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La storia dei Vogelmann, la storia della Giuntina
di Giulio Meotti
Il padre si chiamava Schulim, che è la pronuncia ashkenazita, galiziana, dell’ebraico shalom, pace. Era nato nella cittadina di Przemyslany, nel lontano 1903, Galizia orientale, vicino a Leopoli, o Lemberg, o Lvov. Era ancora parte dell’impero austro-ungarico allora, come Trieste, ma poi sarebbe diventata polacca, sovietica, infine ucraìna. Ma prima di diventare sovietica, il 23 maggio 1943, era stata dichiarata judenrein: i suoi seimila ebrei erano stati sterminati dai tedeschi. La famiglia di Schulim aveva lasciato la Galizia, magica culla e triste tomba dell’Ostjudentum, già all’inizio della prima guerra mondiale, aveva scelto Vienna, la capitale dell’impero, dove hanno visto la nascita il positivismo legale, l’architettura moderna, la musica dodecafonica, la psicoanalisi, insomma, una delle più gloriose capitali della cultura europea, per alcuni l’alba della modernità.

Schulim scelse la strada del sionismo: dei suoi tre anni in terra d’Israele Daniel Vogelmann sa molto poco, tranne che per un certo periodo servì come caporale nell’esercito britannico. Nel frattempo, un altro ebreo polacco, il rabbino capo di Firenze Shemuel Zvi Margulies, incontrò il fratello di Schulim a un congresso sionista in Svizzera e lo invitò a Firenze per insegnare Talmud al Collegio Rabbinico. Era naturale che anche il padre di Daniel, stanco di un’esperienza, quella in Eretz Israel, che stentava a decollare, approdasse poco tempo dopo a Firenze. Il problema, per Schulim, era tuttavia quello di trovare un lavoro che gli permettesse di osservare il Sabato, cosa tutt’altro che facile a quei tempi. Qui entra in scena il terzo ebreo polacco di questa storia esemplare, il celebre libraio antiquario ed editore Leo Samuel Olschki, proprietario della Tipografia Giuntina, che ha sede nella centralissima Via Ricasoli, a Firenze. Una giuntina è una delle tante pregevoli edizioni dei famosi tipografi-editori Giunta (o Giunti), attivi a Firenze, Venezia e Lione, fra i secoli XV e XVII.

Olschki lo assunse come compositore a mano e poi, nel 1928, lo nominò direttore della tipografia. Dopo qualche anno Schulim sposò Anna Disegni, figlia del rabbino di Torino, e nel 1935 la coppia festeggiò la nascita di Sissel, che in yiddish vuol dire dolce. Ma non era il tempo della gioia, né tantomeno della speranza, Auschwitz incombeva sulle sorti degli ebrei europei, la moglie e la piccola Sissel non tornarono mai più in Italia. Il padre di Daniel sì, decise di dedicare anima e corpo alla Tipografia Giuntina, per sfuggire al dolore, per non pensare al vuoto. Ne divenne proprietario, trovò la forza di risposarsi con Albana Mondolfi, vedova di Raffaello Passigli e madre di un bambino di otto anni, Guidobaldo. Si erano salvati nascondendosi in un convento. Nel 1948, annus mirabilis per gli ebrei di tutto il mondo, l’anno del “frutto della notte di Auschwitz” come Andrè Neher chiamava lo Stato di Israele, nacque Daniel Vogelmann.

Daniel, all’inizio del 1980, aveva idee ancora molto vaghe sulla possibilità di diventare un editore: un giorno entrò in una libreria di Firenze e in uno scaffale di occasioni mise le mani su La notte, di Elie Wiesel, anzi La nuit, visto che si trattava dell’originale francese (del 1958). Andò subito a casa e si mise a tradurlo, aiutandosi con il dizionario perché non aveva mai studiato il francese. Dopo poche pagine, gli sembrò di trovarsi di fronte a un capolavoro, a una delle più strazianti testimonianze sull’inferno dei campi di sterminio (nelle pagine di Wiesel si materializza davvero l’idea che Auschwitz fosse l’anus mundi). Come ha scritto François Mauriac nella bella prefazione al libro, si tratta della storia di “un eletto di Dio. Non viveva dal risveglio della sua coscienza che per Dio, nutrito di Talmud, desideroso di essere iniziato alla Cabbalà, consacrato all’Eterno. Abbiamo mai pensato – continua Mauriac – a questa conseguenza di un orrore meno visibile, meno impressionante di altri abomini, ma tuttavia la peggiore di tutte per noi che possediamo la fede: la morte di Dio in quell’anima di bambino che scopre tutto a un tratto il male assoluto?”. Così pensò tra sé e sè: “questo potrebbe essere il primo libro dell’Editrice La Giuntina, il primo libro della collana ‘Schulim Vogelmann’”, collana che ancora oggi porta il nome del padre. E così fu. E così, libro dopo libro (da Wiesel a Yehoshua, dalla Lasker-Schüler alla triestina Misan, passando per il bellissimo La rosa dei tredici petali, di Adin Steinsaltz), il catalogo è giunto a quota 250 titoli.

Daniel Vogelmann pensa che il suo sia “un ebraismo piuttosto negativo, malinconico, legato com’è alla Shoà e all’antisemitismo, anche se negli ultimi anni, soprattutto come editore, cerco di dedicarmi di più al “semitismo”, ricordando a tutti ma soprattutto a me stesso che l’ebreo è fatto per la gioia e la gioia è fatta per l’ebreo (anche se i due non sempre si incontrano)”. Certo, le difficoltà ci sono, eccome: “all’inizio riuscivo a trovare e a pubblicare soltanto due o tre libri all’anno, e per risparmiare li traducevo da me. Oggi, invece, essendo piuttosto conosciuto, ricevo molte proposte, soprattutto da editori stranieri, e con l’aiuto di mia moglie, che oltre a tradurre dal francese è un ottimo editor, e di alcuni valenti traduttori pubblico circa venti nuovi libri all’anno, anche se non so per quanto tempo potrò continuare a questi ritmi. Anche perché, pur potendo contare su un piccolo pubblico di fedelissimi, le vendite continuano a essere piuttosto modeste, come è facilmente intuibile. A parte due o tre libri che posso definire i miei best-seller, fra cui proprio La notte, il mio primo libro, che mi ha accompagnato fedelmente per tutti questi anni”.

Wiesel, presente nel catalogo della Giuntina con altre celebri opere, tra cui lo straordinario Processo di Shamgorod, è di sicuro la gemma più preziosa di Daniel Vogelmann (60 mila copie vendute de La Notte, una media di 3-4000 all’anno), che si dice “orgoglioso di aver pubblicato altre importanti testimonianze, anche dal punto di vista letterario, di reduci dai lager: Il fumo di Birkenau di Liana Millu, C’è un punto della terra di Giuliana Tedeschi, Anni d’infanzia di Jona Oberski, L’ombra dell’Olocausto di Benjamin Bender, Mauthausen, bivacco della morte di Bruno Vasari, Un tallèt ad Auschwitz di Teo Ducci, oltre a numerose raccolte di interviste e di saggi sempre sull’universo concentrazionario”. “Ora non mi resta che sperare di poter continuare così per tanti anni ancora e di passare un giorno il testimone a mio figlio Shulim, che adesso sta finendo l’università a Gerusalemme”.

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