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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Sole 24 Ore - La Repubblica Rassegna Stampa
01.04.2015 'Business is business' trionfa: Confindustria spinge per un accordo con Teheran
Se lo augura Alberto Negri, mentre Bernardo Valli comincia a dubitare

Testata:Il Sole 24 Ore - La Repubblica
Autore: Alberto Negri - Bernardo Valli
Titolo: «Partita doppia di Washington tra Riad e Teheran - Ma dietro gli ayatollah resta un enigma che allarma tutto il mondo arabo»

Riprendiamo dal SOLE 24 ORE, a pag. 1-17, con il titolo "Partita doppia di Washington tra Riad e Teheran", il commento di Alberto Negri; da REPUBBLICA, a pag. 1-3, con il titolo "Ma dietro gli ayatollah resta un enigma che allarma tutto il mondo arabo", l'analisi di Bernardo Valli.

Ecco gli articoli:


Continuano i negoziati. Nel frattempo...

IL SOLE 24 ORE - Alberto Negri: "Partita doppia di Washington tra Riad e Teheran"

Anche oggi il Sole è il quotidiano che più di tutti, in Italia, spinge la trattativa tra Usa e Iran. Negri rende chiari i motivi di questa presa di posizione: gli interessi commerciali, coltivati in primo luogo da Confindustria.
Ancora una volta, la logica del "business is business" prevale sulle pagine del Sole, mentre vengono sistematicamente taciuti i pericoli di un Iran nucleare per i Paesi arabi circostanti, Israele e l'Occidente.

Ecco il pezzo:

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Alberto Negri

L'accordo sul nucleare che si negozia a Losanna è uno storico compromesso tra l'Iran e gli Stati Uniti. «Due Stati che possono comportarsi in modo tale da non spendere la propria energia l'uno contro l'altro». Lo diceva qualche settimana fa a Teheran l'ammiraglio Ali Shamkani, capo del Consiglio nazionale per la sicurezza: se Washington e Teheran fossero arrivati prima a questa conclusione l'Iraq, la Siria, l'Afghanistan, forse non sarebbero oggi in una situazione così tragica e magari anche Israele e l'Arabia Saudita avrebbero meno timori dell'accordo di Losanna.

Per 35 anni, da quel fatale 4 novembre 1979 quando gli studenti rivoluzionari sequestrarono 66 ostaggi nell'ambasciata americana di Teheran, Usa e Iran hanno rotto le relazioni diplomatiche facendo finta non parlarsi anche quando negoziavano in segreto le trame più oscure. Come testimonia una Bibbia regalata dal presidente Ronald Reagan, che mostra nel suo studio il potente Hashemi Rafsanjani. Gli fu consegnata nel 1986 dal Colonnello Oliver North incaricato di vendere armi a Teheran, allora in guerra con l'Iraq di Saddam Hussein: l'incasso sarebbe andato ai controrivoluzionari del Nicaragua. Tramite un canale israeliano, le armi furono puntualmente consegnate all'Iran. Era il famoso scandalo Irangate, prova dell'ambiguità e della complessità delle relazioni tra Washington e Teheran.

Questa non è soltanto storia ma anche bruciante attualità. Gli Stati Uniti negli Anni 80 sostenevano l'Iraq secolarista di Saddam ma aiutavano anche Teheran per evitare che nessuno uscisse vincitore dalla guerra: era il ben noto "doppio contenimento". Una strategia ancora viva oggi: gli Usa parteggiano per l'Arabia Saudita e la coalizione araba in Yemen ma negoziano con l'Iran che a sua volta appoggia i ribelli Houthi. Washington vuole bilanciare le forze tra la mezzaluna sunnita e quella sciita che combatte sul terreno in Iraq contro il Califfato. Entrambe servono alla causa americana.

Israele questo non lo digerisce perché teme non soltanto una possibile atomica dell'Iran ma soprattutto la sua influenza ai confini che si fa sentire in Libano con gli Hezbollah, nel sostegno alla Siria di Assad e nei rapporti con Hamas. Le occasioni tra Usa e Iran per ristabilire rapporti normali sono state numerose e alcune di grande peso, anche economico, perché l'Iran, per riserve, è il quarto Paese al mondo nel petrolio e il secondo nel gas. L'ex presidenre Rafsanjani assegnò nel '94 la prima concessione petrolifera mai accordata a degli stranieri dopo la rivoluzione all'americana Conoco ma su pressione di Israele Clinton stracciò il contratto e proibì gli scambi con Teheran.

Iraniani e americani provarono ancora a collaborare con la guerra in Afghanistan del 2001: andò bene, con la nomina di Hamid Karzai, ma poco dopo George Bush jr. inserì l'Iran nell" 'asse del male" insieme a Iraq e Corea del Nord. Il moderato presidente Mohammed Khatami nel 2003 fece ancora di più: sottopose a Washington, in cambio della fine delle sanzioni, un negoziato che comprendeva la trasparenza sul programma nucleare, il disarmo degli Hezbollah e il riconoscimento indiretto di Israele. Ma gli Usa respinsero l'offerta e i duri del regime si convinsero che gli Stati Uniti volessero rovesciare il regime: l'ascesa alla presidenza del radicale Mahmoud Ahmadinejad deve molto a quel rifiuto. Ecco perché di questo storico compromesso oggi non ha soltanto bisogno l'Iran per uscire dalla crisi economica e dalle sanzioni ma tutta la comunità internazionale.

LA REPUBBLICA - Bernardo Valli: "Ma dietro gli ayatollah resta un enigma che allarma tutto il mondo arabo"

L'articolo di Bernardo Valli di oggi pecca di ambiguità: il giornalista, che in altre occasione si era schierato senza remore a favore di un accordo con il regime iraniano, oggi mette in evidenza i rischi che l' accordo comporterà. Concludendo, però, ribadisce la sua vecchia posizione e confessa di vedere di buon occhio la fine delle sanzioni che consentirà a Teheran di proseguire quasi indisturbata nell'arricchimento dell'uranio.
Inoltre Valli, parlando delle mire imperiali dell'Iran su tutto il Medio Oriente, cita Hezbollah, definendola un "alleato molto dinamico". Forse voleva dire "terrorista", la parola gli sarà rimasta nella penna. Come sempre.
Anche la GAZZETTA dello SPORT oggi pubblica un articolo ambiguo sulle trattative di Losanna, firmato da Giorgio Dell'Arti. Non lo riprendiamo, ma per lui valgono critiche simili a quelle che muoviamo a Valli

Ecco il pezzo:

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Bernardo Valli                Giorgio Dell'Arti

All'Iran degli ayatollah che in queste ore tenta di rientrare in società vanno riconosciute due invenzioni tra le più singolari dei nostri tempi: la rivoluzione a ritroso e l’unità, meglio la simbiosi, tra Islam e politica. La Storia può obiettare che si tratta non tanto di idee nuove, ma di riesumazioni. Ma per noi, adagiati nella nozione di progresso, fece un certo effetto la rivoluzione islamica di Khomeini che trentacinque anni fa, nel 1979, ricondusse la nobile Persia alle leggi coraniche risalenti al millennio precedente. Nei nostri ricordi le rivoluzioni, anche se disastrose, proponevano o imponevano, di solito, innovazioni. La presa diretta del potere da parte dei religiosi sciiti, per secoli contrari ad assumerlo, dopo che un loro imam giovinetto si era nascosto e mai ritrovato, produsse invece un forte effetto nel mondo musulmano. Pur avendo profonde radici nella storia della loro religione, gli islamisti di oggi sono stati risvegliati e affascinati dall’avvento degli ayatollah al governo dell’Iran.

I nazionalismi postcoloniali, ricalcati sullo statalismo sovietico, furono ripudiati, anche perché sconfitti. La grande Persia non cessa di stupirci. Trasse in inganno perfino un noto filosofo. Michel Foucault, alla vigilia della loro presa del potere, dopo lunghi dialoghi con gli ayatollah, disse e scrisse che non avrebbero mai accettato di governare. Foucault fu sedotto, e in parte anche noi semplici cronisti, da chierici che parlavano di Spinoza e di Heidegger, ben inteso spesso per criticarli. Quegli stessi religiosi, oltre a compiere una rivoluzione a ritroso e a rifarsi ai principi coranici di circa un millennio e mezzo fa rivendicano da anni il diritto di avere la più avanzata e la più rischiosa tecnologia: quella nucleare. Avendo seguito spesso da vicino alcuni grandi avvenimenti iraniani degli ultimi decenni, mi è capitato di avere sentimenti contraddittori.

Non poteva non indignarmi la prima brutale fase della presa del potere di Khomeini. Ho al contrario ammirato la coraggiosa difesa del paese negli otto anni di guerra con l’Iraq di Saddam Hussein, alla quale parteciparono anche gli esuli politici ritornati in patria. Mi ha incuriosito la società iraniana, in particolare quella di Teheran, quando si è dimostrata capace di vivere con un non tanto vago sarcasmo i lugubri, cupi momenti della dittatura religiosa. I sussulti democratici non potevano che esaltarmi. Al contrario ho trovato inaccettabile il linguaggio degli ayatollah che addirittura invocavano la distruzione di Israele.

Ci si può fidare degli ayatollah? Il mondo è diviso. Nella stessa America, diventata subito il “grande Satana” per la Teheran dei chierici, il Congresso, dove dominano i repubblicani, è in favore di più severe sanzioni all’Iran; mentre la Casa Bianca, democratica, è incline a un’intesa, sia pure con tutte le precauzioni. La diplomazia internazionale si è prodigata nel mandare avanti un negoziato in cui non mancavano e non mancano le trappole. Il mondo musulmano è in grande allarme. Quello sunnita, il più numeroso, teme che una volta riammesso nella società internazionale, con l’aureola di potenza nucleare (al momento pacifica), l’Iran possa usufruire di un sempre più forte prestigio.

E’ già presente nelle aree più agitate del Medio Oriente. In Libano ha alleati molto dinamici: gli Hezbollah. A Damasco contribuisce a tenere in piedi il despota Bashar el As- sad. A Bagdad governano gli sciiti, fratelli nella religione ma non sempre come arabi. E sono le milizie sciite, spesso inquadrate da graduati iraniani, che costituiscono la fanteria (insieme ai curdi) sulla quale contano gli aerei della coalizione creata dagli americani, di cui fanno parte numerosi paesi occidentali e arabi. Tutti impegnati contro lo “Stato islamico”, in Iraq e in Siria, ma non disposti a combattere a terra.

L’Arabia Saudita partecipa alla coalizione aerea contro lo “Stato islamico”, e quindi usufruisce della fanteria sciita, ma al tempo stesso combatte gli sciiti che hanno preso il potere nel vicino Yemen. Non solo, insieme all’Egitto e agli altri paesi della Lega araba, ha appena deciso di creare una forza sunnita di quarantamila uomini chiaramente rivolta contro l’Iran sciita. In quanto a Israele togliere le sanzioni a Teheran non è un errore, ma un crimine. Per Netanyahu l’Iran costituisce la più immediata minaccia per lo Stato ebraico. In questo Israele è lo stretto, obiettivo alleato dell’Arabia Saudita. Per entrambi i paesi l’amica America compie un grave errore se vuole veramente recuperare gli ayatollah. Nel Medio Oriente in preda al caos: in cui i nemici diventano alleati e gli alleati nemici se si cambia campo di battaglia: l’Iran promosso a interlocutore della superpotenza suscita il panico.

Per chi è fedele al principio che la parola è più civile del fucile, e che un’intesa sia pure faticosa è più auspicabile di una guerra sia pure soltanto minacciata, la posizione di Barack Obama è condivisibile. Lo è senz’altro per noi. Il trionfo della diplomazia vale più di cento battaglie vinte. Ma la contabilità nucleare è un esercizio rischioso. Gli sbagli col tempo si pagano. Ed è facile sbagliare se gli interlocutori non si distinguono spesso per la chiarezza. Il leader supremo, l’ayatollah Khamenei, è un enigma. Forse lo è anche per coloro che lo rappresentano al tavolo dei negoziati, con gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, la Francia, l’Inghilterra e la Germania. Fin dall’inizio del difficile dialogo l’Iran ha chiesto l’arresto immediato delle sanzioni, che colpiscono la vendita del petrolio e le banche, ossia il commercio estero principale risorsa del paese. Gli occidentali hanno sempre insistito per ridurre le sanzioni a tappe, via via che venivano rispettati i termini dell’accordo.

La durata di quest’ultimo era un altro vistoso ostacolo. Quindici anni dicevano gli americani, nove - dieci anni gli iraniani. Il numero delle centrifughe, grazie alle quali si arricchisce l’uranio, è da tempo un irrisolvibile rompicapo. Non sono sempre uguali, Alcune sono più rapide e possono accelerare l’eventuale realizzazione di una bomba atomica. Nove mesi invece di un anno? O ancor meno? La contabilità delle centrifughe è dunque essenziale: è strettamente legata alla credibilità degli iraniani che giurano da tempo di voler utilizzare le centrali nucleari soltanto per fare medicinali e non missili. Una soluzione sarebbe di mandare l’uranio arricchito iraniano, essenziale per le armi, in un paese terzo. Ad esempio la Russia. Ma i negoziatori dell’ayatollah Khamenei, successore di Khomeini non ci pensano neppure. Ai tempi della rivoluzione, trentacinque anni fa, si discuteva se nei caricatori dei fucili automatici della polizia incaricata di affrontare i manifestanti dovevano esserci più cartucce vere o di legno. Carter, allora presidente degli Stati Uniti, consigliava lo scià Reza Pahlevi di preferire le seconde, quelle di legno. E cosi Khomeini vinse. Forse avrebbe vinto lo stesso.

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