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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - L'Unità Rassegna Stampa
09.03.2017 In Iran è record di esecuzioni; anche il ricercatore dell'Università di Novara rischia la forca
I numeri sul Corriere, cronaca di Umberto De Giovannangeli

Testata:Corriere della Sera - L'Unità
Autore: la redazione del Corriere della Sera - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Pena di morte, record dell'Iran: 530 esecuzioni - 'Sogno di giocare ancora con te': ma Djalali rischia l'impiccagione»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 09/03/2017, a pag. 11, la breve "Pena di morte, record dell'Iran: 530 esecuzioni"; dall' UNITA', a pag. 2, con il titolo " 'Sogno di giocare ancora con te': ma Djalali rischia l'impiccagione", il commento di Umberto De Giovannangeli.

Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA: "Pena di morte, record dell'Iran: 530 esecuzioni"

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Una impiccagione pubblica in Iran

L’Iran resta il Paese che più ricorre alla pena di morte (se rapportato alla popolazione): nel 2016 le esecuzioni sono state almeno 530. Nel 64% dei casi queste condanne sono state decise dalle Corti rivoluzionarie islamiche, stima l’Iran Human Rights (Ihr) nel suo ultimo rapporto, appena pubblicato. Queste corti sono «meno trasparenti delle corti pubbliche»: i loro giudici «sono noti per l’abuso dei loro poteri».

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli: " 'Sogno di giocare ancora con te': ma Djalali rischia l'impiccagione"

 UDG si rende conto che non esiste soltanto Israele -  verso cui ha una autentica ossessione -  e scrive una cronaca sulla sistematica violazione dei diritti umani in Iran, a partire dal caso di Ahmad Reza Djalali, ricercatore dell'Università di Novara accusato di essere "spia" che rischia l'impiccagione.

Ecco il pezzo:

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Umberto De Giovannangeli

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Ahmad Reza Djalali

Fermare la mano del boia di Stato. E' un dovere politico. È un obbligo morale. È un impegno a cui il Governo italiano non può, non deve sottrarsi. Il suo nome è Ahmad Reza Djalali, iraniano, 45 anni. Djalali ha lavorato 4 anni a Novara, all'Università del Piemonte Orientale, come ricercatore capo al Crimedim, il Centro di ricerca in medicina di emergenza e delle catastrofi. Djalali è stato arrestato dai servizi segreti iraniani mentre si trovava in Iran per partecipare a una serie di seminari nelle università di Teheran e Shiraz.

Dal 25 aprile 2016 è in carcere e rischia la pena di morte. Djalali è accusato di «collaborazione con governi nemici», reato che in Iran è punito con l'impiccagione. «Lo scorso dicembre, le autorità iraniane hanno fatto forti pressioni su Djalali affinché firmasse una dichiarazione in cui "confessava" di essere una spia per conto di un "governo ostile». Quando ha rifiutato, è stato minacciato di essere accusato di reati più gravi. Per protesta, Djalali ha iniziato uno sciopero della fame (ripreso lo scorso 24 febbraio) e ha dichiarato di aver smesso di assumere anche i liquidi. Sta protestando per la sua detenzione e il rifiuto delle autorità di garantirgli accesso ad un avvocato di sua scelta. «Preferisco morire per lo sciopero della fame piuttosto che essere condannato per accuse infondate» ha dichiarato Djalali, detenuto nel carcere di carcere di Evin, presso Teheran.

Djalali sta male. Il 26 dicembre ha cominciato uno sciopero della fame: ha perso 20 chili, ha avuto due collassi e ha problemi ai reni. Intorno al suo caso si è creata una mobilitazione globale: Amnesty International ha avviato un'azione urgente e dal web anche l'invito a inviare un tweet con l'hashtag #SaveAhmad. Su Change.org una petizione ha ormai raccolto oltre 220mila firme. Ora la sua famiglia vive in Svezia e da lì, attraverso il loro profilo Facebook, Amitis e Ario, 14 e 5 anni, figli del dottor Djalali, hanno pubblicato una lettera al padre: «Sogno ogni giorno di vederti tomare a casa, di riabbracciarti, di giocare di nuovo con te, ma ho paura che quel giorno non arriverà mai». Insieme al messaggio la loro foto con la scritta sul palmo delle mani: «free our dad» e «came back daddy», «liberate il nostro papà» e «torna a casa papà». «Sogno il giorno che mi sveglierò con la notizia che sei stato rilasciato» conclude Amitis, il maggiore dei figli. «E che tutta la sofferenza, tua e nostra, finalmente è finita. Non potrò mai rinunciare a credere che un giorno tornerai. Tu non mollare».

Un appello accorato, rilanciato ieri nella conferenza stampa organizzata dalla Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato presieduta da Luigi Manconi. Ahmad Reza Djalali, ricorda Manconi aprendo la conferenza, «è un ricercatore con un curriculum di altissimo valore scientifico, la sua è la biografia di uno studioso, di un uomo cosmopolita». Come lo era Giulio Regeni. Ed ora questo medico capace e di grande umanità, figura tratteggiata nel suo intervento da Luca Ragazzoni, medico ricercatore in Medicina dei disastri, collega di Djalali, rischia l'impiccagione per un'accusa infamante e infondata: quella di essere una spia. In gioco, avverte Manconi c'è la vita di un innocente, e con essa, «la libertà di ricerca». Ed è proprio questa libertà di cui Djalali è portatore che lo ha fatto entrare nel mirino di un regime che, rimarca ancora Manconi, «di questa libertà ha paura e che si nutre della cultura del sospetto».

Ad affiancare Manconi in questa battaglia di libertà ci sono Elena Ferrara, senatrice del Pd e componente della Commissione Diritti Umani, e Elena Cattaneo, senatrice a vita e direttrice del Laboratorio di Ricerca sulle Cellule Staminali di Milano. Manconi e Ferrara hanno incontrato recentemente l'ambasciatore iraniano in Italia, incontro, ammette Manconi, rivelatosi «deludente». Come pure i contatti della Farnesina con le autorità iraniane. Ma l'impegno prosegue. A chiederlo è Vida Mehrannia Djalali, la moglie del ricercatore iraniano, intervenuta telefonicamente: «È importante - dice Vida Djalali, che vive a Stoccolma con i due figli - che sia mantenuta alta la pressione sulle autorità iraniane da parte del Governo italiano e del Parlamento. Oggi si parla del caso di mio marito, e di ciò vi ringrazio, ma non bisogna dimenticare che in Iran le carceri sono piene di persone imprigionate per reati di opinione». Persone che spesso non conoscono neanche di cosa siano realmente imputate, che non hanno la possibilità di avvalersi di una difesa all'altezza. Persone come Ahmadreza Djalali: «Non sappiamo neanche di cosa venga accusato, quali siano i rapporti sospetti intrattenuti da mio marito con accademici iraniani», sottolinea Vida. Ahmadreza non aveva paura di rientrare in Iran: lo faceva regolarmente per rivedere la madre e la sorella, invitava i colleghi. «Anche se il caso di Ahmad è diverso da quello di Giulio Regeni - rileva Luca Ragazzoni il loro impegno nella ricerca rappresenta il cuore di questo lavoro. Abbiamo il dovere di difendere la libertà dei ricercatori». Una libertà che oggi ha il volto e la storia di Ahmadreza Djalali.

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