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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
09.01.2017 Iran: muore Rafsanjani, ma Farian Sabahi e Roberto Toscano ciurlano nel manico
da sempre schierati comunque dalla parte dell'Iran

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Farian Sabahi - Roberto Toscano
Titolo: «Era l'interlocutore perfetto per dialogare con Trump - E ora a Teheran aleggia l'incognita sul riformismo»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 09/01/2017, a pag. 11, con il titolo "Era l'interlocutore perfetto per dialogare con Trump", il commento di Farian Sabahi; dalla REPUBBLICA, a pag. 1-9, con il titolo "E ora a Teheran aleggia l'incognita sul riformismo", il commento di Roberto Toscano.
Seguono due nostri commenti.

Gli articoli di Farian Sabahi e Roberto Toscano descrivono come un "moderato" Rafsanjani, che di moderato non aveva proprio nulla, esattamente come l'attuale presidente iraniano Hassan Rohani. Così funziona la disinformazione filo-iraniana in Italia: sciacquare i panni sporchi degli ayatollah, ricordando ad ogni occasione le difficoltà del Paese "sotto le sanzioni" e "dimenticando" il sostegno al terrorismo internazionale, il negazionismo, i progetti nucleari e di distruzione di Israele, la situazione drammatica dei diritti umani e civili.

Ecco gli articoli:

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Ali Akbar Hashemi Rafsanjani

CORRIERE della SERA - Farian Sabahi: "Era l'interlocutore perfetto per dialogare con Trump"

La tecnica di Farian Sabahi è ben nota a chi si occupa di informazione sul Medio Oriente e ai dissidenti persiani: presentare una parte della dissidenza accettata dal regime degli ayatollah in modo da far apparire l'Iran teocratico come non troppo liberticida. La realtà, però, è differente. Farian Sabahi quando collaborava con La Stampa manipolò un'intervista a Abraham B. Yehoshua, il quale smentì con una lettera pubblicata sul quotidiano torinese. In quella circostanza Sabahi fu allontanata dalla Stampa.
Oggi collabora al Corriere della Sera e al Sole 24 Ore - evidentemente gode di buone entrature - propagandando l'immagine di un Iran moderato che è lontanissima dalla realtà: un "Iran-washing" con cui cerca di ripulire il regime degli ayatollah dai crimini che quotidianamente compie.
Informazione Corretta ha già denunciato più volte l'attività di Sabahi.
Per avere maggiori informazioni sul lavoro da lei svolto in Italia, è utile sentire l'opinione dell'opposizione iraniana in esilio nel nostro Paese.

Ecco l'articolo:

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Farian Sabahi

Rafsanjani era un re del business, la rivista statunitense Forbes lo aveva inserito nell’elenco degli uomini più ricchi al mondo (nel 2003) e per questo sarebbe stato l’interlocutore ideale per il presidente americano Donald Trump: miliardari prestati alla politica, alle spalle imperi economici gestiti dai clan famigliari. Rafsanjani proveniva da una famiglia di produttori di pistacchi della regione di Kerman. Il suo clan si arricchisce in prima battuta con il boom immobiliare degli anni Settanta. La Rivoluzione del 1979 permette a un fratello di mettere le mani sulla più importante miniera di rame, e a un altro di controllare la televisione di Stato. Un cognato si aggiudica la poltrona di governatore della provincia di Kerman. Altri parenti vengono nominati ai vertici del ministero del Petrolio. Un figlio si occupa del progetto di costruzione della metropolitana. Interessi nelle zone di libero scambio. Profitti stratosferici sui tassi di cambio. Capitali in Svizzera e Lussemburgo.

Terminata la guerra scatenata dal raìs iracheno Saddam Hussein, alla fine degli anni Ottanta Rafsanjani dà avvio alla fase di ricostruzione. L’austerità dell’Imam Khomeini viene messa da parte, con Rafsanjani alla presidenza l’arricchimento assume una valenza etica positiva giustificata dal fatto che i mercanti del bazar hanno contribuito alla rivoluzione, finanziando gli ayatollah. Una politica economica giudicata fin troppo liberale, con l’inflazione che sfiora il 40%. Negli anni l’impero di Rafsanjani attira le critiche dei suoi oppositori, anche perché nel 2009 il Padrino (così veniva soprannominato) prende le parti dei dissidenti del Movimento verde. In un sermone del 17 luglio sulla crisi politica Rafsanjani si sofferma sulla definizione di Repubblica islamica spiegando che l’aspetto islamico è fondamentale quanto quello repubblicano: se i cittadini non votano, il sistema non sta in piedi.

In clima di brogli, queste dichiarazioni non piacciono ad Ahmadinejad: due figli di Rafsanjani (il quartogenito Mehdi e la figlia Faezeh, simbolo dell’emancipazione femminile) finiscono in carcere. Pur essendo una figura di spicco dell’establishment religioso, Rafsanjani era un conservatore pragmatico deciso a migliorare i rapporti con l’Occidente. Anche con gli Stati Uniti, perché questo è nell’interesse dell’Iran dopo anni di sanzioni che hanno mandato i prezzi alle stelle e messo il Paese in ginocchio: l’unico modo per accontentare la popolazione è rilanciare l’economia attirando gli investimenti stranieri. E quindi rispettando l’accordo sul nucleare firmato a Vienna il 14 luglio 2015, di cui Rafsanjani fu tra i maggiori sostenitori.

LA REPUBBLICA - Roberto Toscano: "E ora a Teheran aleggia l'incognita sul riformismo"

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Roberto Toscano
 

CON Ali Akbar Hashemi Rafsanjani scompare uno dei massimi protagonisti della storia della Repubblica Islamica dell’Iran, ma quello che ci si chiede oggi è in che misura la sua morte possa influire sulla politica attuale. E più concretamente sulle sorti del progetto di riformismo moderato del presidente Rouhani. Rafsanjani, pur non avendo più un ruolo di vertice nella complessa struttura del potere, aveva mantenuto un’influenza non secondaria, soprattutto data l’esistenza di un diffuso “partito rafsanjanista” - un partito non palese ma influente e trasversale cui appartengono, nello stato e nella società, e in particolare nelle élites economiche, tutti coloro che, pur sostanzialmente identificati con il regime nato dalla rivoluzione del 1979, sono convinti che la Repubblica Islamica potrà sopravvivere alle sfide sia interne che internazionali soltanto con il cambiamento e l’apertura al mondo. In sostanza, si tratta del partito che, spesso con echi gattopardeschi, pensa che il cambiamento nel regime sia l’unico modo di evitare il cambiamento di regime, anzi il rischio di un suo traumatico crollo. I riformisti più radicali non hanno mai amato Rafsanjani, ma hanno compreso a loro spese che senza il suo sostegno, e il sostegno delle forze reali che a lui hanno sempre fatto riferimento, il loro progetto di riforma non aveva alcuna possibilità di prevalere.

Quando si analizzano le ragioni del sostanziale fallimento del progetto riformista di Khatami salta agli occhi che uno degli errori più fatali fu respingere l’offerta di appoggio di Rafsanjani. In quel momento sembrava ai riformisti che allearsi con lui avrebbe significato svuotare la spinta innovativa del loro disegno. Era probabilmente vero, ma era anche vero che ben presto divennero evidenti i fatali limiti di un riformismo nobile e autentico ma molto ideologico e non sufficientemente radicato nelle classi dirigenti soprattutto economiche. C’è molto di Rafsanjani dietro l’attuale presidenza Rouhani, e la sua scomparsa quindi solleva interrogativi sulla tenuta del progetto politico, reso oggi fragile sia dalla delusione per i risultati dell’accordo nucleare, meno sostanziali di quanto sperato, sia dal probabile peggioramento della situazione internazionale dell’Iran a seguito dell’elezione di Donald Trump.

Per l’ala più conservatrice (ma forse sarebbe più corretto definirla reazionaria) del regime Rafsanjani era il nemico numero uno e anzi, l’elezione alla presidenza di Ahmadinejad nel 2005 si spiega in buona parte con la mobilitazione di un forte rigetto popolare contro uno storico dirigente rivoluzionario che era denunciato come l’incarnazione del potere elitario e plutocratico, nonché rappresentante di un clero nei confronti del cui privilegio anche gli iraniani più religiosi hanno da tempo sviluppato un atteggiamento di vera e propria ostilità. Sempre pronto, con più opportunismo che dogmatismo, a cogliere gli umori del Paese, il Leader Supremo Khamenei ha non solo recepito questi umori popolari, ma li ha addirittura favoriti promuovendo l’improbabile Ahmadinejad – per poi praticamente esautorarlo quando si rivelarono i danni che la sua gestione demagogica della presidenza stava causando. Pur sconfitto politicamente, Rafsanjani aveva comunque continuato ad essere un protagonista, per quanto ormai occulto, della vicenda iraniana. Per questo la sua morte, oggi, non è affatto quella di un ex protagonista, ma rappresenta un fatto politicamente molto rilevante le cui ripercussioni, probabilmente nel senso di un ulteriore indebolimento di Rouhani, diventeranno evidenti nei prossimi mesi. Non è nemmeno escluso che a questo punto Khamenei possa arrivare alla conclusione che è venuto il momento di mettere fine, come avvenuto per Khatami e Ahmadinejad, alla fase politica che si è tradotta nella sua presidenza. I presidenti passano, il regime resta.

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