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Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 20/05/2016, a pag. 9, con il titolo "L'ipotesi della bomba a bordo: 'Un complice nello scalo francese' ", il commento di Giordano Stabile; da LIBERO, a pag. 11, con il titolo "Si possono prevenire gli attacchi, basta utilizzare il metodo israeliano", il commento di Carlo Panella, attualmente in Israele. L'Egitto è sotto attacco, il terrorismo islamico continua a colpire il turismo per minare l'economia del Paese. Dietro c'è evidentemente il tentativo dei Fratelli musulmani di tornare al potere, dopo esserne stati estromessi da Al Sisi. Ma l'Egitto di Al Sisi è la garanzia dell'accordo di pace con Israele e del contenimento della Fratellanza musulmana, un movimento che vuole la ricostituzione del Califfato e l'imposizione universale della sharia, la legge religiosa islamica. I Paesi occidentali e in particolare l'Italia, anche per evidenti responsabilità dei media, hanno strumentalizzato la morte di Giulio Regeni - un caso ancora da chiarire - facendone un'arma per attaccare e isolare il regime del Cairo. Informazione Corretta si schiera a difesa del governo di Al Sisi: non perché sia un governo libero e democratico - non lo è - ma perché è il governo meno peggiore che l'Egitto può avere in questo momento e l'unica reale alternativa al fanatismo islamista della Fratellanza. Ricordiamo che in nessuno dei 35 Paesi musulmani esiste una democrazia autentica, una forma di governo che appare incompatibile con la declinazione politica dell'islam (che è esattamente quello che fa la Fratellanza). Ecco gli articoli: LA STAMPA - Giordano Stabile: "L'ipotesi della bomba a bordo: 'Un complice nello scalo francese' "
Una bomba caricata a bordo a Parigi, con la complicità di un dipendente dell’aeroporto Charles de Gaulle o della compagnia Egyptair. LIBERO - Carlo Panella: "Si possono prevenire gli attacchi, basta utilizzare il metodo israeliano"
L'analisi delle caratteristiche dell'Isis in Egitto che mi fornisce «Ron», anonimo portavoce del Military Intelligence Corp, che mi riceve nel Quartier Generale delle forze armate di Israele, porta a conclusioni interessanti, che indicano che la responsabilità dell'esplosione sopra il cielo di Karpathos, non va fatta risalire probabilmente all'Isis egiziano, ma a quello che opera in Libia. Non c'è dubbio infatti che l'Airbus russo sia esploso il 31 ottobre scorso sul Sinai grazie a un ordigno imbarcato a Sharm El Sheik dall'Isis. Ma è difficile raccordare le caratteristiche dell'Isis in Egitto, che è radicato solo nel Sinai, con quelle di un'organizzazione in grado di posizionare una bomba o un Kamikaze a Parigi o altrove. «L'Isis nel Sinai - mi spiega Ron - è una organizzazione "glocal". "Local", perché è formata da beduini, ben radicati sul territorio e tra la popolazione, "global" per il richiamo al Califfato universale. È tanto "local" che i suoi singoli clan operano per comparti, è difficile che membri di un clan beduino collaborino con altri clan in un'azione». Dunque, è facile immaginare come abbiano fatto a convincere uno dei tanti beduini che lavorano nell'aeroporto di Sharm El Sheik a posizionare l'esplosivo sull'aereo russo. Ma ora, come hanno fatto questi beduini dell'Isis, così "local" a operare persino a Parigi? D'altronde, in Egitto, l'Isis agisce esclusivamente nel Sinai. Non al Cairo. Dunque, si apre un'inquietante pista. Che cioè l'attentato sia stato organizzato dal più vicino raccordo dell'Isis egiziana, del Sinai, dall'Isis che opera in Libia. Una risposta, una ritorsione, contro l'offensiva militare che l'Egitto sta operando contro Sirte, tramite l'esercito di Khalifa Haftar, che agisce in nome e per conto del presidente Abdelfattah al Sisi. Come Ron, anche Shmuel Zakay, ex generale di brigata, con grande esperienza in guerra e nell'antiterrorismo, direttore dell'Israel Airport Authority, responsabile plenipotenziario e operativo della sicurezza dell'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, mi risponde che «è troppo presto per avere certezze sull'esplosione dell'aereo dell'Egypt Air». Poi aggiunge: «Ad un aereo della nostra compagnia area, la El Al, non potrebbe mai accadere un'esplosione a bordo», ma subito accompagna questa sua affermazione con un energico colpo di nocche sulla scrivania (in Israele, come altrove, lo scongiuro si fa toccando il legno, non il ferro), segno di un auspicio, non di una certezza assoluta. Poi specifica: «Un attentato a bordo è il nostro principale incubo, per questo i nostri aerei sono sempre ispezionati palmo palmo e se sono fermi in sosta all'estero, anche per due giorni, sono chiusi ermeticamente e sorvegliati a vista». I passeggeri invece - come ben sa chi viaggia in Israele - non solo hanno i bagagli controllati da strumenti ben più raffinati di quelli in uso negli altri aeroporti, ma sono anche sottoposti a una serie di domande, a volte sorprendenti come «lei ha armi o esplosivi?» La ragione di questa domanda - apparentemente assurda - è semplice: «Noi conosciamo personalmente ogni passeggero, lo valutiamo; la short interview ci permette di valutare non tanto le parole delle risposte, ma il linguaggio del corpo che i nostri addetti sanno interpretare attraverso i movimenti degli occhi, delle mani, i tic eventuali, il nervosismo appena percettibile di chi ha qualcosa da nascondere». Certo, Israele ha solo un aeroporto internazionale da difendere e solo 47 vettori civili. Ma sta di fatto che, dopo la strage di Lod del 1972, ha prevenuto ogni attacco, a terra o in aria. Questo, grazie a un sistema complesso, basato sulla priorità assoluta dell'obbiettivo di garantire la sicurezza dell'aria, assegnandola a terra a un'organizzazione, la Israel Airport Authority, che presidia capillarmente l'aeroporto con consistenti forze di sicurezza autonome, ben armate e addestrate (la polizia ha autorità e può intervenire solo all'esterno dell'aeroporto). Un modello che dovrebbe essere imitato. Per inviare la propria opinione ai quotidiani, telefonare: direttore@lastampa.it lettere@liberoquotidiano.it |
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