giovedi` 25 aprile 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Il Foglio-Corriere della Sera Rassegna Stampa
03.06.2017 Il nuovo capo della Cia e le preoccupazioni in crescita dell'Iran
Analisi di Daniele Raineri e il solito Sergio Romano

Testata:Il Foglio-Corriere della Sera
Autore: Daniele Raineri-Sergio Romano
Titolo: «Torna un duro alla Cia-L'ultima fermata alla corsa delle armi»

Riprendiamo oggi 03/06/2017, due pezzi che coinvolgono l'Iran. Dal FOGLIO, Danielel Raineri sul nuovo capo della CIA nominato da Trump, dal CORRIERE della SERA l'analisi di Sergio Romano, entrambi preceduti da un nostro commento.

Il Foglio-Daniele Raineri: " Torna un duro alla Cia "

Immagine correlataImmagine correlata
 Mike D'Andrea

Come sempre bene informato Daniele Raineri riferisce della nomina di Mike D'Andrea a capo della CIA, nominato da Trump. Una notizia che preoccuperà sicuramente Teheran, quindi un'ottima scelta.

Immagine correlata
Daniele Raineri

Ieri il New York Times ha pubblicato un articolo molto enfatico per annunciare che l'Amministrazione Trump ha nominato un nuovo capo per la divisione della Cia che si occupa delle operazioni contro l'Iran, si chiama Mike D'Andrea e ha ben due nomignoli accattivanti: "I] principe oscuro" e "Ayatollah Mike". Il nome non suona nuovo agli addetti ai lavori perché è stato per quasi dieci anni direttore del temuto Counterterrorism Center, il Ctc, tra il 2006 e il 2015. In teoria l'identità di D'Andrea, che sul lavoro era indicato con il nome in codice "Roger", non dovrebbe essere pubblica perché lui si occupa di missioni clandestine e per questo quando il Washington Post fece un paio di pezzi-ritratto nel 2012 e nel marzo 2015 non la rivelò. Ma nell'aprile di quell'anno il New York Times scrisse il suo nome nero su bianco dentro un articolo - "perché ricopre una carica importante nell'Amministrazione", si giustificò-e fece saltare l'anonimato. Male, perché D'Andrea è l'uomo che ha inferto i danni maggiori ad al Qaida a detta delle fonti dei giornali americani e dal suo posto di comando in Pakistan ha guidato la caccia a Osama bin Laden e anche il programma di sorveglianza, caccia e uccisioni mirate dei capi di al Qaida con i droni armati di missili. Quando arrivò alla stazione Cia di Islamabad per assumere il suo incarico i droni americani colpivano in media tre volte l'anno. Nel 2010, quattro anni dopo, i raid con i droni furono 118. Fu sua la proposta di allargare le operazioni dei droni con l'adozione dei cosiddetti "signature strike": in breve, prima di D'Andrea le unità della Cia dovevano tallonare il bersaglio di al Qaida per mesi, essere sicure che fosse proprio lui e chiedere l'autorizzazione al presidente Barack Obama; dopo, fu sufficiente che i bersagli si comportassero da terroristi di al Qaida. Un veicolo carico di uomini armati che si allontanava da una casa controllata da al Qaida poteva essere distrutto grazie alla regola più lasca. Questo portò anche a un aumento degli errori e delle vittime civili. I giornali americani sono generosi di particolari da serie televisiva a proposito del Dark Prince: veste spesso di nero, ha una brandina per dormire in ufficio, fuma tantissimo, è un maniaco del lavoro ("Cosa fai per divertirti?", gli chiede un collega: "Lavoro") è musulmano perché si è convertito per sposare la moglie musulmana conosciuta durante il servizio all'estero (si, il capo del programma droni della Cia per eliminare i capi di al Qaida è musulmano, ora potete sintonizzarvi di nuovo sulla visione del mondo in bianco e nero). I colleghi lo temono e lo rispettano. Entrò in rotta di collisione con il presidente Obama perché la Casa Bianca temeva che la Cia stesse tradendo la sua missione originale- raccogliere informazioni da offrire a chi prende le decisioni - e che si stesse tramutando in un esercito clandestino con poca supervisione. L'uccisione per errore di due sequestrati in mano a rapitori di al Qaida - uno era il cooperante italiano Giovanni Lo Porto - dentro un covo distrutto da un drone ebbe il suo peso nello scontro con Obama, che voleva una Cia meno armata e decise che il programma droni fosse spartito con il Pentagono, perché i militari sono più trasparenti e più facili da inchiodare alle loro responsabilità. La nomina cosi strombazzata di D'Andrea, nella Cia del falco anti Iran Mike Pompeo, è letta come un segnale bellicoso contro il governo iraniano, con il quale l'America ha siglato il patto nucleare nel luglio 2015 ma che l'Amministrazione Trump considera "specialista dell'inganno".

Corriere della Sera-Sergio Romano: " L'ultima fermata alla corsa delle armi "

Sergio Romano, per attaccare Trump, cita Eisenhower, e per non dare giudizi sulla corsa al nucleare dell'Iran, scrive sulla 'pericolosità' dell'uso delle armi, rubando il mestiere al Papa. Arriva a difendere Barack Obama, descrivendolo come un pacifista, quando è stato proprio la sua poltica estera a innescare i massacri e la guerra civile in Medio Oriente, grande sponsor il regime degli ayatollah. L'Iran, e Romano, lo rimpiangono. Noi no, preferiamo un'America armata, in grado di far capire ai suoi nemici - che sono anche tali per le democrazie occidentali- da che parte sta la forza.

Possiamo naturalmente sperare che le armi vendute dal presidente Trump all'Arabia Saudita per no miliardi di dollari (350 miliardi nel corso del prossimo decennio) non vengano usate. Ma se usciranno dagli arsenali, il bersaglio sarà verosimilmente l'Iran. Non potremo proclamarci sorpresi, quindi, se l'Iran, nei prossimi mesi, rafforzerà il suo programma missilistico con nuovi esperimenti. E non potremo sorprenderci se la Cina, dopo la consegna alla Corea del Sud di un nuovo sistema antimissilistico americano chiamato Thaad, farà altrettanto. Conosciamo il gioco e sappiamo che ciascuno di questi Paesi attribuisce sempre a un altro, senza arrossire, il suo desiderio di nuove armi, più precise e letali. Sappiamo anche che certe forniture possono avere persino qualche ricaduta positiva. Quella di Trump alla Arabia Saudita, per esempio, potrebbe convincere i sauditi a smetterla di chiudere gli occhi di fronte alle sanguinose operazioni dell'islamismo sunnita, fra cui in particolare quelle dell'Isis; o addirittura aprire la strada all'avvento di un nuovo clima fra Israele e i palestinesi. Ma le armi sono fatte per essere usate e finiscono spesso, prima o dopo, su un campo di battaglia. L'America ne vende molte. Può essere considerata, almeno in parte, corresponsabile di questi conflitti? Per rispondere a una tale domanda può essere utile rileggere il discorso televisivo alla nazione con cui il generale Dwight D. Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate durante la Seconda guerra mondiale e presidente degli Stati Uniti dal gennaio 1953, si congedò dal potere nel dicembre 1861, Eisenhower esordì ricordando che sino alla Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti non avevano ancora una grande industria militare. Da allora, tuttavia, quella industria era andata progressivamente crescendo sino a impiegare tre milioni e mezzo di uomini e donne. Era necessaria alla sicurezza del Paese, ma stava creando quello che il presidente americano definì un «complesso militare-industriale», vale a dire una concentrazione di interessi che avrebbe potuto avere una influenza determinante sulla politica nazionale. Mai previsione è stata altrettanto giusta e altrettanto negletta. L'industria militare americana è un grande datore di lavoro, fondamentale per la vita di zone che non hanno altre attività produttive. Il suo rapporto con la pubblica amministrazione e con il Congresso è diventato sempre più intimo. Non è raro assistere al caso di ufficiali a riposo che vengono impiegati dalle ditte con cui, quando vestivano l'uniforme, hanno avuto rapporti di committenza. Gli Stati Uniti hanno perduto, politicamente, la guerra irachena del 2003. Ma non l'hanno perduta economicamente le grandi imprese dell'Intendenza che viaggiavano al seguito delle forze armate. Il caso di Halliburton è esemplare. La grande multinazionale texana, di cui il vice-presidente Dick Cheney era stato presidente e amministratore delegato, vinse un contratto di 7 miliardi di dollari, alla fine di una gara in cui fu la sola concorrente, per i servizi logistici delle forze d'occupazione americane. Ancora più potente l'industria militare è diventata da quando le sue ricerche per armi sempre più moderne e « intelligent o hanno prodotto innovazioni tecnologiche sempre più utili e vantaggiose. Paradossalmente molti grandi progressi tecnologici degli ultimi decenni (fra cui Internet) nascono là dove si fabbricano armi e si preparano guerre. Esiste ormai negli Stati Uniti un legame fra industria delle armi, economia nazionale e tecnologia del futuro che rende le guerre, in alcuni ambienti, utili e desiderabili. Barack Obama cercò di rompere questo circolo vizioso affidando a un segretario della Difesa, Robert Gates, il compito di ridurre drasticamente il bilancio militare degli Stati Uniti. Non sarà questa, verosimilmente, la politica di Donald Trump.

Per inviare la propria opinione, telefonare:
Il Foglio-06/5890901
Corriere della Sera-02/62821
oppure cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@ilfoglio.it
lettere@corriere.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT