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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - Il Giornale Rassegna Stampa
16.03.2017 Elezioni in Olanda: Geert Wilders rimproverato con intelligente ironia
Cronaca di Andrea Nicastro, commento di Gian Micalessin

Testata:Corriere della Sera - Il Giornale
Autore: Andrea Nicastro - Gian Micalessin
Titolo: «Ma Wilders guarda avanti: 'Parlare di islam non è più un tabù' - Wilders ormai l'ha capito: avrà ragione solo da morto»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 16/03/2017, a pag. 3, con il titolo "Ma Wilders guarda avanti: 'Parlare di islam non è più un tabù' ", la cronaca di Andrea Nicastro; dal GIORNALE, a pag.  15, con il titolo "Wilders ormai l'ha capito: avrà ragione solo da morto", il commento di Gian Micalessin, preceduto da un nostro breve commento.

Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Andrea Nicastro: "Ma Wilders guarda avanti: 'Parlare di islam non è più un tabù' "

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Andrea Nicastro

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Geert Wilders

Geert Wilders, il grande deluso, è protetto da due cordoni di guardie del corpo, una di Stato e una del partito. Da anni vive isolato, in case segrete, cambiando letto all’ultimo momento per paura di un attentato islamista. Anche per questo ha affinato la comunicazione con i social network, saltando i giornalisti «servi del sistema». Fino a tarda notte resta invisibile, forse fatica ad ammettere davanti ai suoi che i 4 seggi in più sono pochi per chi puntava a vincere. Forse non ha semplicemente bisogno di apparire in tv. «Rutte non si è ancora liberato di me», twitta livido. Prima della doccia fredda, però, come per un presentimento, aveva ragionato con alcuni inviati stranieri.

«Cinque anni fa nessuno parlava di identità, di pericolo islamico, di difesa del perimetro della cittadinanza. Erano tabù. Oggi invece fanno parte dell’agenda di governo. Comunque vada, per me non si è mai trattato di poltrone, ma di difendere il mio Paese, la mia cultura, il mio popolo. Questo io lo chiamo successo». Wilders può anche aver ragione, ma il suo populismo anti Europa e anti Islam si è fermato al palo. Sarà stata la risposta del premier Mark Rutte all’offensiva turca, quel no di Amsterdam ai comizi pro Erdogan sul suolo olandese che hanno dato la sensazione di un Paese deciso a difendere i propri confini. Sarà che con la crescita del Pil sopra il 2% e la disoccupazione sotto il 5% è difficile cambiare timoniere. Sarà che i finanziamenti della destra Usa al Partito per la libertà di Wilders non sono piaciuti e ancora meno hanno convinto i sospetti che hacker russi volessero manipolare il voto per favorire la disgregazione dell’Ue. Chi avrebbero voluto aiutare i fantomatici agenti di Putin se non il biondo antisistema Wilders che dopo la Brexit vorrebbe la Nexit, l’uscita dei Paesi Bassi dall’Ue? Saranno queste e mille altre ragioni, ma il risultato è deludente per il tulipano nero. Il suo ciuffo incontenibile l’ha fatto paragonare al presidente Usa Donald Trump.

Entrambi populisti, entrambi affezionati a Twitter e alle provocazioni, entrambi capaci di rompere qualsiasi consuetudine. Per Wilders, il nuovo presidente Usa è un «dono di Dio», uno che «ha riportato la gente al centro dell’agenda politica fino ad allora dominata dalle élite» esattamente come ha fatto lui nella politica della concertazione, del consenso ad ogni costo che è stata la regola dei Paesi Bassi sino al suo arrivo in scena. Durante l’ultimo confronto tv il premier Rutte ha rimproverato a Wilders proprio la rottura della loro alleanza in un momento difficile. «Quando c’erano da fare dei sacrifici per recuperare benessere e crescita, hai voltato le spalle alla coalizione e al Paese». Wilders ha abbozzato, ma la frecciata è andata a segno, colpendo uno dei valori dell’essere olandese. Qui lo chiamano il «polder model», la necessità di collaborare tra comunità diverse per mantenere aperti i canali di drenaggio e le pompe che impediscono al mare di riconquistare spazio. «Senza il pragmatico sforzo collettivo dei suoi abitanti, i Paesi Bassi oggi avrebbero una superfice pari alla metà di quella che hanno» lo ha rimproverato il vincitore di ieri. Wilders, 53 anni, è un politico di lungo corso: paradossalmente, per uno fustigatore delle élite e della burocrazia europea, è tra i deputati con più legislature sulle spalle. Non è un outsider o un imprenditore e non smetterà di lottare.

Questa volta sentiva il vento soffiare a favore e ha radicalizzato il suo discorso. In epoca di post verità, più si mostrava scorretto e volgare, più diventava famoso grazie ai rimbalzi «virali» sui social network. Allora eccolo declamare che «non è un problema di criminalità, ma un problema di marocchini». Oppure chiedere di «liberare il Paese dalla feccia islamica» o di «chiudere le moschee» o ancora paragonare il Corano al Mein Kampf, perché «è un libro fascista che incita alla violenza». In effetti i sondaggi lo vedevano volare e la sua campagna elettorale ha avuto addosso tutti i riflettori. «Populista? Certo — ammette senza problemi — perché i politici tradizionali non hanno la minima idea di cosa ha bisogno la gente». Questa volta è lui a non aver capito gli olandesi.

IL GIORNALE - Gian Micalessin: "Wilders ormai l'ha capito: avrà ragione solo da morto"

Gian Micalessin affronta l'argomento Geert Wilders e le elezioni olandesi con intelligente ironia. La tesi è che Wilders per essere preso davvero sul serio dovrebbe... farsi ammazzare dai terroristi islamici.

Ecco il pezzo:

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Gian Micalessin

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"Sharia per l'Olanda"

Geert Wilders dovrebbe rassegnarsi. La sua unica speranza di venir preso sul serio anziché venir liquidato come un nazista, xenofobo e islamofobo, non è vincere le elezioni, ma farsi ammazzare. Invece niente. Ieri, all'uscita dalle urne, ripeteva «di sperare d'essere uno dei vincitori di questo voto». Ormai s'è convinto. «Maggiore sarà l'affluenza dice - maggiore sarà la possibilità di diventare primo ministro». È addirittura persuaso d'avere un seguito. «Abbiamo lasciato il nostro segno ripete - alle elezioni tutti parlano dei nostri temi». Non sa di star sprecando le sue chances. La migliore l'ha buttata alle ortiche il 10 novembre 2004. Quel giorno tre amichetti di Mohammed Bouyeri, il buontempone che una settimana prima aveva sgozzato nel centro di Amsterdam Theo Van Gogh, regista di «Submission», erano pronti a liquidare a colpi di granate lui e Ayaan Hirsi Ali, protagonista del filmaccio. Era un'occasione d'oro. Geert Wilders poteva diventare un martire e venir finalmente preso sul serio.

Invece no, preferì sopravvivere e dribblare altre irripetibili occasioni. Nel 2010, ad esempio il predicatore islamista Feiz Mohammed, animatore di una rispettabilissima chat islamista, invita dall'Australia a «mozzargli la testa» per «aver denigrato l'Islam». Subito dopo le occasioni si moltiplicano. Inspire, raffinata rivista di Al Qaida, inserisce Wilders in una lista nera con la solita Ayaan Hirsi Ali, Salman Rushdie, il vignettista danese Kurt Westergaard e Stéphane Charbonnier, il vignettista di Charlie Hebdo. Ma lui niente. Invece di offrire il collo continua a professarsi liberale ripetendo di avercela «non con i musulmani, ma con l'Islam» perché «Islam e libertà sono incompatibili». Certo farsi decapitare è seccante, ma per il quieto vivere qualche sacrificio bisogna pur farlo. Wilders, invece, s'incaponisce a vivere sotto scorta, a cambiar letto tutte le sere e ad indossare il giubbotto antiproiettile ogni volta che esce. E nonostante queste comodità continua le sue litanie. «È in gioco il nostro futuro perché - ha detto nell'ultimo dibattito Tv - l'Islam è una minaccia per l'Olanda».

Ma che sarà mai? Han sgozzato l'insopportabile Theo Van Gogh e tentato di far fuori lui e la sua amichetta Hirsi Ali, ma in fondo non ci son neppure riusciti. Quindi perché prenderla sul personale? Perché biasimare Maometto definendolo «un signore della guerra e un pedofilo uno che al giorno d'oggi sarebbe ricercato come terrorista». Che scarsa sensibilità. Che mancanza di sportività. E poi perché mai intignare anche contro la provvidenziale Unione Europea? «Se vinco ripeteva ieri - farò un referendum (contro l'Ue) perché abbiamo dato il nostro denaro a Paesi stranieri. Dobbiamo restituire l'Olanda agli olandesi». Quanto personalismo, quanto disdicevole risentimento personale. Si sarà mica offeso perché nel febbraio 2009 Jacqui Smith, allora segretario agli Interni inglese, usò l'articolo 19 della legge europea sull'immigrazione per dichiararlo persona non grata, bloccarlo all'aeroporto di Londra e rispedirlo in Olanda? Il provvedimento, in fondo, non faceva una piega. Wilders - a differenza del milione di profughi entrato in Europa a fine 2015 - rappresentava indubbiamente, come recita la legge europea, una «minaccia al pubblico, alla salute e alla sicurezza».

Ma l'ostinato Wilders da quell'orecchio non ci sente. Del resto se ci sentisse non continuerebbe a ripetere di «ammirare Israele» di «considerarlo la prima linea di difesa contro l'Islam». Se capisse quelle e altre cose non continuerebbe a definirsi un liberale di destra. Non si lagnerebbe quando lo definiscono un inguaribile xenofobo, un intoccabile populista e uno spregevole nazista. Se lo capisse farebbe come il vignettista Stéphane Charbonnier finito assieme a lui nella lista nera di Al Qaida. A Charbonnier è andata di lusso. Il 7 gennaio 2015 s'è lasciato massacrare assieme ad altri 11 fortunati. E da allora tutto il mondo che conta e piace si vanta d'essere come lui e gli altri di Charlie Hebdo. Ma lui no. Geert, quell'infame, pretende di vincere le elezioni. E «Je suis Wilders» non vuole sentirselo dire.

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