Israele è considerato uno dei Paesi più progressisti nel riconoscimento dei diritti della comunità LGBT e nell’accettazione sociale dell’omosessualità.
I membri della comunità LGBT sono impegnati nella società, in politica e nella vita culturale, politici, scrittori, artisti, registi e attivisti apertamente gay e lesbiche che hanno contribuito all’avanzamento dello status degli omosessuali nella società.
I partiti politici di sinistra e di destra sostengono I diritti LGBT in Israele, dove circa il 61% della popolazione è a favore del matrimonio gay.
Lo Stato di Israele appoggia a livello internazionale il riconoscimento dei diritti degli omosessuali.
Secondo diverse opinioni l’apertura di Israele sulla questione LGBT è dovuta all’inclinazione di Israele ad accettare la diversità per la sua società pluralistica; all’attivismo delle associazioni LGBT nella lotta per l’eguaglianza; e all’esercito come istituzione sociale di integrazione tra diverse identità sociali.
Le tappe del riconoscimento dei diritti LGBT
Al momento della sua fondazione lo Stato di Israele ha ereditato il sistema giuridico ottomano e britannico, secondo cui l’omosessualità costituiva reato punibile con reclusione fino a dieci anni. La norma non fu mai applicata.
Sulla base il parere giuridico del 1972 del Procuratore Haim Herman Cohn (nipote del rabbino Shlomo Karlibach), la legge fu cancellata nel 1988, come parte di una riforma generale del sistema penale.
La discriminazione su base dell’orientamento sessuale è proibita dalla Legge sulle Pari Opportunità, riformata nel 1992 per proteggere l’identità sessuale.
Nel 1991, le Forze di Difesa Israeliane hanno ufficialmente eliminato le norme interne che discriminavano gli omosessuali, considerati a lungo un pericolo per la sicurezza nazionale.
Nel 1994, la Corte Suprema israeliana ha riconosciuto i diritti delle coppie dello stesso sesso come unioni civili. La Corte si era espressa sul caso Danilowitz, che aveva fatto causa alla compagnia aerea El Al, per cui lavorava, ché non riconosceva a sé e al suo compagno i privilegi aziendali riservati alle coppie eterosessuali. Nella decisione, la giudice Dalia Dorner ha spiegato che non si trattava di mera non-discriminazione, ma di piena eguaglianza.
Nel 2005, la Corte Suprema riconosce il diritto delle coppie omosessuali di adottare i figli del partner dello stesso sesso. Questa decisione è stata seguita da un parere giuridico del Procuratore, che estende alle coppie omosessuali gli stessi diritti e doveri delle coppie eterosessuali riguardanti l’adozione.
Nel 2006 una decisione della Corte Suprema riconosce i matrimoni gay celebrati all’estero.
Le opinioni dei giudici che decidono in favore dei diritti LGBT sono basate sulla concezione di eguaglianza degli omosessuali agli eterosessuali, per cui anche le istituzioni sociali di “famiglia” e “unione amorosa” includono anche le coppie dello stesso sesso.
Le opinioni di minoranza che contrastano con queste visioni sostengono che il cambiamento sociale delle istituzioni della “famiglia” e delle “unioni amorose” non è ancora completamente accettato, e pertanto la questione LGBT andrebbe trattata a livello di non-discriminazione più che di eguaglianza.
I tribunali civili hanno recepito le decisioni della Corte Suprema, con casi di sentenze di scioglimento di un’unione tra due uomini, ordini di riconoscimento della cittadinanza o del permesso di soggiorno al coniuge omosessuale di un israeliano.
La comunità LGBT in politica e società
Il partito di sinistra Meretz è stato il primo partito a sostenere ufficialmente i diritti dei gay, creando nel 1996 il gruppo “Gay Forum” per l’avanzamento degli interessi LGBT all’interno del partito e in politica. Uzi Even è stato il primo parlamentare apertamente gay ad esser stato eletto alla Knesset.
Nel 2011, il Partito Laburista e Kadima istituiscono i loro “Gay Forum”.
Nello stesso anno, Even Cohen e Ormi Rosenkrantz hanno fondato il “Gay Forum” all’interno del maggiore partito di destra, il Likud.
La municipaltà di Tel Aviv, conosciuta per la sua numerosa comunità gay, ha un consigliere per le questioni LGBT, Yaniv Waizman.
La comunità LGBT israeliana è molto attiva a livello sociale, con molte associazioni, tra cui: Ha-Agudah fondata a Tel Aviv nel 1975; Habait Hapatuach-Open House, fondata a Gerusalemme nel 1996; Bat Kol, organizzazione di lesbiche ebree religiose fondata nel 2004; Havruta, organizzazione di gay religiosi; Hod, associazione di gay ebrei ortodossi; Hoshen, organizzazione a scopi educativi; Israeli Gay Youth, fondata nel 2001; Shoval, foundata da gay, lesbiche e transgender ebrei ortodossi; e Tehila, l’associazione dei genitori di gay e lesbiche.
L’impegno internazionale di Israele nella difesa dei diritti LGBT
Nel 2006 Israele ha votato a favore della decisione del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite per riconoscere lo status di organizzazioni consultive a due associazioni LGBT. Hanno votato a favore Perù, Colombia, Romania, Regno Unito e Stati Uniti. Hanno votato contro Burundi, Cina, Egitto, Guinea, Pakistan, Qatar, Russia e Sudan.
Documentario sui rifugiati gay palestinesi in Israele
Israele accetta gay palestinesi in fuga dai Territori amministrati dall’Autorità Palestinese come vittime di persecuzione per la loro identità sessuale. Israele non riconosce il diritto di asilo per motivi di orientamento sessuale, ma accoglie i rifugiati in vista del loro trasferimento.
Israele è accusata di “pinkwashing”, un neologismo che nasce dalle parole “pink” (rosa) e “whitewashing” (camuffare, distogliere) e descrive il supposto tentativo di Israele di enfatizzare la sua aperture verso gay per distogliere l’attenzione del mondo da altre politiche considerate negative.
Jonathan Danilowitz, nato in South Africa, ha fatto aliyah trasferendosi in Israele all’inizio degli anni ‘70. Ha lavorato come Direttore dei Servizi di Volo presso la linea di bandiera israeliana El Al. Dopo il rifiuto di El Al di riconoscere a lui e al suo compagno convivente i privilegi concessi alle coppie eterosessuali, Danilowitz fa causa alla compagnia. Nel caso El Al v. Jonathan Danilowitz la Corte Suprema d’Israele ha riconosciuto le coppie dello stesso sesso come unioni civili con pari diritti alle coppie eterosessuali. Il caso Danilowitz rappresenta il primo passo verso l’eguaglianza dei gay in Israele.
Qual è lo status della comunità omosessuale in Israele?
L’omosessualità in Israele è generalmente accettata. Negli anni Israele ha riconosciuto i diritti dei gay a formare una famiglia, ad adottare figli e ad avere figli attraverso procedure di fecondazione. Direi che in Israele i gay hanno più diritti che in molti Paesi occidentali, compresi molti Paesi europei.
Certo ci sono ancora ambiti di discriminazione e molti pregiudizi contro cui combattere, ma in generale la società israeliana è aperta alla diversità.
Qualche aspetto di maggiore imperfezione?
Credo che il problema principale sia il matrimonio, che non è riconosciuto in Israele. Ma questa non è una questione esclusivamente sofferta dai gay, quanto invece un problema per l’intera società israeliana.
Israele non riconosce il matrimonio civile. Se ci si vuole sposare, bisogna andare da un tribunale religioso oppure sposarsi all’estero. Le coppie omosessuali, come quelle eterosessuali, sono riconosciute come unioni civili. Tuttavia, il riconoscimento del matrimonio civile è un obiettivo per molti israeliani.
Come spiega che i diritti dei gay sono stati riconosciuti in Israele , nonostante l’influenza della religione nella sfera pubblica?
Non direi che la religione giochi un ruolo fondamentale nella maggior parte della società israeliana o nella sfera pubblica in Israele, come potrebbe essere per altri Paesi, come l’Italia per esempio.
Gli israeliani sono molto liberali e sono bendisposti ad accettare le differenze. Israele è stata costruita proprio sulla base di differenze culturali e questo ha reso gli israeliani più disposti a gestire la diversità.
E riguardo alle comunità religiose, che hanno una notevole influenza nella politica israeliana?
C’è una minoranza religiosa, molto ben organizzata e molto attiva nel far sentire la propria voce su come le persone dovrebbero vivere; l’omosessualità non è una forma di vita da loro accettata. Ma Israele è diversa. Gli israeliani sono fieri di essere ebrei, ma non significa che siano strenuamente religiosi o magari non lo sono proprio per nulla.
Penso anche che ci siano così tanti problemi esterni in questo Paese, che la gente dice “chi se ne importa dei diritti dei gay?”. I diritti dei gay non sono percepiti come un problema nella società israeliana se si tiene presente il pericolo costante, cioè la minaccia alla propria esistenza, che Israele fronteggia ogni giorno. Quindi, se ci si deve preoccupare di qualcosa, questo “qualcosa” è il missile che potrebbe distruggere il Paese e non la coppia gay che vuole sposarsi.
Si è trasferito in Israele facendo aliyah dal Sudafrica negli anni ‘70, qual è stato il suo impatto con la società israeliana?
Sono nato in Sudafrica, dove ho vissuto come eterosessuale fino all’età adulta. Ero completamente incapace di affrontare la mia omosessualità; anche a me stesso non riuscivo ad ammettere che ero gay.
Dopo sono venuto in Israele, dove ho avuto le prime esperienze che mi hanno aiutato ad ammettere chi sono, nel senso che ho lasciato alle spalle la mia vita precedente in un altro Paese e ho aperto un nuovo capitolo, forse ho incominciato proprio un nuovo libro, in un nuovo Paese. Questo ha significato anche affrontare con me stesso la questione dell’identità, di chi sono io, e ammettere quindi che sono gay.
Ovviamente ho affrontato la sofferenza e le questioni esistenziali di “cosa succederà?”, che molti gay attraversano; ma ero già un adulto indipendente quando ho ammesso in pubblico che sono gay ed ho incominciato a capire che sono uguale agli altri e che ho diritto a esser trattato in maniera eguale.
Ha vissuto in Israele per più di trent’anni, durante i quali ha assistito al progressivo affermarsi dei diritti dei gay in Israele, e vi ha anche contribuito facendo causa alla El Al, per cui allora lavorava, per vedere riconosciuti i privilegi concessi alle coppie sposate anche a lei e al suo compagno. Il caso è terminato con successo, e la Corte Suprema ha riconosciuto i diritti dei gay. Come vede lo sviluppo dei diritti degli omosessuali nella società israeliana?
Come dicevo, sono nato e cresciuto in Sudafrica e bisogna ricordare che il Sudafrica era, e per molti aspetti lo è ancora, una società repressiva e oppressiva. Era oppressiva anche per i bianchi: c’era una rigorosa censura sui film, sulle riviste e sui libri, e niente televisione! Però la stampa era libera, anche se non completamente–bisogna spezzare una lancia in loro favore, infatti, i media erano piuttosto liberi.
Venivo da quella società oppressiva e sono arrivato in Israele: aperta, liberale; il che mi si confaceva e sono diventato immediatamente un cittadino attivo. Ero come un bambino che per molto tempo non ha mangiato cioccolato, che improvvisamente si trova in una fabbrica di cioccolato e incomincia a mangiarne in continuazione. E credo sia questo ciò che mi è capitato.
Quindi intende dire che l’aspetto più importante è stato la liberazione da un regime oppressivo a una democrazia liberale?
Non ci ho mai pensato veramente, ma credo che sia stato per me come uscire dalla prigione che per me era il Sudafrica e arrivare in questa società liberale e aperta, con una stampa molto libera. In più, lavoravo per El Al quindi sono entrato in contatto con molte altre culture e ho visitato molti Paesi, che non avevo mai capito e di cui non sapevo poi molto.
Quando vivevo in Sudafrica pensavo che l’apartheid fosse una cosa normale: era la sola cosa che conoscevamo e non avevamo molti altri parametri di riferimento. I miei genitori sono nati in Sudafrica e anche loro pensavano fosse normale. C’erano partiti politici e in particolare un piccolo partito che rappresentava la più forte opposizione al governo nazionalista che ha introdotto e sostenuto l’apartheid; la maggioranza dei leader del partito di opposizione e dei suoi sostenitori era ebrea. In Sudafrica ho vissuto in un ambiente caratterizzato da un liberalismo in erba, ma non ho mai vissuto in una società liberale prima di arrivare in Israele, dove sono rinato e ho incominciato a essere attivo nella società.
Lei sostiene che Israele è una società aperta e liberale, che accetta le differenze e riconosce i diritti delle diverse comunità. Nel caso dei gay, Israele ha una legislazione molto più liberale di molti stati occidentali. Come spiga quindi che molti gruppi nella comunità omosessuale mondiale siano così profondamente e violentemente anti-israeliani?
Abbiamo appena parlato del Sudafrica. Avrebbe potuto farmi la stessa domanda riguardo a quel Paese: “Come spiega che la comunità nera in Sudafrica, che è stata appoggiata dalla comunità ebraica durante il regime segregazionista, sia oggi così anti-israeliana e antisemita?”.
Non riesco proprio a capacitarmene; è un’anomalia che non riesco a comprendere. C’è sicuramente un antisemitismo di base connaturato in molte società ed erede di una lunga storia di pregiudizio antisemita cattolico; i discorsi antisemiti si sono propagati per duemila anni ed ecco il risultato: la gente semplicemente odia gli ebrei.
So che nessuno apprezza sentirselo dire, perché solitamente ci si vuole difendere con il solito “nessuno può criticare Israele senza esser accusato di antisemitismo”, ma è un semplice fatto. La gente odia gli ebrei, e odia Israele, in quanto Stato che rappresenta gli ebrei.
Ci sono molte organizzazioni che sono neutrali o che non sono anti-israeliane. Sono convinto tuttavia che i gruppi anti-israeliani si espongano di più ai media, proprio come la minoranza anti-gay in Israele. Si fanno sentire di più e fanno più rumore dei gruppi che sono neutrali o che sostengono Israele.
Quindi ritiene che sia un fenomento conseguente a una gonfiatura dei media? Hanno anche coniato l’espressione “pinkwashing” (da whitewashing, camuffare, e pink, rosa), accusando Israele di ricostruirsi la faccia attraverso la legislazione liberale per nascondere altri supposti crimini.
I media giocano un ruolo fondamentale perché vanno in cerca di notizie sensazionalistiche da vendere, e la gente che le legge o che le guarda in televisione pensa che sia quella la realtà.
Credo che la maggioranza dei gay sia favorevole, ma ci sono gruppi che escono urlando “pinkwashing” ogni volta che possono, facendosi sentire. Allo stesso modo succede in tutto il mondo che ci siano manifestazioni per i diritti dei gay, come i gay pride, e i media si concentrano solo sui più provocatori e stravaganti: la maggior parte dei reportage sui giornali e in TV sui gay pride riporta solo le estremizzazioni.
Più uomini e donne sono nudi, più i giornali e i media in generale si concentreranno su di loro. Lo stesso avviene con il pinkwashing. È qualcosa di diverso, che fa rumore quindi riescono sempre ad attirare l’attenzione del mondo su di sé.
Ma ci sono posti in cui i gay sono perseguitati, condannati a morte e uccisi per il solo fatto di essere gay, allora perché stare ad accusare Israele?
Credo sia il risultato di un evidente razzismo antisemita travestito da “liberalismo”. Non ho altra spiegazione. Non riesco a farmene una ragione. Non lo capisco proprio.
In generale penso che essere pro-palestinese o anti-israeliano sia solo un tentativo di mascherare l’antisemitismo. Ovviamente nessuno vuol esser additato come razzista antisemita, ma preferisce esser considerato liberale, e quindi fingono di esser pro-palestinesi e di essere “giusti”.
Accusare Israele di “pinkwashing” è ancora più assurdo se si pensa che Israele accetta gay palestinesi perseguitati sotto l’Autorità Palestinese e che cercano asilo politico per il loro orientamento sessuale.
Esatto. Riesce a dirmi altra spiegazione se non che è una forma di razzismo antisemita? Gli israeliani fanno così tanto per le loro comunità omosessuali e così tanto per i palestinesi, eppure siamo accusati di violare i diritti umani e siamo accusati di quasi tutto.
I falsi liberali dovrebbero denunciare il trattamento dei gay in Russia, Cina, Uganda e nell’intero mondo islamico, ma preferiscono focalizzarsi ossessivamente su Israele. Non riesco a spiegare questa posizione se non chiamandola una forma di razzismo antisemita.
Per via di certe interpretazioni della Bibbia, spesso si pensa che sia difficile far convivere omosessualità ed Ebraismo. Lei che ne pensa?
Potrebbe far la stessa domanda ai cattolici. Come si può esser cattolici e gay allo stesso tempo? Come può un prete cattolico essere gay (e sappiamo che molti nella Chiesa Cattolica sono gay). L’omosessualità non ha nulla a che vedere con la razza, la religione o con la cultura ed è comune all’intera società. Lo stesso vale per l’Ebraismo.
In più l’ebraismo ha varie correnti; i haredim, conosciuti anche come ultra-ortodossi sono solo una corrente. Tra i haredim ci sono anche i Naturei Karta, che sono ancora più estremisti e sono alleati ai palestinesi nella lotta per la distruzione di Israele perché secondo loro Israele può esistere solo quando verrà il Messia. Ma ci sono anche gli ortodossi, i “conservatives” e i “reform”.
La maggioranza degli israeliani non è osservante. Si sentono fieramente ebrei e si considerano ebrei, ma non osservano le leggi come sono elencate nella Torah. In più, i moderni capiscono che le leggi introdotte 5000 anni fa non sono più applicabili. La schiavitù, vendere la figlia e altri casi sono esempi di una forma di organizzazione sociale che oggi rappresenta un anacronismo. Anche i religiosi considerano quelle norme senza valore nel mondo moderno. Lo stesso vale per quello che è considerato il divieto di omosessualità nella Bibbia. Molte persone, di molte correnti ebraiche, credono che la legge ebraica non sia applicabile e la reinterpretano secondo i principi e i bisogni dei tempi moderni.
Nel suo libro autobiografico “Flying Colors” descrive come ha deciso di far causa a El Al per non aver volute riconoscere i privilegi aziendali a lei e al suo compagno e che pure garantiva alle coppie eterosessuali. Grazie a questo suo caso, la Corte Suprema ha riconosciuto i diritti delle coppie omosessuali, come primo passo verso l’eguaglianza. Il suo nome è associato a una decisione storica della Corte Suprema e a un’impegnata attività in favore dei gay. Rilascia interviste, scrive editoriali. Si sente una figura politica?
Interessante che mi faccia questa domanda. Qualche giorno fa stavo parlando con un amico per tradurre il mio libro in ebraico, cosa di cui non sono sicuro per l’enorme investimento che comporta. Al che mi ha detto: “Sarà un successo, compreranno il tuo libro perché sanno chi sei”. Mi sono molto sorpreso. Mi succede alle volte quando dico il mio nome, cioè 15 anni dopo la fine della causa con la Corte Suprema, che mi chiedano: “Lei è il Jonathan Danilowitz della causa contro la El Al?”; succede ancora. Altre volte invece mi chiedono solo come si scrive il mio cognome e la conversazione prosegue.
In Israele sono abbastanza conosciuto, il che mi lusinga molto. Per esempio mi chiedono di scrivere articoli su questioni gay, quando i redattori lo ritengono opportuno. E questo vuol dire che il mio nome è noto e sono conosciuto per quello che ho fatto. Altre volte leggo articoli in cui intervistano altre persone e mi dico: “Insomma, io avrei potuto dire molto di più, avrebbero dovuto intervistare me al loro posto”. Ma forse sono stato dimenticato.
Io sono roba vecchia, sono come il giornale di ieri, e ci sono nuove persone, più giovani che si stanno facendo avanti. Sono felice di esser ricordato quando succede, ma non piango quando mi rendo conto di non esser più una figura politica. Credo di esser stato una figura politica, ma in larga parte credo di non esserlo più.
David Ehrlich è uno scrittore israeliano, tra i fondatori dell’organizzazione LGBT “Habait Hapatuch” a Gerusalemme. Vive a Gerusalemme con i suoi due figli, dove gestisce il caffè letterario “Tmol Shilshom”.
David Ehrlich ha appena pubblicato con Syracuse University Press la raccolta di racconti “Who Will Die Last—Stories of Life in Israel”.
Come ha avuto figli essendo gay?
Come ha detto sono gay e ho deciso con un’amica, eterosessuale, di avere dei figli nel contesto di quella che è chiamata “co-genitorialità”. Siamo amici di lunga data e viviamo dello stesso quartiere a Gerusalemme. Abbiamo due gemelli di sei anni.
Da un punto di vista legale non abbiamo avuto problemi, come quando una donna ha figli con un uomo con cui non è sposata. Io sono il loro padre biologico e lei è la loro madre biologica: allo Stato non interessa se siamo sposati.
Ma avete dovuto affrontare delle procedure mediche.
Sì, certo. Abbiamo fatto la “fecondazione in vitro”; è una procedura medica che si può fare in ospedale.
E nessuno vi ha chiesto se siete sposati?
No nessuno. Semplicemente si incomincia la procedura in ospedale. È molto comune qui in Israele, per eterosessuali e omosessuali. E una volta che i figli sono nati era ovvio che io ero il loro padre biologico, quindi non c’è stata alcuna pratica legale o giudiziale da affrontare.
Come mai è così comune?
Molte coppie in Israele fanno la fecondazione in vitro e lo Stato dà anche un aiuto sostanziale. È lo Stato che finanzia la fecondazione, negli ospedali o altre cliniche.
Oggi molte coppie hanno difficoltà ad avere figli, per molte ragioni. Anzitutto si decide di avere figli a una più tarda età, quando il corpo risponde meno alle esigenze della maternità. Ci sono poi studi che dimostrano come i cambiamenti climatici, le sostanze chimiche contenute nel cibo e così anche il nostro stile di vita influenzino il normale processo biologico. Quindi è normale rivolgersi a un sostegno medico per avere figli.
Ha detto che in Israele lo Stato finanzia la fecondazione in vitro. I finanziamenti sono dati a chiunque decida di sottoporsi alla procedura?
Sì, Israele concede finanziamenti a qualsiasi persona o coppia richieda la fecondazione. Ed è uno dei pochi Stati a farlo.
Basti pensare che una coppia americana che non può avere figli e che voglia sottoporsi alla fecondazione in vitro deve pagare decine di migliaia di dollari di tasca propria perché negli Stati Uniti non ci sono finanziamenti pubblici. Nel caso in cui la prima procedura non vada a buon fine, e le stesse persone vogliano provare nuovamente, devono comunque affrontare da soli le spese, che sono molto alte.
In Israele, è diverso. Lo Stato vuole che la gente faccia figli e quindi copre le spese per la fecondazione a tutti, ebrei e arabi.
È un argomento interessante che tocca anche questioni etiche. Me ne sono occupato quando ero giornalista per il quotidiano “Haaretz”. Per esempio cosa potrebbe succedere se si decidesse di influenzare le procedure di fecondazione per avere più figli maschi e meno figlie femmine? Gli scienziati in Israele hanno sviluppato tecniche molto moderne per la fecondazione, sia perché Israele è uno Stato moderno sia perché è una questione d’interesse pubblico.
Come mai gli omosessuali in Israele desiderano così profondamente avere figli?
La società israeliana è fortemente orientata verso la famiglia. Tutti in Israele vogliono figli, compresi i gay. La famiglia è considerata tra i valori più importanti nella società israeliana e quindi altre questioni passano in secondo piano.
In passato una donna non sposata che volesse avere figli incontrava molti ostacoli. Oggi invece molte donne sole riescono ad avere figli con la fecondazione o con l’adozione, e la società in generale le sostiene.
Allo stesso modo i gay e le lesbiche che vogliono aver figli sono accettati e sostenuti dalla società. Credo anzi che nel momento in cui tu abbia figli è ancora più facile esser accettato perché tutti sono felici per te. La società israeliana considera l’avere figli una ragione di gioia collettiva, indipendentemente dall’orientamento sessuale dei genitori.
Se sei gay non è davvero un problema. Per esempio, all’asilo che frequentano i miei figli ci sono due bambini che hanno due papà e non ricordo nemmeno una volta che qualcuno abbia detto o sentito qualche commento in proposito. Non è proprio un problema: due uomini con due bambini, molto semplicemente.
Tuttavia molti si oppongono alla genitorialità omosessuale sostenendo che i bambini ne possono soffrire. Cosa pensa in proposito?
Sono stati fatti molti studi in proposito, soprattutto negli Stati Uniti. Secondo queste ricerche i genitori omosessuali sono più impegnati e investono di più nella genitorialità.
Per i gay esser genitori non è una cosa automatica e devono affrontare vari ostacoli per avere figli. Quando riescono a costituire una famiglia, sono pronti a fare di tutto per essere buoni genitori. Per gli eterosessuali è una cosa ovvia sposarsi e avere figli, mentre i gay è un processo che richiede pianificazione e preparazione.
Nel mio caso, per esempio, ho avuto i miei figli quando avevo 48 anni ed è stato un momento che ho atteso a lungo e che mi ha non solo colmato di gioia, ma che ho vissuto anche con passione e devozione.
Immagino non sia sempre stato così in Israele.
È un processo di cambiamento sociale che la comunità omosessuale in Israele sta attraversando. Considerando la questione in prospettiva, posso dire che quando ho ammesso di essere gay, 30 anni fa, c’erano poche coppie gay con figli. Era molto raro.
Oggi è diverso. L’omosessualità è ampiamente accettata in Israele, quindi più gay, lesbiche e transessuali hanno figli. Avere una famiglia fa parte di una vita normale, che anche gli omosessuali desiderano. Se tutti possono avere figli, perché io non posso averne solo perché sono omosessuale?
Gay e lesbiche in Israele hanno molti figli, ed è un cambiamento straordinario.
In molti criticano gli omosessuali che hanno figli sostenendo che tentano di imitare gli eterosessuali, adottandone norme sociali e di comportamento. Cosa ne pensa?
Personalmente non credo sia un’opinione diffusa qui in Israele. Al contrario, è un’opinione marginale propria di certi gruppi religiosi, in prevalenza ortodossi. Non credo che questo tipo di critica sia diffusa nel dibattito generale. Non si sentono di queste voci né sui giornali né nelle conversazioni su politica o sulla società.
Senza dubbio ci sono dei conservatori che non approvano e sono contrari che i gay abbiano figli. Ma è un’opinione minoritaria in Israele. I gruppi ortodossi sono fermamente contrari, ma sono una minoranza. La società in generale accetta questa realtà, anche chi politicamente si identifica con la destra. C’è anche un’associazione LGBT all’interno del Likud, il maggiore partito di destra in Israele.
Quindi lo status dei gay in Israele è ormai consolidato?
Sì. È una battaglia che abbiamo già combattuto, e l’abbiamo vinta molto tempo fa. Non si sentono voci contrarie agli omosessuali per il loro orientamento sessuale e non si parla più se riconoscere o no i diritti dei gay. I gay hanno diritti in Israele. Siamo già un passo avanti.
E cosa dice sulla fuga da Gerusalemme? Gerusalemme è considerata una città molto religiosa e conservatrice per la sua ampia popolazione ortodossa; tanto che molti laici preferiscono stabilirsi a Tel-Aviv o in altre città. È un problema per i gay vivere a Gerusalemme?
Gerusalemme è diventata negli anni sempre più religiosa con un numero sempre maggiore di abitanti ortodossi e questo ha ripercussioni sulla vita della città. Tuttavia non sento particolari difficoltà perché gay, quanto invece vivo dei limiti come laico–molti ristoranti sono chiusi di Shabbat, per esempio.
Ci sono però ragioni molto più importanti per vivere qui. Io sono originario di vicino a Tel-Aviv e mi sono stabilito a Gerusalemme 30 anni fa. Amo Gerusalemme: è una città interessante, piena di fascino, una città unica. Credo che solo qui si possa vivere la vera Israele, nella sua immensa complessità e varietà di etnie, religioni e culture, così come con le sue tensioni e le sue difficoltà. Sono nato in questo Paese e quindi preferisco vivere nel mezzo di questa complessa diversità, che è l’essenza di Israele.
Si può vivere a Tel-Aviv nell’illusione che il mondo sia fatto di laici e liberali, ma non è vero, è quasi irreale. È solo una bolla, come chiamano Tel-Aviv, del resto. Mi sentirei perso nella bolla, e per questo preferisco vivere in un posto dove le cose succedono, anche se può non esser sempre facile.
E le famiglie gay a Gerusalemme come vivono?
Una coppia gay con figli a Gerusalemme non è così comune come a Tel-Aviv e in un certo modo da più nell’occhio che non nel mio caso: io esco coi miei figli e con la loro madre, quindi possiamo passare per una coppia eterosessuale.
Credo che sia importante che a Gerusalemme ci sia una presenza gay, per poter contribuire alla vita sociale e al cambiamento. Quando è stata fondata a Gerusalemme l’associazione LGBT “Habait Hapatuah” ho sentito che stavo dando il mio apporto alla vita della comunità gay e stavo anche contribuendo al cambiamento sociale con un semplice atto: far sapere a tutti che sono gay. I miei vicini lo sapevano, così come i miei amici e i miei colleghi, e questo ha certamente aiutato a sfatare certi miti o pregiudizi.
Ha descritto Israele come un Paese molto liberale, dove i gay vivono liberamente e apertamente. Come spiega allora che così tante organizzazioni gay siano contro Israele?
Se sei gay e sei politicamente attivo, è normale che tu combatta per un mondo più giusto. I palestinesi sono sempre considerati come la parte oppressa e Israele come l’oppressore. Ma la realtà è molto più complessa. Mi fa male, ovviamente.
Per come la vedo io, il conflitto ha conseguenze su tutti noi, ebrei e arabi, in ogni sfera: sociale, economica e personale. Nella mia vita ho visto 10 guerre e ho dovuto combattere in alcune di queste come soldato e come ufficiale. Viviamo in una regione travagliata e siamo circondati da conflitti. Ciò che più mi fa star male è che non si vede alcuna soluzione.
Perché Israele? Perché proprio Israele è così aperta sulla questione dei gay?
Buona domanda. Israele è un Paese molto moderno. Siamo stati uno dei primi Paesi al mondo ad avere i bancomat, per esempio. Israele investe molto nel progresso scientifico e tecnologico. Siamo un Paese giovane con molte ambizioni, anche sociali.
Purtroppo Israele è conosciuta solo per il conflitto coi Palestinesi, per cui non abbiamo ancora trovato una soluzione, e che rappresenta anche una dei nostri maggiori insuccessi. Ma in altri aspetti sociali Israele è un Paese molto avanzato.
Credo anche che l’influenza culturale degli Stati Uniti abbia contribuito, in particolare il movimento di liberazione gay in America. Quando ero giovane, vedevo, sentivo e leggevo delle lotte di liberazione gay negli Stati Uniti e sentivo la necessità di seguire il loro esempio e fare lo stesso qui. Ci sono persone che l’hanno fatto, come Jonathan Danilowitz.
Ha citato Danilowitz e il riconoscimento delle unioni omosessuali. In Israele è successo quasi vent’anni fa ormai, molto prima degli Stati Uniti che ci sono arrivati solo quest’anno con la decisione della Corte Suprema.
Sì, ma la questione è più complicata. Negli Stati Uniti c’erano quartieri gay, come “The Castro” a San Francisco, molto prima che qui si potesse anche sognare di vedere riconosciuti i diritti dei gay. In America c’erano librerie gay e una cultura gay ben definita molto prima che iniziasse la liberazione gay in Israele.
È vero però che in certi ambiti non abbiamo semplicemente seguito il loro esempio, ma siamo andati oltre. Ad esempio è stato Rabin, quando era Ministro della Difesa, ha decidere che l’omosessualità non rappresentava un problema per il servizio militare. E siamo stati il primo Paese al mondo ad accettare i gay e le lesbiche nell’esercito, mentre negli Stati Uniti la politica è sempre stata “don’t ask, don’t tell”-“non si chiede, non si dice”. E credo che la ragione sia molto semplice: noi non possiamo permetterci il lusso di fare una selezione tra chi può andare all’esercito e chi no. Abbiamo bisogno di cittadini che servano nelle forze armate: uomini, donne, eterosessuali, gay e lesbiche.
Lo vedo anche dalla mia esperienza personale. Ero un ufficiale d’artiglieria nelle Forze di Difesa Israeliane e per molti anni sono stato riservista col grado di maggiore. Negli ultimi anni sapevano tutti che ero gay e non è mai stato un problema.