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Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, a pag. 7, con il titolo "L'emiro senza volto che tiene unito il network del terrore islamista", l'analisi di Maurizio Molinari; dal FOGLIO, a pag. III, con il titolo "Perché i jihadisti non tollerano la democrazia araba in Tunisia (e in Marocco)", l'analisi di Carlo Panella; dal CORRIERE della SERA, a pag. 13, con il titolo "La debolezza delle élite arabe", l'intervista di Stefano Montefiori a Kamel Daoud, scrittore algrerino minacciato di morte dai terroristi islamici. Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Maurizio Molinari: "L'emiro senza volto che tiene unito il network del terrore islamista"
L’attacco al museo Bardo di Tunisi nasce dalla galassia jihadista maghrebina che ha molte diramazioni e annovera un super-terrorista senza volto meglio noto come «l’Emiro dei kamikaze», che si troverebbe in Libia. La pista che porta a Tariq Al Harzi, questo il nome dell’«Emiro», attraversa il network islamista che dal Nordafrica raggiunge i territori del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi in Siria e Iraq, articolandosi in cellule e gruppi con fedeltà differenti, spesso in competizione fra loro nella guida della «Jihad Globale». IL FOGLIO - Carlo Panella: "Perché i jihadisti non tollerano la democrazia araba in Tunisia (e in Marocco)"
Roma. Marocco e Tunisia sono gli unici due paesi arabi in cui la lotta, durissima, contro il terrorismo jihadista è condotta da governi e parlamenti democratici. Il governo marocchino si è consolidato in una democrazia nascente, ma robusta, mentre il governo tunisino fa i primi passi sulla strada della democrazia rappresentativa, dopo che la forte presenza di forze laiche ha neutralizzato la spinta eversiva islamista dei Fratelli musulmani di Ennahda. Come si sa, la Tunisia è l’unico paese in cui una primavera araba – che là è nata – non ha avuto sbocchi drammatici (Siria, Libia, Yemen) o autoritari (Egitto), ma si è incanalata in una dinamica democratica. Il Marocco, invece, e non a caso, è l’unico paese arabo immune alle “primavere”, un record assoluto, che ha una ragione interessante: la rappresentanza politica e sociale ha funzionato e ha incanalato le spinte ribelli e riformatrici nei canali di istituzioni operative. Indagare oggi su questa positiva anomalia dei due paesi arabi è non solo utile, ma indispensabile. Innanzitutto per appoggiare i due unici sistemi-paese arabi in grado di contrastare il terrorismo jihadista con la determinazione e l’efficacia strategica che solo le democrazie garantiscono. Ma anche per uscire dalle sterili secche del dibattito su “islam e democrazia”, evitando la Scilla dei negazionisti alla Magdi Allam e l’ancor più pericolosa Cariddi del politically correct che ne attesta la compatibilità a prescindere, per volontarismo astratto. Sul piano politico, i due paesi hanno oggi un assetto democratico perché dagli anni Cinquanta sono stati gli unici che – invisi alla sinistra comunista e terzomondista europea, che li considerava “lacchè dell’imperialismo” – hanno combattuto il contagio nasseriano e panarabista. Rifiuto militante, sì che Habib Bourguiba e il re del Marocco Muhammed V, d’intesa, tentarono in tutti i modi di contrastare l’ascesa sanguinaria del nasseriano Fnl algerino, favorendo l’opposizione anticoloniale moderata del Movimento nazionale algerino di Ahmed Messali e di Ferat Abbas, purtroppo eliminati manu militari dal Fnl con non meno di 12 mila morti. Il rifiuto del nasserismo era a tutto campo, a partire dallo strategico riconoscimento arabo dell’esistenza dello stato di Israele che con straordinario coraggio Bourguiba propose il 30 marzo 1965, confliggendo così con l’essenza del nasserismo: il jihad per l’eliminazione di Israele (il Marocco riconosce Israele dal 1994). Ma sia Bourguiba sia i re (sultani) marocchini hanno consolidato le fondamenta della democrazia su un più profondo terreno: sono andati controcorrente rispetto alla riforma shariatica tradizionalista delle Costituzioni arabe iniziata negli anni 70 (con abbandono dei codici ereditati dai protettorati europei) e hanno riformato in senso paritario i Codici di Famiglia. Precursore fu Bourguiba che nel 1956 affidò al grande e popolare giureconsulto musulmano Tahir al Haddad l’incarico di riformare il diritto di famiglia, abolendo le prescrizioni shariatiche tradizionali, ma sempre nel rispetto, modernizzante, del Fiqh, il diritto islamico. Nel 2004 il re del Marocco compì la stessa riforma, interna al contesto islamico, imponendo – quale discendente diretto del Profeta – a un Parlamento riottoso, la Moudawana, il nuovo diritto di famiglia. Eliminato così dal nucleo famigliare (in principio, la prassi si consolida con lentezza) il criterio di sopraffazione violenta (jihadista) del maschio sulla donna, parificati i diritti di uomo e donna, abolita la poligamia e il ripudio, in Tunisia e Marocco si sono consolidate società plasmate sul loro nucleo basilare – la famiglia – in grado di costruire rapporti di democrazia sostanziale, che non si esaurisce nel principio del voto universale e del check and balance istituzionale. Sommate a una alfabetizzazione di massa (carente negli altri paesi arabi, Egitto in testa), quelle riforme hanno plasmato gli unici paesi arabi con dinamiche riformatrici. Questa è la base reale delle due sole democrazie arabe che combattono il terrorismo jihadista. CORRIERE della SERA - Stefano Montefiori: "La debolezza delle élite arabe" Le parole di Daoud sono di buon auspicio, ma rientrano nella categoria del wishful thinking, ovvero di quella riflessione conciliante che non fa i conti con la realtà nei suoi aspetti più duri. Ci auguriamo che lo scrittore algerino abbia ragione, ma l'estremismo islamico è molto più radicato nell'universo musulmano di quanto le dichiarazioni di Daoud lascino supporre. Ecco il pezzo:
Kamel Daoud, 44 anni, è un giornalista e scrittore algerino che è arrivato in finale all’ultimo prix Goncourt con lo straordinario Meursault, contre-enquête (Actus-Sud, in Italia sarà pubblicato a inizio 2016 da Bompiani), omaggio allo Straniero di Camus, nel quale il narratore è il fratello dell’«Arabo» ucciso da Meursault. Possiamo applicare la nozione di «assurdo» di Camus a quello che stiamo vivendo in questi giorni? «Mi pare di sì, la grande differenza dipende da come ci poniamo di fronte all’assurdo. I jihadisti pensano di detenere la verità sul mondo, credono di possedere il senso delle cose, e finiscono per uccidere degli innocenti, cadono nell’assurdo. Noi che accettiamo l’assurdità del mondo, che la verità non la possediamo ma la cerchiamo, partiamo dall’assurdo e finiamo per costruire del senso, per dare un senso alle cose. La vita è inspiegabile, ma gli assassini trovano sempre dei motivi per le morti che hanno provocato». In uno dei suoi ultimi editoriali lei attacca l’abitudine dei ministri algerini di giustificarsi davanti agli islamisti. Stiamo perdendo la battaglia culturale? «È così, le élite arabe sono troppo deboli, e in parte lo sono anche quelle occidentali. Nel mondo arabo le autorità non riescono a mettersi in una posizione di forza, sono succubi degli integralisti. I ministri non danno spiegazioni al cittadino ma al credente, si sentono colpevoli di fronte agli islamisti ma non di fronte alla repubblica, si giustificano di fronte alla sharia e non a una costituzione». Perché anche le élite occidentali sono deboli? «Perché oscillano tra il populismo e l’accondiscendenza. Nel primo caso, considerano ancora i musulmani come un elemento esogeno, come un corpo estraneo, quando invece è endogeno. I musulmani sono francesi o italiani come gli altri. Nel secondo caso, le élite occidentali talvolta non si oppongono con sufficiente fermezza alla prepotenza. Ho apprezzato invece la recente legge austriaca che proibisce il finanziamento dei luoghi di culto dai fondi stranieri, e obbliga tutti gli imam a parlare il tedesco». Ieri su «Libération» lei ha scritto che è Tunisi oggi il vero cuore del mondo arabo. «Sì perché è lì che si gioca la battaglia tra democrazia e islamismo, e la Tunisia è l’unico Paese che sta riuscendo a costruire un equilibrio tra forze progressiste e tradizione islamica. È Tunisi il cuore. Non Algeri, capitale della decolonizzazione, né il Cairo, centro del panarabismo». All’età di nove anni lei ha deciso di imparare, da solo, il francese, la lingua dell’ex colonizzatore. Perché? «E perché no? Non era tanto una questione di lingua ma di desiderio, voglia di aprirmi al mondo e di conoscere. Volevo poter leggere i libri che ancora facevano parte della nostra realtà. Ed erano scritti in francese» . Lei, Kamel Daoud, è vittima di una fatwa pronunciata da un imam salafista che le rimprovera le posizioni contrarie all’integralismo islamico. Condannato a morte, continua a vivere in Algeria. «Io sono algerino, le persone che amo e che mi amano vivono in Algeria, non voglio andarmene. Tutta la mia vita è là. Mi possono uccidere, è vero, ma potrebbero uccidermi ovunque, a Tolosa o a Genova». I fatti di questi mesi le ricordano gli attentati della guerra civile in Algeria? «Certamente, lo stesso orrore che adesso vive il mondo intero noi lo abbiamo vissuto negli anni Novanta, quando i civili innocenti furono uccisi a migliaia. Dobbiamo renderci conto che siamo in guerra, tutti. Da una parte gli jihadisti, dall’altra l’umanità» . Migliaia di manifestanti in piazza a Tunisi contro il terrorismo. Il mondo arabo si sta finalmente mobilitando? «Ricordiamoci che scendere in piazza a Parigi è meno rischioso che ad Algeri. Comunque sì, mi sembra che ci stiamo svegliando. È aumentato l’orrore, ma anche il rifiuto. Tutti hanno capito ormai che è una questione di vita o di morte». Per inviare la propria opinione ai quotidiani, telefonare: lettere@lastampa.it lettere@ilfoglio.it lettere@corriere.it |
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