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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
17.10.2017 Kurdi abbandonati: America assente, truppe irachene (filo-iraniane) a Kirkuk
Cronaca di Giordano Stabile, commento di Alberto Flores d'Arcais

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Giordano Stabile - Alberto Flores d'Arcais
Titolo: «Le truppe irachene a Kirkuk. I curdi cedono basi e petrolio - L’imbarazzo del Pentagono alleato di tutti e due i fronti»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 17/10/2017, a pag. 15, con il titolo "Le truppe irachene a Kirkuk. I curdi cedono basi e petrolio", la cronaca di Giordano Stabile; dalla REPUBBLICA, a pag. 4, con il titolo "L’imbarazzo del Pentagono alleato di tutti e due i fronti", il commento di Alberto Flores d'Arcais.

Il Fatto Quotidiano, a pag. 14, titola: "Iraq, l'esercito fa sloggiare i curdi". Per il Fatto, dunque, persecuzioni e uccisioni in serie sono riassumibili con il termine "sloggiare". L'ennesimo esempio di disinformazione sul quotidiano vicino ai grillini.

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Giordano Stabile: "Le truppe irachene a Kirkuk. I curdi cedono basi e petrolio"

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Giordano Stabile

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Carri armati iracheni a Kirkuk, città a maggioranza curda che i peshmerga hanno liberato dall'Isis

La foto del capitano delle forze irachene che si fa un selfie seduto alla scrivania del governatore di Kirkuk dice tutto sulla battaglia di ieri. Una disfatta per i Peshmerga curdi che si erano conquistati l’ammirazione del mondo nella lotta contro l’Isis. Sconfitti, senza quasi combattere, dagli stessi uomini che avevano lottato assieme a loro contro gli islamisti a Mosul. Il governatore di Kirkuk, Najm Eddine, si era schierato con il presidente curdo Massoud Barzani dopo il referendum del 25 settembre. Due giorni fa, mentre le forze fedeli al premier iracheno Haider al-Abadi si ammassavano ai confini, aveva avvertito i soldati iracheni: «Combatteremo fino all’ultimo uomo». È fuggito ieri, dopo poche ore, assieme a migliaia di combattenti e a decine di migliaia di civili.

Alle quattro, prima dell’alba, il meglio delle forze a disposizione di Baghdad ha cominciato ad avanzare. Unità del Controterrorismo, della Emergency Response Division, della Nona divisione corazzata. E poi le milizie sciite, comprese le filo iraniane Al-Badr e Kataib Imam Ali. Gli scontri sono durati pochissimo. Quattro Humvee iracheni, i blindati di fabbricazione americana, sono stati colpiti. I Peshmerga hanno perso una ventina di uomini. «Almeno dieci», però, sarebbero stato decapitati dai miliziani sciiti, secondo la tv curda Rudaw. Le colonne irachene hanno avvolto la città in una tenaglia a una velocità impressionante.

A fine mattinata l’esercito di Baghdad si era ripreso la base militare K1, l’aeroporto, e soprattutto il giacimento petrolifero di Baba Gurgur: il tesoro di Kirkuk e il vero motivo della contesa. I pozzi, scoperti negli Anni Venti, producono ancora 600 mila barili al giorno, tre quarti del greggio del Kurdistan. Senza Baba Gurgur le casse curde saranno presto vuote ma la reazione da parte del governo di Barzani è stata confusa. Prima ha parlato di «riposizionamento» dei Peshmerga. Poi ha accusato Al-Abadi, le milizie sciite, l’Iran, per il colpo di mano, «una dichiarazione di guerra al Kurdistan», promesso che i responsabili avrebbero «pagato un prezzo molto alto». Anche i dirigenti del partito Puk, rivali di Barzani, «complici del tradimento nei confronti del popolo curdo».

Perché questo appariva sempre più chiaro mentre gli iracheni avanzavano in città: i Peshmerga fedeli al Puk, forte soprattutto nella parte orientale del Kurdistan, si erano messi d’accordo con Al-Abadi, avevano disertato i check point e lasciato avanzare l’esercito iracheno. Nel primo pomeriggio anche il centro e il palazzo del governatore era espugnato, la bandiera con il sole curdo abbassata ovunque e sostituita con quella irachena, che porta ben visibile, in verde sul bianco, la scritta «Allah è il più grande». Fonti dal Kdp, il partito del presidente Barzani, indicano in Pavel Talabani, figlio del leader del Puk ed ex presidente iracheno Jalal Talabani, morto due settimane fa, l’artefice del «tradimento».

Anche i comunicati da Baghdad confermavano la mossa. Al-Abadi invitava i Peshmerga a mettersi agli ordini dei federali, auspicava una «pacifica amministrazione congiunta delle aree contese». Cioè assieme al Puk, più vicino alle posizioni degli sciiti, anche per la vicinanza all’Iran della sua roccaforte, la città di Suleymaniya. Proprio a Suleymanya è arrivato domenica il generale dei Pasdaran Qassem Suleimani. È andato prima di tutto a pregare sulla tomba di Talabani, poi ha incontrato i nuovi leader e l’attuale presidente iracheno - che in base alla costituzione deve essere un curdo - Fuad Masum.

Il destino di Kirkuk è stato deciso lì e ora i curdi in città hanno paura, imprecano contro Al-Abadi, i Peshmerga «traditori», contro l’America «in silenzio mentre veniamo invasi». La coalizione anti-Isis a guida americana ha solo invitato le parti a «evitare l’escalation» e a «concentrarsi» nella lotta agli islamisti. I curdi sono i più fedeli alleati degli Usa, ma anche Baghdad è strategica. Per Washington non è una scelta facile.

LA REPUBBLICA - Alberto Flores d'Arcais: "L’imbarazzo del Pentagono alleato di tutti e due i fronti"

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Alberto Flores d'Arcais

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Alcuni peshmerga kurdi

Al Pentagono era uno degli scenari (previsti) che temevano di più. Ora i generali degli Stati Uniti assistono quasi impotenti allo scontro tra i loro due principali alleati nella guerra allo Stato Islamico. Il comando Usa in Iraq aveva «avvisato» l’esercito iracheno (e per conoscenza i generali turchi) che non avrebbe tollerato «misure militari» nelle tre principali province del Kurdistan (Erbil, Dahuk e Sulaymaniyah), ma aveva anche segnalato (in via riservata) al governo di Bagdad i due paletti da non oltrepassare in qualsiasi tentativo di riprendere Kirkuk: nessuna violenza contro la popolazione civile, nessun coinvolgimento delle milizie sostenute dall’Iran. Non era stato facile mettere d’accordo le diverse anime dei militari Usa quella più favorevole ai curdi e a uno Stato curdo (in chiave anti-turca) e quella che teme una disgregazione di Iraq e Siria a tutto vantaggio della Russia - e alla fine aveva prevalso la linea della «negoziazione ad ogni costo». Ma tutto quello che è accaduto nelle ultime ore è l’evidente dimostrazione di come nel caos regionale gli Stati Uniti facciano sempre più fatica ad imporre il proprio punto di vista ad alleati che hanno un comune nemico (l’Isis) ma obiettivi finali totalmente differenti e contrapposti. Adesso i “mediatori” americani spingono per una tregua immediata ed hanno fatto sapere all’esercito iracheno che intendono mantenere nella città il piccolo contingente militare «consultivo» (vale a dire i consiglieri militari Usa) e vogliono imporre alcune «regole» da far rispettare ai due schieramenti: il congelamento dell’invio di rinforzi all’area, la rimozione di armi pesanti di artiglieria e dei serbatoi (andrebbero posizionato ad una reciproca distanza prestabilita), il divieto di movimenti notturni e una comunicazione «bidirezionale» per i nuovi movimenti di truppe. Vedremo nelle prossime ore se e come gli alleati-nemici saranno disposti a seguire i consigli della superpotenza dai cui finanziamenti politico-militari dipendono.

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Al Pentagono era uno degli scenari (previsti) che temevano di più. Ora i generali degli Stati Uniti assistono quasi impotenti allo scontro tra i loro due principali alleati nella guerra allo Stato Islamico. Il comando Usa in Iraq aveva «avvisato» l’esercito iracheno (e per conoscenza i generali turchi) che non avrebbe tollerato «misure militari» nelle tre principali province del Kurdistan (Erbil, Dahuk e Sulaymaniyah), ma aveva anche segnalato (in via riservata) al governo di Bagdad i due paletti da non oltrepassare in qualsiasi tentativo di riprendere Kirkuk: nessuna violenza contro la popolazione civile, nessun coinvolgimento delle milizie sostenute dall’Iran. Non era stato facile mettere d’accordo le diverse anime dei militari Usa quella più favorevole ai curdi e a uno Stato curdo (in chiave anti-turca) e quella che teme una disgregazione di Iraq e Siria a tutto vantaggio della Russia - e alla fine aveva prevalso la linea della «negoziazione ad ogni costo». Ma tutto quello che è accaduto nelle ultime ore è l’evidente dimostrazione di come nel caos regionale gli Stati Uniti facciano sempre più fatica ad imporre il proprio punto di vista ad alleati che hanno un comune nemico (l’Isis) ma obiettivi finali totalmente differenti e contrapposti. Adesso i “mediatori” americani spingono per una tregua immediata ed hanno fatto sapere all’esercito iracheno che intendono mantenere nella città il piccolo contingente militare «consultivo» (vale a dire i consiglieri militari Usa) e vogliono imporre alcune «regole» da far rispettare ai due schieramenti: il congelamento dell’invio di rinforzi all’area, la rimozione di armi pesanti di artiglieria e dei serbatoi (andrebbero posizionato ad una reciproca distanza prestabilita), il divieto di movimenti notturni e una comunicazione «bidirezionale» per i nuovi movimenti di truppe. Vedremo nelle prossime ore se e come gli alleati-nemici saranno disposti a seguire i consigli della superpotenza dai cui finanziamenti politico-militari dipendono.
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