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Imre Kértesz - Dossier K - 01/04/2016 -

Dossier K
Imre Kértesz
Traduzione di Marinella D’Alessandro
Feltrinelli 16,00

“Per una scrittura che sostiene la fragile esperienza dell’individuo contro la barbarica arbitrarietà della storia” lo scrittore Imre Kertész nel 2002 ha ricevuto il Premio Nobel per la letteratura. Nato in una famiglia di origine ebraica a Budapest, deportato ad Auschwitz nel 1944 e liberato a Buchenwald nel 1945, unico sopravvissuto della sua famiglia Kertész si impone in campo letterario con Essere senza destino, il suo primo e più famoso romanzo. Il libro, la cui stesura ha richiesto dieci anni, descrive l’esperienza di un ragazzo ungherese di quindici anni nei campi di sterminio nazisti di Auschwitz, Buchenwald e Zeitz, basandosi sull’esperienza diretta dell’autore. Tornato in Ungheria nel 1948 comincia a lavorare come giornalista per un quotidiano di Budapest, Vilàgossàg, nel 1951 quando il giornale diventa organo del partito comunista Kertész è licenziato e per mantenersi comincia a scrivere romanzi e a tradurre le opere di Freud, Canetti e Wittgenstein.

E’ solo negli anni Novanta dopo la pubblicazione di “Fiasco” e “Kaddish per il bambino non nato” e alla caduta del Muro di Berlino che Imre Kertész viene riconosciuto come scrittore di fama sia in patria che all’estero. Dossier K apparso nel 2006 in Germania e ora pubblicato da Feltrinelli è un romanzo autobiografico strutturato in forma di dialogo, “…l’unico tra i miei libri che io abbia scritto in virtù di uno stimolo proveniente dall’esterno più che per una motivazione interna: un’autobiografia con tutte le carte in regola”. Con lo scopo di rettificare le inesattezze pubblicate sul suo conto (“…sono state pubblicate biografie in cui non c’era nulla di vero”) Kertész, dopo aver ascoltato la registrazione dell’intervista che nel corso degli anni 2003 e 2004 aveva rilasciato all’amico e redattore Zoltàn Hafner, ha concepito l’idea di mettere mano ad una autobiografia in forma di dialogo nella quale intervistava se stesso. Dal susseguirsi di domande, alcune scomode e complesse, si snoda il racconto che ripercorre le tappe della sua esistenza: l’infanzia, il lager, il ritorno in Ungheria, il fascino della scrittura, il conferimento del Premio Nobel per la letteratura e la lunga malattia.

La presa di coscienza della sua identità ebraica la deve all’Olocausto, un’esperienza sconvolgente che lo ha cambiato nel profondo ma che gli ha fatto acquisire il senso di solidarietà nei confronti del giudaismo. Partendo dalla citazione tratta da “Fiasco” in cui Kertész rievoca il cortile della caserma della gendarmeria ungherese nel quale si trovava prima della sua deportazione ad Auschwitz, l’autore descrive con lucidità il suo difficile rapporto con i genitori, il dramma del loro divorzio e le conseguenze che ne sono derivate per la sua vita di adolescente. In particolare la madre (“…che non provava il minimo interesse per la questione ebraica, che si godeva la vita e non si lasciava disturbare più di tanto da qualche antisemita”) è un personaggio controverso che non suscita alcuna simpatia: sopravvissuta all’Olocausto nascosta nel ghetto di Budapest, dopo la guerra si risposa e lascia che il figlio conduca una vita di stenti lavorando come giornalista. Con grande sapienza narrativa Kertész si sofferma sul clima antisemita che permeava l’Ungheria della sua adolescenza, descrive la dittatura nazista e il regime di Stalin che hanno forgiato la sua esistenza, arrivando a fare i conti con se stesso, con l’adesione al partito comunista ungherese e con il successivo allontanamento dalla politica. Non mancano nel libro alcuni riferimenti personali ai due matrimoni, il primo sfortunato mentre il secondo, con la moglie Magda, felicemente riuscito e un richiamo alle letture di autori stranieri come Paul Valéry o Thomas Mann il cui romanzo Morte a Venezia ha lasciato nella sua anima una traccia indelebile.

Permeato da un sottile filo di ironia "Dossier K", che può essere considerato a pieno titolo il suo testamento letterario, si chiude con una riflessione dell’autore sulla scrittura che per lui ha rappresentato “la gioia più grande qui, su questa terra…” Si leggono di rado libri così sinceri e profondi che si impongono per la loro ricchezza e che inducono il lettore a disporsi in un atteggiamento di rispetto e meditazione.

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Giorgia Greco

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