono che Israele esponga il proprio punto di vista; gli israeliani non sono invitati a parlare di fronte alle organizzazioni arabe. È un pluralismo unilaterale. Un’altra novità è la partecipazione di organizzazioni anti-sioniste israeliane alla “Israel Parade” a New York, il corteo annuale in occasione della Giornata d’Indipendenza di Israele. Questo è il fascino della casusa palestinese, che in realtà è molto facile da smontare, perché è fatta di bugie, mezze verità e ipocrisia. L’intera idea di una nazione palestinese è basata su una finzione.
Nel suo libro “Reclaiming the Narrative”, si rivolge direttamente agli attivisti dei diritti umani: sembra che l’intera versione della storia palestinese sia basata sull’ingiustizia. È dovuto al fatto che i difensori dei palestinesi hanno sin dall’inizio usato la lingua dei diritti umani e della giustizia per il “popolo sotto occupazione”. Il messaggio si è propagato senza che nessuno in Israele parlasse di giustizia per gli israeliani e per lo Stato ebraico. E anche Shimon Peres non dà particolare credito all’hasbarah: se Israele sta facendo qualcosa di giusto non c’è bisogno di hasbarah, così la pensano in molti, compreso Ben-Gurion a suo tempo, che si rivolgono con sprezzo all’anti-sionismo e all’antisemitismo. Così gli israeliani si sono trovati ad affrontare una comunità internazionale che usa espressioni come “occupazione illegale”, “violazioni dei diritti umani”, e come se ne esce? È un vicolo cieco: Israele è attaccata dagli attivisti dei diritti umani mentre tenta di spiegare le proprie ragioni quando la versione della storia palestinese ha già conquistato il mondo. Nel mio libro cito le parole di Arafat in un’intervista data alla giornalista italiana Arianna Palazzi nel 1970: “La questione dei confini non ci interessa. L’OLP combatte Israele in nome del panarabismo. Quella che Lei chiama Giordania non è che la Palestina”.
Nel suo libro parla anche degli attivisti della delegittimazione: come si inserisce il BDS nella causa palestinese? La delegittimazione è strumento chiave per i palestinesi e il BDS è l’arma principale. Gli attivisti del BDS non sono veramente interessati ai diritti umani; sono le espressioni linguistiche che sono attraenti. Hanno veramente a cuore i palestinesi? S’interessano veramente dei diritti umani nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese? Si chiedono mai che tipo di mostro stanno creando? Che cosa dicono della persecuzione dei cristiani e dei diritti degli omosessuali? I laici liberali sarebbero scioccati se sapessero cosa sarà della Palestina se vanno avanti così!
La loro preoccupazione principale è l’occupazione israeliana. C’è la convinzione che non ci può essere piena democrazia finché ci sarà l’occupazione: non ha senso. Se i palestinesi s’impegnassero a costruire la loro struttura amministrativa, il loro governo e la loro società sulla base dei valori propugnati da chi li sostiene, avremmo la pace domani!
Ma lo zelo degli attivisti è tutto orientato alla giustizia, alla pace a anche alla non-violenza! La causa palestinese è una pubblicità sensazionalistica che si adatta alle ristrette vedute degli attivisti. Come ha scritto Steve Apfel nel suo “Enemies of Zion”, “Territori Occupati Palestinesi non è che un’etichetta che esprime il credo e lo zelo degli anti-sionisti. Il loro dio non richiede altro che l’odio per il sionismo e ossequio per gli arabi palestinesi”. È proprio su questo dogma che costruiscono le loro fantasie anti-israeliane e pro-palestinesi. La verità finisce per esser disconosciuta e sostituita da un’invenzione che seduce l’ingenua opinione pubblica con il suo richiamo emozionale.
Ritornando al fascino della narrativa palestinese, non è solo il mondo laico liberale che la abbraccia, ma anche quello cristiano, che in larga parte sostiene i palestinesi anche da un punto di vista teologico. Ci sono molti cristiani che sono dalla nostra parte, e ho occasione di incontrarli spesso. Chiedo sempre che ruolo ha l’antisemitismo nella costruzione anti-israeliana. Prenda ad esempio la Carta Kairos, il documento ecumenico cristiano contro l’occupazione: è interamente basato sulla sostituzione della Palestina a Israele. Kairos significa “eternità” e la parola è usata nel testo per creare una continuità temporale tra oggi e i tempi di Gesù, in linea con il cristianesimo che rinnega gli ebrei, proprio come la teologia della sostituzione ha fatto per secoli.
E le ragioni israeliane? A livello politico non c’è una strategia che punti sulle ragioni di Israele. I più attivi pro-israeliani sono originari del mondo anglosassone; creano gruppi di lavoro, ONG, senza alcun aiuto del governo israeliano: Honest Reporting, NGO Monitor, UN Watch, Palestinian Media Watch, stanno tutti facendo un ottimo lavoro in vari campi e sono tutte associazioni create da cittadini e non dal Ministero degli Esteri israeliano!
Che ruolo gioca l’Europa nella fabbricazione della causa palestinese? Consideri i palestinesi e qualsiasi loro governo, Fatah in Cisgiordania e Hamas a Gaza: guardate cosa avete creato! Quello che l’Europa dovrebbe fare è esercitare pressione sui palestinesi: “non vi daremo più soldi finché non creerete uno stato a mia immagine”, ecco cosa dovrebbe fare l’Europa. Ora c’è un altro regime corrotto, un regime canaglia, perché l’Europa continua a finanziarlo? L’anno scorso, nel 2013, i delitti d’onore nella società palestinese sono aumentati del 100%: è questa la nuova Palestina che i sostenitori liberali progressisti dei diritti umani vogliono creare? La Palestina non dovrebbe dar prova di rispettare i principi base della democrazia prima di ricevere finanziamenti? Non crede anche Lei che questa entità dovrebbe rispettare delle condizioni per avere sostegno e fondi?
I finanziamenti dell’Europa sono in teoria soggetti a condizionalità. Questa ipocrisia è soncertante! Lei viene dall’Italia, che ammette non essere una democrazia perfetta, ma se la Palestina facesse propri anche solo alcuni dei valori su cui si fonda l’Italia, Israele avrebbe un partner affidabile per la pace, con dei valori condivisi e una lingua comune per raggiungere un accordo sui confini, su forme di cooperazione ecc. Solo così Israele sarebbe certa che i palestinesi non stanno cercando di distruggerla.
Qual è la sua opinione sulle trattative con i palestinesi? Mi chiede che lezioni può imparare Israele dal dialogo con Mahmoud Abbas? Una lezione è sicuramente che non ci si può fidare degli impegni che i palestinesi si assumono, anche quando firmano accordi vincolanti. Quando Abbas ha firmato le 15 richieste per far parte di tratti e organi dell’ONU ha chiaramente violato i vincoli legali creati dagli Accordi di Oslo firmati nel 1993 con testimoni gli Stati Uniti, l’Unione Europea e la Russia. Questo significa per Israele che i palestinesi possono mettere la firma su qualsiasi cosa, ma la loro firma non ha alcun valore. Fare in modo che Israele ceda i territori e la propria sicurezza è solo un trucco, finché un giorno un nemico palestinese deciderà di non rispettare gli impegni che si è assunto. Come ci si può aspettare che Israele si assuma dei rischi che mettono a repentaglio la propria esistenza con un nemico così palesemente inattendibile? A peggiorare le cose c’è poi la decisione di fare un accordo con Hamas, il regime terroristico palestinese che tiene sotto scacco Gaza e incita a uccidere gli ebrei e a distruggere Israele. Questo non fa che confermare le mie paure più profonde, cui ho dato il nome in un articolo scritto l’anno scorso: “bandiere palestinesi sventolano a Gerusalemme”, in cui mettevo in guardia dal pericolo che Israele corre nello stringere un accordo con un’Autorità Palestinese che potrà esser governata da un’organizzazione terroristica islamista come Hamas. Può immaginarsi che Israele conceda i territori, la propria sicurezza per svegliarsi un giorno in cui Hamas trionfa sulle strade di Gerusalemme e ha il controllo dei punti più strategici a ridosso, per esempio, del nostro unico aeroporto internazionale e di tutta la stretta fascia costiera sotto nostra sovranità? Un mondo ragionevole può chiaramente capire come questo sia inconcepibile.