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La Stampa - Il Foglio - Il Giornale Rassegna Stampa
24.03.2017 Attacco islamista a Londra: i commenti
Cronaca di Giordano Stabile, analisi di Daniele Raineri, Claudio Cerasa, Valeria Robecco

Testata:La Stampa - Il Foglio - Il Giornale
Autore: Giordano Stabile - Daniele Raineri - Claudio Cerasa - Valeria Robecco
Titolo: «'Ha colpito un nostro soldato': la controffensiva dell'Isis - Cosa ci dice l’identità del terrorista sulla forza dell'Isis a Londra - Il doppio attacco alla nostra democrazia - Bufera sul sindaco musulmano: 'Non condanna gli integralisti'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/03/2017, a pag. 4, con il titolo "'Ha colpito un nostro soldato': la controffensiva dell'Isis", la cronaca di Giordano Stabile ; dal FOGLIO, a pag 1, con i titoli "Cosa ci dice l’identità del terrorista sulla forza dell'Isis a Londra", "Il doppio attacco alla nostra democrazia", le analisi di Daniele Raineri, Claudio Cerasa; dal GIORNALE, a pag. 5, con il titolo "Bufera sul sindaco musulmano: 'Non condanna gli integralisti' ", l'analisi di Valeria Robecco.

Ieri abbiamo ripreso su IC un editoriale di Pierluigi Battista, pubblicato sul Corriere della Sera, a proposito del terrorismo islamico e dell'Europa (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=65770). Battista elenca gli attentati più sanguinosi degli ultimi anni contro l'Occidente. Quando si tratta di indicare l'attentato alla discoteca gay di Orlando, in Florida, dimentica di indicare il motivo dell'attacco, costato la vita a 80 giovani: il fatto che il locale era punto di ritrovo di omosessuali. Una omissione che non possiamo fare a meno di notare con stupore. in quanto Battista, citando la strage nel supermercato parigino kasher, scrive correttamente 'ebraico' e non semplicemente 'un supermercato'. Cosa che invece fa scrivendo 'una discoteca' di Orlando, senza specificarne la natura. Impedendo così al lettore di capire perchè l'attentatore aveva scelto proprio quella.

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Pierluigi Battista

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Giordano Stabile: "'Ha colpito un nostro soldato': la controffensiva dell'Isis"

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Giordano Stabile

Un soldato del Califfato. La stessa formula usata dopo gli attacchi a Nizza, a Berlino, negli Stati Uniti. L’Isis ha aspettato 24 ore prima di «mettere il timbro» sull’attentato di Londra. Con un comunicato diffuso dall’agenzia Aamaq che ricalca quelli della scia di sangue dell’ultimo anno. «L’assalitore di ieri di fronte al Parlamento britannico a Londra era un soldato dello Stato Islamico che ha agito in risposta agli appelli a colpire i cittadini delle nazioni della Coalizione».

«Soldato», «jundi», quasi un codice che permette di capire la portata dei legami fra la casa madre e il terrorista. Lo stesso usato per Mohamed Lahouaiej-Bouhlel, il tunisino della strage sulla Promenade des Anglais del 14 luglio 2016. O per Anis Amri, l’autore dell’attacco al mercatino di Natale di Berlino, o ancora Abdul Razak Ali Artan, il rifugiato somalo che ha cercato il massacro in Ohio. Solo che Khalid Masood, era un uomo di mezza età, 52 anni, forse un convertito, con una lunga carriera criminale alle spalle più che un curriculum da jihadista.

Quando l’Isis usa la parola «soldato» mette il suo seguace un livello sotto i «mujaheddin», o i «credenti» che hanno combattuto nel Califfato e sono tornati a seminare il terrore in Occidente. «Credenti» e «mujaheddin» erano gli autori delle stragi di Parigi. Con i «soldati» l’Isis si è procurato reclute più a basso costo e meno controllabili ma è sceso in qualità. Ora l’età dell’attentatore di Westminster, e anche quella dell’uomo arrestato ad Anversa, segnalano un ulteriore scadimento.
L’unico precedente con un «soldato di mezza età» è quello dell’attacco in caffè di Sydney condotto dal cinquantenne Mohammad Hassan Manteghi. L’Isis preferisce di gran lunga i millennials, anche se non si fa problemi nel reclutare avanzi di galera. Un poster in inglese mostra un militante all’interno di una prigione, con il kalashnikov sulle spalle e la scritta «A volte le persone con il peggior passato promettono il miglior futuro». In quasi tutti gli ultimi attacchi i terroristi hanno precedenti per crimini comuni.
La velocità nell’adattamento della propaganda mostra al contrario un punto di forza dello Stato islamico. La sua macchina mediatica non è stata spezzata, anche se Raqqa e Mosul sono sotto assedio. Un altro poster in Rete, rilasciato poche dopo l’attacco, mostra Westminster, la Hyundai ferma contro la cancellata, e poi il volto «martirizzato» di Masood e la scritta «Fate la vostra jihad». I jihadisti però si sono dovuti adeguare. Facebook e Twitter, che hanno cancellato centinaia di migliaia di account, sono ora poco frequentati. Telegram, che ha cominciato da poco l’opera di pulizia, è preferito.
Il cambio di canale ha costretto anche ad adeguare lo stile. Come nota l’analista francese Romain Caillet, non si rivolgono più a un «pubblico di massa, ma a un circolo di iniziati, di jihadisti convinti». Un bacino più ristretto per il reclutamento ma che serve a tenere alto il morale. Già nella notte i sostenitori dello Stato islamico avevano festeggiato e legato la strage alla guerra in Siria e Iraq. Uccidere innocenti, è la tesi, è una risposta ai presunti «massacri» della Coalizione. E su Telegram gli islamisti avevano riportato dichiarazioni del portavoce Abu Hassan al-Muhajir, che invitava tutti i credenti a passare all’azione nei Paesi occidentali «per distogliere i loro cannoni dai fratelli musulmani, attaccateli nelle strade, case, centri commerciali».
La stessa linea del predecessore Mohammed al-Adnani e il suo «colpiteli con tutto quello che avete, investiteli con le vostre auto». E dietro i lupi solitari si scopre sempre un burattinaio. Come Junaid Hussain, in contatto con i terroristi di Garland, Texas, e di San Bernardino, California. O come Rachid Kassim, dietro quasi tutti i micro attacchi in Francia. Tutti e due sono stati eliminati da raid, a Mosul. Ma la battaglia non è finita.

IL FOGLIO - Daniele Raineri: "Cosa ci dice l’identità del terrorista sulla forza dell'Isis a Londra"

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Daniele Raineri

Roma. Secondo Jason Burke, giornalista e autore di saggi sui gruppi terroristici, la natura rudimentale e solitaria dell’attacco di Westminster tradirebbe il fatto che lo Stato islamico non dispone di un network in Gran Bretagna. Vale a dire che a Londra e a Birmingham – dove ieri ci sono stati otto arresti legati all’attacco di mercoledì – il gruppo islamista non ha replicato il “modello continentale”, non ha creato una struttura come era riuscito a fare nel 2015 a Parigi e Bruxelles: una base madre in grado di produrre esplosivi, nascondere e trasportare bombe, procurarsi fucili d’assalto, proteggere latitanti e soprattutto di pianificare attacchi coordinati, con la partecipazione di tanti associati. La manovalanza inglese in contatto diretto con la centrale operativa di Abu Bakr al Baghdadi è così scarsa, sostiene Burke, che per andare a fare ricognizioni di bersagli da attaccare in Gran Bretagna lo Stato islamico nel 2015 mandò un belga, Mohammed Abrini, che però – depresso dalla convinzione che la sorveglianza dell’intelligence inglese fosse ineludibile – non fece nulla e sperperò denaro nei casinò. La rivendicazione arrivata ieri da parte dello Stato islamico va in direzione di questa impressione e dell’assenza di una cellula britannica robusta dell’Isis: annuncia che “un soldato ha risposto alla chiamata a colpire i paesi della coalizione”, e questo legame neutro – “ha risposto alla chiamata” – indica i soggetti che agiscono senza fare parte di un piano concordato in Iraq o in Siria, quindi i “lupi solitari”. Quest’ultima è una definizione che come vedremo ha sempre meno senso.

Ieri la polizia ha identificato l’uomo come Khalid Masood, un giardiniere nato nel Kent 52 anni fa (curiosità: nella stessa contea del politico di destra Nigel Farage). Aveva lontani precedenti penali per reati violenti commessi tra il 1983 e il 2003, ma non aveva legami forti con la scena fin troppo esuberante del radicalismo islamico inglese. Mercoledì il primo ministro britannico, Theresa May, aveva detto che l’uomo – di cui non aveva fornito il nome per dare un vantaggio ovvio agli investigatori – era sì stato indagato “negli anni scorsi” per frequentazioni estremiste, ma che si trattava di una “figura periferica”. Tra mercoledì sera e giovedì mattina la polizia ha fatto irruzione in grande stile nelle abitazioni in cui Masood ha vissuto con la sua famiglia a Birmingham, i vicini hanno raccontato di squadre della scientifica con tute bianche ed elicotteri in volo. I vicini raccontano anche che Masood era un uomo tranquillo e riservato e che indossava spesso i vestiti bianchi tradizionali dell’islam. A Natale aveva lasciato in fretta il suo ultimo indirizzo. Il fatto che Masood avesse alle spalle un passato di bassa criminalità lo accomuna a tante reclute europee dello Stato islamico, per esempio alcuni attentatori di Parigi e lo stragista di Berlino erano piccoli spacciatori, ma la sua età è stata una sorpresa per gli investigatori, perché è il doppio di quella media degli altri estremisti inglesi. Viene il dubbio che proprio l’età sia stata il fattore che ha schermato Khalid Masood dal radar dell’intelligence britannica, che nel frattempo è impegnata nella sorveglianza faticosa di almeno tremila soggetti pericolosi. La questione affrontata da Burke – esiste o non esiste una colonna organizzata dell’Isis nel Regno Unito? – è essenziale, perché il paese è uno dei più a rischio in Europa per il numero di musulmani estremisti in casa e per il numero dei volontari partiti per arruolarsi nei gruppi terroristici in Siria, Iraq, Libia, Somalia e altrove. Se lo Stato islamico ha riconosciuto in via ufficiale l’attacco di Masood vuol dire che l’uomo in qualche modo è riuscito a comunicare la sua bay’a, vale a dire il giuramento di fedeltà al capo del gruppo al Baghdadi. Basta anche un semplice messaggio in chat, ma sono queste cose a rendere obsoleto il concetto di “lupo solitario”. Il governo inglese nel 2016 ha detto di avere sventato dodici grandi attacchi in tre anni. Cos’era questo compiuto da Masood? Soltanto il colpo di un anomalo sfuggito al setaccio?

IL FOGLIO - Claudio Cerasa: "Il doppio attacco alla nostra democrazia"

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Claudio Cerasa

La rivendicazione da parte dello Stato islamico dell’attentato di Londra, dove mercoledì pomeriggio un soldato del Califfato armato di un Suv e di un coltello ha ucciso tre persone ferendone quaranta di fronte al Parlamento inglese, è solo l’ultimo orribile tassello di una guerra militare e culturale che l’islam fondamentalista sta combattendo contro l’occidente in forme diverse ma con un unico obiettivo piuttosto definito: abbattere gli infedeli attraverso la demolizione dei simboli della loro libertà. L’attacco a Westminster, meravigliosa culla della democrazia parlamentare, deve essere legato con unico grande filo a una sequenza chiara di stragi in cui bisogna mettere insieme tutto. L’abbattimento delle Torri gemelle, intese come monumento dell’America libera ed esportatrice di democrazia. La strage di Charlie Hebdo, intesa come incarnazione plastica della nostra violata libertà di espressione, simile per molti versi all’uccisione del regista Theo van Gogh, autore di un famoso cortometraggio sull’islam, e per questo assassinato nel 2004 da un estremista islamico.

L’attentato a Nizza è stato compiuto il 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia, festa della libertà della Francia. L’attacco al Bataclan di Parigi, simbolo della gioia di vivere e della libertà dei costumi, simile agli attentati compiuti sulle spiagge tunisine di Sousse. Lo sgozzamento di un prete in Normandia durante una messa – speculare al genocidio contro i cristiani portato avanti in medio oriente – che ha colpito al cuore la libertà di un cristiano di essere cristiano; così come l’attacco terroristico a un supermercato kosher a Parigi e gli attentati contro i simboli dell’ebraismo sono a loro volta la spia della volontà degli islamisti di eliminare tutti gli infedeli (“Tutti gli ebrei che vi capitano tra le mani, uccideteli”, Sirah, II, 58-60). E poi, ancora, il locale omosessuale a Orlando (“L’omosessuale è la figura del trasgressore”, Corano, VII, 81). I treni di Madrid, la tube di Londra, gli aerei in Egitto, l’aeroporto di Bruxelles, la metropolitana di Maelbeek, con conseguente attacco alla nostra libertà di movimento.

E chissà che altro. Ecco: chi non vuole vedere negli occhi l’orrore dell’attacco islamista alla libertà dell’occidente di solito gioca con gli alibi, si sforza di negare che il terrorismo nasce da una precisa interpretazione di alcuni passi letterali del Corano (i miscredenti vanno colpiti “tra capo e collo”, Corano, VIII, 2) e gioca a stimolare il senso di colpa dell’occidente sostenendo che il jihad, come ripetuto spesso dal Santo Padre, nasce per ragioni legate alla povertà, alla diseguaglianza, al liberismo, al colonialismo, al capitalismo, alla depressione. Sappiamo che non è così. Ma la novità di oggi, per fare un passo in avanti, è che il poderoso assalto del fondamentalismo islamico alle libertà dell’occidente arriva in un momento particolare della storia dell’occidente, all’interno del quale la democrazia rappresentativa si trova sotto una duplice aggressione: da una parte la lama violenta degli islamisti, dall’altra la retorica feroce dei populisti. Anche in questo caso si può far finta di nulla e si può scegliere di chiudere gli occhi e voltarsi dall’altra parte. Ma la giornata di mercoledì ha acceso una piccola lampadina, a partire da una doppia scena che più plastica non si può.

Negli stessi istanti in cui un uomo armato di Suv e di coltello ferisce il simbolo della democrazia parlamentare inglese, a Roma alcuni deputati di un noto partito anti sistema fanno irruzione nell’ufficio di presidenza del Parlamento italiano: urlano vergognavergogna-vergogna, portano alla sospensione di un question time, mandano in infermeria due commessi, mentre fuori da Montecitorio alcuni deputati di quello stesso partito, dopo aver giustificato preventivamente una qualche forma di violenza contro i parlamentari di altri partiti a seguito di un voto non gradito nell’Aula di Palazzo Madama, partecipano a una manifestazione, “per circondare il Parlamento”. Il tema è delicato e deve essere affrontato senza superficialità ma il dato è incontestabile: per ragioni diverse l’una dall’altra, i simboli della società aperta, perfettamente sintetizzati dalla democrazia rappresentativa che ha nel Parlamento la sua culla naturale, sono sotto attacco feroce; e populisti e integralisti religiosi, come ha scritto bene il professor Sebastiano Maffettone tre giorni fa sul Messaggero, hanno entrambi una volontà esplicita e condivisa: “Rovesciare l’ordine costituito e decostruire le gerarchie”. La fragilità della democrazia rappresentativa è un dato oggettivo del nostro secolo e il fatto che nelle società occidentali esistano delle zone burrose in cui riescono a penetrare con facilità la lama dei terroristi e la retorica dei populisti non c’entra nulla con la miopia dei servizi segreti o con l’allarmismo sull’immigrazione: c’entra, piuttosto, con una generale incapacità delle classi dirigenti ad affrontare alla radice alcuni gravi problemi che esistono nella nostra democrazia.

Il grande filosofo tedesco ErnstWolfgang Böckenförde, ex giudice della Corte costituzionale tedesca, docente di Diritto costituzionale e di Filosofia del diritto, già a metà del Novecento sosteneva che una società dei diritti che si sostituisce a una società dei doveri (è la storia dei nostri giorni) è destinata a mettere in campo un cortocircuito letale all’interno del quale lo stato liberale si svuota, diventa secolarizzato e tende a vivere di presupposti che non è più in grado di garantire. La ragione per cui di fronte a un attentato di matrice islamista si tende spesso a mettere da parte l’aggettivo “islamista” è uno dei sintomi di questo malessere: identificare la matrice religiosa di un attacco terroristico significa riconoscere che c’è una scala di valori che si contrappone alla propria – significa ammettere che il dramma dell’islam fondamentalista non lo si può risolvere senza andare alla radice del problema, senza cioè esportare la democrazia laddove la democrazia fatica a maturare – e per non entrare nel merito della differenza che esiste tra una cultura liberale e democratica e una cultura totalitaria ispirata a un’interpretazione radicale di una precisa religione si tende spesso a mettere da parte gli aggettivi e si preferisce giocare con gli alibi.

Allo stesso tempo, seppure su un piano diverso ma complementare, una spia del grave malessere che vive la democrazia rappresentativa è sintetizzata da quelle realtà politiche e culturali che scambiano le forze anti sistema per la soluzione di un problema e non per quello che invece sono davvero: il sintomo di una sofferenza. Da una parte e dall’altra, per ragioni diverse e certamente non sovrapponibili, i simboli della nostra democrazia sono diventati un bersaglio da colpire: con i populisti da un lato e gli integralisti dall’altro. E anche per questo, mai come in questo momento servirebbero leader capaci di guardare il mondo per quello che è, di smascherare con coraggio i professionisti degli alibi e di rendersi conto che oggi, come ha detto magnificamente ieri il nuovo presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, “non dobbiamo solo discutere di democrazia: dobbiamo imparare nuovamente a difenderla”.

IL GIORNALE - Valeria Robecco: "Bufera sul sindaco musulmano: 'Non condanna gli integralisti' "

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Valeria Robecco

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Sadiq Khan, sindacvo di Londra

A ventiquattr'ore dall'attacco terroristico che ha di nuovo insanguinato Londra è il primo cittadino della capitale britannica Sadiq Khan a finire al centro dell'attenzione. Da una parte per la tardiva condanna dell'attentato, e dall'altra per lo scontro a distanza con il figlio del presidente americano, Donald Trump Jr. Khan, 46enne figlio di due immigrati pachistani musulmani - il padre conducente di autobus e la madre sarta - è nato a Tooting, quartiere popolare nel Sud di Londra. Dopo la laurea in giurisprudenza e la carriera da avvocato specializzato in diritti umani ha inseguito il sogno della politica, prima con Gordon Brown e poi nel governo ombra di Ed Miliband. Considerato esempio di integrazione e cosmopolitismo, la sua scalata è arrivata ai vertici nel maggio 2016 con l'elezione a sindaco della City dopo il conservatore, e inglesissimo, Boris Johnson. Khan è diventato così il primo sindaco di una minoranza etnica della città, e il primo sindaco musulmano di una grande capitale occidentale. La sua attenzione alla coesione intercomunitaria è stata elogiata dai sostenitori del dialogo interreligioso, mentre i detrattori ne hanno criticato la volontà di «condividere una piattaforma» con religiosi islamici fondamentalisti. E l'impegno per migliorare le relazioni tra la comunità musulmana e il resto della società britannica gli è costato minacce sia dagli islamisti che attivisti di estrema destra.

Dopo l'attacco a Westminster, Khan è stato criticato per il suo iniziale «silenzio», poiché nelle ore successive si è limitato a una breve dichiarazione. Solo in seguito ha affermato: «Non permetteremo a questi terroristi di cambiare il nostro modo di vivere», lanciando un appello ai fedeli di tutte le religioni della città, elencandole una a una. E riferendosi genericamente ai terroristi, senza mai nominare l'Isis o i jihadisti, ha aggiunto: «Odiano il fatto che qui a Londra cristiani, ebrei, musulmani, sikh, buddisti e indù si tollerano, si rispettano e sono fra loro uniti». Mentre alla veglia organizzata ieri sera a Trafalgar Square in memoria delle vittime, ha ribadito che i londinesi non saranno «mai intimiditi e piegati dal terrore»: «Quando si trovano di fronte alle avversità si riuniscono. La nostra risposta mostra al mondo che cosa significa essere londinesi». Una durissima polemica è invece scoppiata in rete dopo la critica da parte di Donald Trump Jr. Proprio nel giorno dell'attentato, il figlio del presidente Usa si è scagliato contro il sindaco di Londra su Twitter: «Mi state prendendo in giro?! Gli attacchi terroristici sono parte della vita in una grande città, dice Sadiq Khan».

Donald Jr si riferiva ad un'intervista rilasciata dal sindaco lo scorso settembre all'Independent, nella quale spiegava come l'essere preparati a eventuali attacchi è diventato parte della vita nelle grandi città, e incoraggiava i londinesi ad essere vigili per combattere i pericoli. Il tweet ha fatto infuriare i britannici e infiammato la rete, scatenando una bufera intorno al figlio del tycoon. Khan, invece, ha liquidato la polemica con poche parole, spiegando di non aver risposto al messaggio perché nelle ultime 24 ore ha «avuto cose molto più importanti da fare», e aggiungendo che Londra «resta una delle città più sicure al mondo». Da sindaco a sindaco, invece, il predecessore di Khan, e oggi ministro degli esteri, Boris Johnson, ha parlato dall'Onu, spiegando che «le vittime di Westminster provengono da undici Nazioni. L'attacco a Londra è un attacco al mondo, e il mondo è unito nello sconfiggere chi lo ha organizzato. Lo dico con fiducia perché i nostri valori sono superiori, la nostra visione del mondo è migliore e più generosa». Quindi, a chi gli chiedeva dei rapporti con l'amministrazione Trump, Johnson ha assicurato che «la cooperazione tra il governo della Gran Bretagna e quello americano è intensa, e continuerà». «A New York e a Washington ho visto Paesi, anche del mondo islamico, unirsi per combattere l'Isis - ha concluso - e credo che questo avrà un grande effetto».

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