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Matteo Gerlini - Il dirottamento dell'Achille Lauro e i suoi inattesi e sorprendenti risvolti - 24/01/2017 -

Il dirottamento dell'Achille Lauro e i suoi inattesi e sorprendenti risvolti
Matteo Gerlini
Mondadori

Quelli tra il 7 e il 12 ottobre 1985 furono giorni che turbarono i rapporti tra Italia e Stati Uniti. Lì per lì sembrò che tutto fosse rientrato, che la vicenda del sequestro della nave Achille Lauro da parte di un comman erroristico del Fronte di liberazione della Palestina — resa ancor più tragica dall'assassinio dell'ebreo americano Leon Klinghoffer, ucciso e gettato a mare con la sedia a rotelle —, del tentativo americano di catturare il capo del gruppo Abu Abbas atterrato su un aereo egiziano all'aeroporto militare di Sigonella, dell'opposizione italiana a questo atto di forza, del trasferimento dello stesso Abbas a Ciampino e di Ti, su un aereo di linea, a Belgrado, da dove si sarebbe eclissato, sembrò — dicevamo — che tutta questa complicata storia si fosse ricomposta. Che il clima tra il nostro Paese e gli Stati Uniti fosse tornato amichevole a dispetto anche dell'esplicito disappunto del presidente americano Ronald Reagan nei confronti del capo del governo italiano Bettino Craxi, il quale, per difendere la nostra sovranità nazionale, aveva rifiutato di consegnargli Abu Abbas con i suoi quattro sodali. E che tutto si fosse rasserenato dopo che era rientrata la brevissima crisi aperta dal leader repubblicano Giovanni Spadolini, all'epoca ministro della Difesa. Nei giorni del caos non si conoscevano in dettaglio le modalità dell'assassinio di Klinghoffer. un leader dell'Olp, Faruq al-(ddumi, aveva ad- Destino Il capo dei sequestratori, condannato a Genova in contumacia, venne arrestato in Iraq dopo l'invasione occidentale e morì in cella nel 2004 dirittura avanzato la provocatoria ipotesi che l'anziano paraplegico israelita fosse stato ammazzato dalla moglie Marilyn per poter intascare il premio di assicurazione sulla sua vita. Poi si seppe la verità. Ma nel frattempo Abbas e i suoi si erano volatilizzati. I16 novembre Craxi parlò alla Camera dei deputati, ottenne anche il plauso del Partito comunista italiano, che pure all'epoca aveva con il Psi rapporti incandescenti. Trascorsero alcuni giorni e Reagan — con una lettera cordiale che iniziava con le parole «Dear Bettino» — sembrò aver fatto pace con il nostro governo. Adesso un libro di Matteo Gerlini, Il dirottamento dell'Achille Lauro e i suoi inattesi e sorprendenti risvolti, che sta per essere pubblicato da Mondadori Università, prende in considerazione l'ipotesi che quella frattura abbia avuto una scia lunga e addirittura un riflesso nelle vicende giudiziarie che una decina di anni dopo avrebbero provocato l'uscita di Craxi e di Giulio Andreotti dalla scena politica italiana. Anche se, per l'assenza di riscontri documentali, l'autore non dà eccessivo credito a questa ipotesi e la riconduce ad una semplice «vulgata». Merito del libro di Gerlini — a differenza degli altri che si sono occupati di questo caso — è quello di non aver puntato i riflettori pressoché esclusivamente sul ruolo svolto da Bettino Craxi in quei giorni dell'ottobre 1985. Il faro illumina anche altre figure. Quella dell'allora ministro degli Esteri, ad esempio. Dapprincipio Andreotti ebbe un incidente con l'ambasciatore americano a Roma Maxwell Rabb, che gli rimproverava di non aver avvertito gli Stati Uniti della partenza di Abu Abbas. Andreotti spiegò che non aveva dato quell'informazione perché l'ambasciatore egiziano era «spaventato della possibilità che l'aereo su cui viaggiavano i palestinesi fosse attaccato e abbattuto». Rabb disse che quell'accusa era «scioccante». A quel punto Andreotti emendò la sua dichiarazione dicendo che, secondo il diplomatico del Cairo, l'aereo avrebbe potuto essere «costretto ad atterrare». Ma, scrive Gerlini, «la correzione di Andreotti — riportata unicamente nel documento statunitense — ovviamente non cambiava il significato di una simile affermazione, perché la sola menzione del timore dell'abbattimento aveva sortito il suo effetto sull'interlocutore». E non finì lì. Da un successivo resoconto emerge un contrasto fortissimo nel corso di un incontro a Bruxelles tra Andreotti e il segretario di Stato americano George Schultz dopo che l'ambasciatore statunitense Rabb aveva sostenuto la tesi di un cedimento italiano ad Abu Abbas. Il nostro ministro — si legge nella nota — «ha risposto che questa insinuazione gli sembrava offensiva» e che l'Italia avrebbe processato i terroristi «secondo le proprie leggi». Anche Abu Abbas, ove le prove addotte dovessero risultare sufficienti, sarebbe stato «incriminato e, se possibile, processato al pari di qualsiasi cittadino italiano». L'Italia, ribadiva il nostro ministro degli Esteri, «ha condotto, con risultati che tutti conoscono, la lotta al terrorismo senza violare le proprie leggi... Non possiamo accettare le affermazioni dell'ambasciatore Rabb che sembrano mettere in dubbio la nostra determinazione di combattere il terrorismo ed altre insinuazioni simili, da ovunque vengano». Dopodiché Andreotti aveva consegnato a Schultz due note distinte — una sugli avvenimenti di Sigonella, l'altra sul volo di Abbas da Sigonella a Roma — dicendo che considerava «opportuno» farle leggere al presidente degli Stati Uniti, specificando che da questa lettura qui in Italia «non ci si attendeva una risposta». Successivamente, fa notare Gerlini, dopo una riunione del consiglio atlantico, Andreotti e Schultz «ripresero la conversazione con toni diversi». Andreotti, però, chiese espressamente che da parte di Reagan non venisse «sottovalutata» la posizione italiana, precisò che in merito a Sigonella giudicava «grave» l'atteggiamento degli Usa e che solo «il suo senso di responsabilità e quarant'anni di esperienza politica» lo inducevano a «non alimentare la polemica su questo aspetto». Tanto più che, se la polemica fosse divampata, sarebbe stata «enormemente complicata la posizione del governo italiano rispetto al dislocamento degli euromissili». Schultz colse al volo il senso della neanche tanto velata minaccia, si disse «colpito» da come Andreotti gli aveva spiegato «il ruolo di negoziatore di Abu Abbas» e propose al ministro democristiano di attenersi, nelle comunicazioni ufficiali, a un «linguaggio comune». Così fu. Ma poche ore dopo Schultz inviò, dall'aereo che lo stava riportando dall'Europa agli Stati Uniti, un asciutto messaggio all'ambasciatore italiano a Washington Rinaldo Petrignani, nel quale dichiarava di «non ritenere appropriato» il comunicato congiunto che Italia e Stati Uniti avrebbero dovuto emettere sull'intera vicenda. Per Schultz «dopo lo scambio di vedute con Andreotti, il disaccordo permaneva». Andreotti, adirato, reagì parlando di un «voltafaccia». Anche se in pubblico minimizzò e, pur ritenendolo verosimile, a qualche giornalista che insinuava essere la posizione spadoliniana «dettata da Washington» rispose che considerava questa ipotesi «uno scherzo». Dopodiché, però, telefonò privatamente a Vernon Walters (ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite) e gli disse che se la dichiarazione del segretario di Stato non fosse stata rettificata, la delegazione italiana avrebbe disertato il vertice di New York del 24 ottobre. Nelle stesse ore, Giuliano Amato (sottosegretario alla presidenza del Consiglio) chiamò Petrignani, per esprimergli, da parte di Craxi, concetti simili. Quel vertice era importantissimo in quanto avrebbe dovuto preparare il summit davvero fondamentale, 1119 e il 2o novembre a Ginevra, tra Reagan e Gorbaciov. Doveva essere il primo vertice russo-americano dopo sei anni di gelo e il presidente degli Stati Uniti intendeva presentarsi dopo aver concordato con tutti i capi di governo del G7 ogni singolo dettaglio in materia di rapporti Est-Ovest. Già la Francia di François Mitterrand minacciava di disertarlo, talché, se si fosse aggiunta anche l'Italia, quell'importantissima iniziativa si sarebbe risolta in un fiasco. Per questo Reagan finse di accettare la versione italiana dell'accaduto. Ma in realtà sia lui che l'amministrazione se la legarono al dito. Particolare fu il ruolo che in questa vicenda svolse il «ministro degli Esteri» del Pci Giorgio Napolitano (il segretario del partito, Alessandro Natta, era in Cina per una visita ufficiale). A questa parte del «caso Lauro», Gerlini, dedica alcune pagine assai dense intitolate «L'intervento dei comunisti per salvare Craxi». L'appoggio comunista, scrive Gerlini, «fu determinante nel permettere a Craxi di sparigliare le carte». Pur «senza prefigurare alternative» politiche, il Pci con Napolitano si inserì nel momento in cui si fecero più aspri i rapporti tra i repubblicani, sostenitori delle posizioni statunitensi, e Craxi. Napolitano ammise con i suoi compagni della direzione del Pci che la risposta di Craxi a Rea-gan era stata «furbesca» e «di carattere dilatorio». Ma poi si occupò prevalentemente di Spadolini, le cui argomentazioni, disse, «devono preoccupare». Quali argomentazioni? Napolitano era infastidito che il leader repubblicano, «nel cavalcare l'ira americana contro Craxi e Andreottv , avesse cercato di «mettere in imbarazzo» democristiani e comunisti su un argomento delicato quale era quello della lotta al terrorismo. Come? Insinuando che la linea della fermezza tenuta dai due partiti ai tempi del caso Moro (1978) veniva adesso «annacquata» nella vicenda dell'Achille Lauro. Virginio Rognoni, all'epoca capogruppo democristiano alla Camera, avrebbe riservatamente rassicurato Napolitano che la De non chiedeva in quel momento un dibattito parlamentare, dal momento che tale discussione non avrebbe portato ad altro che «ad un inasprimento delle posizioni, rendendo più ardua la soluzione della crisi». Ma questo a Napolitano non era sufficiente. «Occorre, in primo luogo, respingere la tentata equiparazione del terrorismo interno all'Italia, che abbiamo decisamente e unitariamente combattuto, con il terrorismo internazionale che ha natura e fini diversi e al quale Reagan riduce anche ogni movimento di liberazione nazionale». Ci sono, aggiunse, «atti di terrorismo non sorretti da condizionamenti politici ma da un impazzi-mento nella situazione mediorientale che dobbiamo valutare attentamente». Volle poi precisare che «noi abbiamo combattuto il terrorismo interno nel pieno rispetto della legalità e che oggi non possiamo accettare che il terrorismo internazionale sia combattuto come è combattuto: violando la legalità, violando il diritto internazionale». È difficile, commenta Gerlini, «non notare la consonanza fra Andreotti e Napolitano su questa seconda argomentazione». Un altro dirigente comunista, Gerardo Chiaromonte, riferì alla direzione del partito di essersi consultato con il presidente della Repubblica Francesco Cossiga per esortarlo, nell'eventualità di dimissioni dei ministri repubblicani, a mandare Craxi in Parlamento. Il capo dello Stato gli rispose di no, e gli disse che nel caso avrebbe aperto immediatamente una crisi di governo: «Craxi non avrebbe dovuto attendere un solo minuto per dimettersi, per cui non sarebbe andato davanti alle Camere». Chiaromonte obiettò che «trattandosi di problemi che investono l'autonomia e l'indipendenza nazionale», la Camera aveva « il dovere di pronunciarsi». Ma lui gli rispose che, se ci fossero state «oscillazioni nelle posizioni di Craxi e Andreotti», sarebbero nati «malumori nel comando dei carabinieri e nello stato maggiore dell'esercito e dell'aviazione, i quali hanno agito con grande lealtà verso l'esecutivo e verso la presidenza del Consiglio, sino ai limiti di uno scontro con i militari americani». Dopo un breve dibattito, Napolitano concluse, in direzione, dicendo che l'ordine del giorno preparato dal Pci a sostegno dell'operato del governo non avrebbe dovuto essere presentato perché «(taxi li pregava di fermarsi per non dare argomenti alla Dc e a Cossi-ga contrari al dibattito alla Camera». Poi Craxi Vittima Leon Klinghoffer (1916-1985) era un cittadino americano di religione ebraica, costretto sulla sedia a rotelle per via di un ictus, che si trovava sulla nave da cambiò idea e il 17 ottobre, cogliendo l'occasione di un'interpellanza di alcuni deputati comunisti, tra i quali Napolitano, poté esporre alla Camera la sua versione dei fatti. Dopodiché i comunisti ebbero, secondo Giuliano Amato, «trentasei ore di speranza» nel corso delle quali immaginarono che Craxi potesse essere costretto a chiamarli in aiuto. Ma trascorso quel giorno e mezzo, la crisi si risolse in altro modo. Amato a quel punto astutamente provò a convincere l'ambasciatore Rabb che avrebbe dovuto fidarsi ancora di Craxi «filo occidentale e filo europeo», mentre Andreotti aveva «punti in comune con il Pci», partito che, pur non potendo più essere considerato filosovietico «sicuramente ricercava una relazione con i russi analoga a quella finlandese». A proposito del rappresentante diplomatico statunitense, Nilde Iotti lamentava nelle riunioni della direzione comunista «questa continua presenza dell'ambasciatore americano Rabb alle spalle dei nostri governanti». Secondo Natta (tornato precipitosamente da Pechino), in un colloquio riservato Craxi avrebbe definito Rabb «sordo ebreo e ignorante dell'italiano». Altri problemi nacquero ulteriormente nel rapporto tra Stati Uniti e presidente del Consiglio italiano. Craxi disse a Reagan che «Abu Abbas non aveva mai lasciato l'aereo egiziano, protetto dalla scorta e sotto immunità diplomatica». «Cosa ovviamente falsa», sostiene Gerlini, «visto che dal Boeing era sceso a Fiumicino per salire sull'aereo jugoslavo». Ma «Reagan, politico consumato, non replicò». Fece finta di non accorgersi della discrepanza. Nei giorni successivi Craxi ebbe un incontro a porte chiuse con Shlmon Peres, anche questo non privo di tensione. E Abu Abbas? L'Italia lo processò e condannò in contumacia. Gli americani lo trovarono in Iraq dopo l'invasione nell'aprile del 2003 (prima era stato in Libia, adesso stava provando a fuggire da Bagdad a Damasco). La magistratura italiana ne chiese immediatamente l'estradizione che rimase pendente fino a che, il 9 marzo del 2004, il Pentagono annunciò che il capo del Flp era stato trovato morto in cella. Morto, dissero le autorità Usa, «per cause naturali».

Paolo Mieli - Corriere della Sera

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