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Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 20/04/2015, a pag. 14, con il titolo "L'addio al rabbino Toaff: accolse Wojtyla in sinagoga", il commento di Elena Loewenthal; dalla REPUBBLICA, a pag. 44-45, con il titolo "Toaff, il rabbino della rivoluzione con il sorriso", il commento di Susanna Nirenstein. Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Elena Loewenthal: "L'addio al rabbino Toaff: accolse Wojtyla in sinagoga"
La sua voce diceva molto di lui: era nitida e dolce, scandiva le parole in un amabile accento toscano appena lambito dalle tante vicissitudini di una vita sempre vissuta nella sua pienezza. Come in fondo impone l’identità ebraica, senza mai rinunciare alla complessità, all’impegno. Con Elio Toaff, che il prossimo trenta aprile avrebbe compiuto un secolo, se ne va la figura più rappresentativa e al tempo stesso più unica del mondo ebraico italiano.
LA REPUBBLICA - Susanna Nirenstein: "Toaff, il rabbino della rivoluzione con il sorriso"
Elio Toaff è stato un uomo “straordinario”, il rabbino capo di Roma che ha disegnato e tessuto con Giovanni Paolo II la prima visita di un Papa in una sinagoga: nel 1986, il pontefice davanti all ’ aron, l’armadio dei testi sacri, chiamò gli ebrei “fratelli maggiori” e abbracciò rav Toaff con calore. Intorno un applauso assordante. Senz’altro fu questo il capolavoro di Toaff, preparare con pazienza, dignità, fermezza, il rapporto con il Vaticano e riscuoterne stima e rispetto, «chiudendo definitivamente duemila anni di incomprensione e sofferenza». Più tardi, nel ‘93, la Santa Sede, su questa scia, riconobbe Israele, Wojtyla andò al Muro del Pianto, chiese perdono per le secolari persecuzioni antisemite della Chiesa. Fu una rivoluzione innestata da Toaff. Ma se questi furono i suoi “momenti perfetti”, Elio Toaff, scomparso ieri sera alla fantastica età di quasi 100 anni – li avrebbe compiuti tra dieci giorni – ha attraversato tutta la drammaticità e i cambiamenti del Novecento con uguale coraggio, forza, cultura. E anche con un’enorme benevolenza, apertura, poesia. Sempre pronto tanto a un sorriso, a guardarti disponibile con i suoi occhi a mandorla luminosi, quanto a tenere fermo il punto o a pronunciare una frase schietta che tu certo, no, non ti aspettavi. Come ricordare mentre si costituiva la commissione pontificia per il riconoscimento dello Stato ebraico, con lo sguardo un po’ beffardo un episodio del ‘48, quando un prelato gli disse «È stato un brutto tiro chiamare Israele il vostro Stato, perché Israele siamo noi!». Oppure descriversi durante l’incontro col Papa in sinagoga «emozionatissimo », «impacciato», con una domanda fissa in gola «Farò bene? Farò male?». Era così, diretto, sdrammatizzante, tenace, con pochi infingimenti nonostante il ruolo, e spiritoso. Davvero Toaff preferiva sempre finire un discorso con una battuta, e ci rideva sopra. Un’arte che sicuramente aveva imparato nella mordace Livorno, dove era nato il 30 aprile del 1915 – e dove domani ci saranno i funerali – da Alice Jarach e il rabbino capo Alfredo Sabato Toaff, grecista e a sua volta allievo del grande rabbino Benamozegh (e di Pascoli!). Il padre non voleva che Elio percorresse la sua stessa strada, ma le cose andarono diversamente: dopo essersi laureato in Giurisprudenza nel ‘39 (per il rotto della cuffia perché nel 1938 c’erano state le Leggi Razziali e a Pisa non trovava un relatore per la tesi finché il professor Mossa lo salvò), completò gli studi rabbinici e, nel 1941, prese in carico la Comunità di Ancona. Ve- ramente in casa si discusse molto se andare nella Terra Promessa, dove emigrarono invece i suoi fratelli Cesare e Renzo, ma «un rabbino non lascia la sua gente» si disse in famiglia. E così fu. Nel frattempo era scoppiata la guerra. Elio Toaff era ad Ancona, con la moglie Lia Liperini e il piccolo Ariel. Sotto le leggi razziali la situazione non era certo entusiasmante, una volta lo cacciarono con la forza da un ospedale dove voleva visitare un malato: ci tornò con i carabinieri; e poi c’era qualche correligionario che voleva convertirsi al cristianesimo sperando di salvarsi dalla persecuzione: il rabbino riusciva sempre a fermarli. All’arrivo dei tedeschi, chiuse la sinagoga, e come gli altri ebrei, dopo aver spedito molti dei bambini della comunità su una barca verso il sud già liberato, si nascose. Fu poco dopo che vide la morte in faccia. Scampò coi genitori in Versilia, alle Focette dove si ricorda di essersi quasi imposto ai vicini di casa che ascoltavano Radio Londra e scoppiò in un pianto di gioia il giorno della liberazione di Roma. In un secondo tempo si rifugiarono a Val di Castello: don Francalanci li accolse in chiesa, ma un giorno le SS lo catturano, lo picchiano, lo costringono a scavarsi una fossa insieme ad altri sei compagni di sventura. Per caso il capitano scambia con lui che prega qualche parola in francese, lo fa uscire dalla buca e, mentre gli altri vengono uccisi, gli indica una via di fuga. Potere del destino, o della preghiera, diceva lui. Entra nella lotta partigiana, con Giustizia e Libertà, ed è durante una perlustrazione che si imbatte nel male assoluto: entra a Sant’Anna di Stazzema poco dopo l’uscita dei tedeschi, «la scena è spettrale, sulla piazza c’erano più di cinquecento morti ammassati e bruciati, in un capanno una donna ammazzata riversa sul tavolo: era incinta, sventrata, il feto strappato per terra». Immagini che l’hanno perseguitato per tutta la vita. Fu da quel momento che capì cos’era il nazismo, «odio puro che conduceva all’annientamento del diverso da te». Mentre, nel dopoguerra, era rabbino a Venezia, una comunità che gli fu molto cara per la sua vivacità intellettuale, vide un carrarmato tedesco abbandonato e insieme agli altri ebrei, riuscì non si sa come ad inviarlo al neonato Stato di Israele, dove tre dei suoi quattro figli sono andati a vivere. Poi, nel ’51, fu la volta di Roma, rabbino capo per 50 anni: un’impresa difficile anche quella, perché la comunità ferita dalla guerra, distrutta dalla razzia del nazista al ghetto del 16 ottobre, con i suoi 2091 ebrei rastrellati, era nella miseria nera, scioccata. «Lavorando sodo siamo cresciuti e abbiamo iniziato a camminare» riassumeva col suo solito temperamento positivo, mentre continuava a ricostruire l’ebraismo italiano. Pacato, sorridente, deciso. Amatissimo dagli ebrei. «Un gigante della storia», lo ha definito ieri il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici. Capace di parlare agli altri. «Un grandissimo italiano», ha twittato il premier Renzi. Certo, i 50 anni di rabbino capo, chiusi con le sue dimissioni nel 2001, furono anche seminati di ostacoli. Se, dapprima, in una società che non voleva avere nessu- na consapevolezza della Shoah, gli ebrei erano un corpo separato e sfrangiato, lui li nutrì di fede e dignità; col ’67 e la guerra dei Sei Giorni, mentre intorno cresceva una simpatia per i palestinesi e di criminalizzazione di Israele, nacque un clima antisemita che ebbe il suo culmine nel 1982, durante la guerra di Israele nel Libano: un corteo sindacale lasciò una bara sotto la lapide alla memoria degli ebrei sterminati davanti al tempio; nello stesso anno, il 9 ottobre, un attentato palestinese colpì chi stava uscendo dalla sinagoga uccidendo il piccolo Stefano Taché e ferendo 40 persone. Fu allora che Toaff denunciò il «vento dell’odio » e disse al presidente Pertini tutto il suo scandalo per quel clima antiebraico che nessuno fermava. Per Toaff difendere Israele – che pure ogni tanto criticava – era fondamentale. «Gli ebrei piacciono solo quando sono vittime» diceva. Dall’altra parte progrediva il dialogo con la Chiesa. Dopo una se- rie di incontri in cui iniziò un vero dialogo, durante il pontificato di Paolo VI, la svolta definitiva di papa Wojtyla. E il proseguimento del cammino per fare dell’ebraismo una componente rilevante, con tenacia. Sembra ancora di vederlo nel suo studio che guarda i vetri colorati della sinagoga, Elio Toaff, con quel sorriso sereno, intelligente, gli occhi tagliati in su, stretti fino a diventare una linea di sapere e disincanto. Per inviare la propria opinione ai quotidiani, telefonare: lettere@lastampa.it rubrica.lettere@repubblica.it |
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