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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
20.03.2015 Stato di Palestina? Sì, a patto che rispetti le condizioni sottoscritte a Oslo: cosa che non ha mai fatto
Commenti di Maurizio Molinari, Paolo Mastrolilli; analisi di Abraham B. Yehoshua, Mattia Ferraresi

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - Paolo Mastrolilli - Abraham B. Yehoshua - Mattia Ferraresi
Titolo: «Il premier: ora non posso dire sì alla soluzione dei due Stati - Obama spaventa Netanyahu: 'Pronti a dire sì alla Palestina' - La nostra speranza infranta - Così Obama guida la ritorsione dell'Onu contro Netanyahu»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 20/03/2015, a pag. 17, con il titolo "Il premier: ora non posso dire sì alla soluzione dei due Stati", il commento di Maurizio Molinari; con il titolo "Obama spaventa Netanyahu: 'Pronti a dire sì alla Palestina' ", il commento di Paolo Mastrolilli; a pag. 1-25, con il titolo "La nostra speranza infranta", l'analisi di Abraham B. Yehoshua; dal FOGLIO, a pag. 3, con il titolo "Così Obama guida la ritorsione dell'Onu contro Netanyahu", l'analisi di Mattia Ferraresi.

I quotidiani dipingono oggi Netanyahu come una banderuola, ma dimenticano di dire che lo Stato di Palestina ci sarebbe dal 1947/48 se soltanto gli stati arabi lo avessero voluto. E invece hanno preferito cercare di distruggere Israele, fino ad oggi con scarso successo.

Ecco gli articoli:


Obama fraternizza con l'Iran, che invoca la distruzione dell'America (e di Israele)

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Il premier: ora non posso dire sì alla soluzione dei due Stati"


Maurizio Molinari

«Sono a favore della soluzione dei due Stati ma le circostanze devono mutare affinché ciò possa avvenire»: Il premier israeliano Benjamin Netanyahu affida ad un’intervista alla tv americana Nbc la correzione di rotta sullo Stato palestinese tesa a scongiurare uno scontro aperto con l’amministrazione Obama.

Il ripensamento
La scelta di compiere il passo riparatore segue le aspre reazioni della Casa Bianca a quanto affermato da Netanyahu durante l’ultima fase della campagna elettorale sul netto rifiuto degli accordi di Oslo, dicendo in un comizio «con me premier non vi sarà mai uno Stato palestinese». Washington minaccia di abbandonare Israele all’Onu, dando luce verde ad una risoluzione proprio sulla nascita della Palestina dentro i confini del 1967, e Netanyahu corre ai ripari. «Non sono a favore di un unico Stato, continuo a sostenere i due Stati e non mi sono rimangiato il discorso di Bar Ilan - dice - ma affinché ciò possa avvenire le condizioni devono mutare» e dunque «Abu Mazen deve rinunciare al patto con i terroristi di Hamas» e «deve riconoscere Israele come Stato ebraico». È un evidente tentativo di riportare la disputa diplomatica con i palestinesi sui binari precedenti la campagna elettorale. Si spiega così anche la marcia indietro di Netanyahu sulle frasi dette nel giorno del voto sugli «arabi portati in massa alle urne», Per Washington si tratta di «parole in contrasto con i valori che ci accomunano» perché velate di razzismo e ora Netanyahu spiega «non sono razzista, volevo solo spingere gli elettori a votare, sono il premier di tutti gli israeliani, arabi ed ebrei». L’evidente tentativo di scongiurare la crisi aperta con la Casa Bianca si accompagna però alla volontà di far sapere a Obama che il sostegno informale al centrosinistra non è stato gradito: «Vi sono state delle ong straniere che hanno finanziato i miei avversari politici». Come dire, qualcuno a Washington ha tentato di rovesciarmi ma non c’è riuscito. L’inversione di rotta di Netanyahu è comunque voluta, evidente, per smorzare le tensioni senza precedenti con Washington, prendendo tempo in vista della formazione del nuovo governo.

I nuovi piani
Sono in molti a Gerusalemme a ritenere che il premier, una volta insediato l’esecutivo a fine aprile, si prepari ad assumere l’iniziativa sul fronte dei palestinesi. C’è chi ipotizza passi comuni con Egitto e Giordania e chi arriva a immaginare un coinvolgimento di sauditi ed emiratini per dare consistenza alle convergenze fra Israele e Paesi sunniti sulle crisi in Medio Oriente. Dentro il nuovo governo la componente anti-Oslo, rappresentata da «Casa Ebraica» di Naftali Bennett, è destinata ad avere voce in capitolo e ciò porta a supporre sviluppi in questa direzione, immaginando la possibile formulazione di ipotesi alternative. Toccherà a Netanyahu individuare un sentiero politico capace di evitare corti circuiti con Washington e al tempo stesso di tenere assieme una coalizione nata grazie al suo impegno a rinunciare alla formula dei due Stati. Anche per un leader veterano del Medio Oriente come lui si annuncia compito assai difficile.

LA STAMPA - Paolo Mastrolilli: "Obama spaventa Netanyahu: 'Pronti a dire sì alla Palestina' "


Paolo Mastrolilli

Gli Stati Uniti minacciano di abbandonare la difesa di Israele all’Onu, e nelle stesse ore il premier Netanyahu fa una mezza marcia indietro rispetto ai proclami della campagna elettorale. Dice che vuole ancora la soluzione dei due stati, se l’Autorità palestinese mollerà Hamas e negozierà in maniera seria.

L’avvertimento
Mercoledì, dopo la conferma della vittoria di Bibi, fonti diplomatiche americane hanno fatto filtrare su diversi media l’intenzione di cambiare strategia in Medio Oriente, partendo proprio dal Palazzo di Vetro, dove gli Usa stanno considerando di far approvare al Consiglio di Sicurezza una risoluzione che sostenga la creazione dello Stato palestinese. Secondo la storiografia tradizionale, Israele nacque proprio grazie ad una risoluzione dell’Onu, la 181, che nel novembre del 1947 sancì la suddivisione di quella regione fra due stati. Da allora in poi, però, nella percezione degli israeliani le Nazioni Unite sono diventate sempre più ostili al loro paese, un po’ per il suo comportamento con l’occupazione di territori che non gli erano stati assegnati, e un po’ per la presenza massiccia al Palazzo di Vetro dei membri islamici. Da sempre, quindi, gli Usa svolgono il ruolo dei difensori dello Stato ebraico, usando il veto ogni volta che viene presentata una risoluzione non gradita.



A dicembre gli americani hanno ripetuto agli altri membri del Consiglio che avrebbero bloccato qualunque iniziativa presa prima del voto di martedì scorso, perché speravano che la vittoria di Herzog cambiasse il clima. Invece ha vinto Netanyahu, promettendo di opporsi alla creazione di uno Stato palestinese, e questo ha spinto gli Usa a rivedere la strategia, anche perché ora i palestinesi si sentono autorizzati ad abbandonare le trattative e seguire tutte le vie possibili verso l’indipendenza. L’idea che Washington sta considerando è proprio quella di far approvare una risoluzione con cui appoggiare il processo di pace finalizzato alla nascita dei due stati, senza stabilire una scadenza precisa entro cui dovrebbe completarsi il negoziato.

Gerusalemme isolata
Questa iniziativa isolerebbe completamente Netanyahu, anche se in cambio gli Usa chiederebbero ai palestinesi di rinunciare al progetto di denunciare Israele davanti alla Corte Penale Internazionale. La mossa, se mai si farà, dovrebbe essere rapida e arrivare entro l’estate, perché poi comincerà la campagna per le presidenziali del 2016 e il candidato democratico chiederà alla Casa Bianca di non metterlo in difficoltà con l’elettorato ebraico. La bocciatura della soluzione dei due stati, del resto, ha provocato reazioni negative anche in questi ambienti. Sul «New York Times», Thomas Friedman ha scritto che è un boomerang per Netanyahu perché, vista la prospettiva demografica del paese favorevole agli arabi, per mantenere la sua promessa dovrà scegliere fra «uno Stato ebraico non democratico, o uno stato democratico non ebraico».

Poco dopo l’uscita di queste indiscrezioni sulla possibile mossa americana all’Onu, Netanyahu ha rilasciato un’intervista alla tv MSNBC in cui ha fatto parziale marcia indietro: «Io non voglio la soluzione di uno stato. Voglio una soluzione dei due stati sostenibile e pacifica, ma perché ciò avvenga devono cambiare le circostanze. Dobbiamo avere veri negoziati con persone impegnate per la pace». Se questo basterà a convincere Obama, o verrà visto come l’ennesima manovra dilatoria, si capirà a breve.

LA STAMPA - Abraham B. Yehoshua: "La nostra speranza infranta"

Informazione Corretta riporta sempre gli interventi di Abraham B. Yehoshua sulla Stampa, che meritano sempre di essere letti anche quando in parte non li condividiamo.

Ecco il pezzo:


Abraham B. Yehoshua

Il capitolo 29 della Genesi racconta la storia di Giacobbe che lavorò 7 anni per meritarsi in sposa Rachele, figlia minore dello zio Labano, che amava. Ma ecco che la prima notte di nozze Labano mandò nel letto del nipote la figlia maggiore, Lea.

E quando Giacobbe si alzò la mattina seguente e «vide ch’ella era Lea», capì di dover lavorare altri sette anni per avere in sposa la sua amata.

La frase «e vide ch’ella era Lea» descrive dunque in ebraico un cambiamento drammatico e frustrante avvenuto nel giro di una notte. Un cambiamento che lo schieramento israeliano per la pace (più numeroso di quello della sinistra) ha vissuto più volte durante gli ultimi trent’anni in occasione di elezioni che lo vedevano opposto alla destra. Anche questa volta, fino a pochi giorni prima delle votazioni, e persino la sera della giornata elettorale, sondaggi ed exit poll davano in vantaggio il centro sinistra, che aveva la netta sensazione di essere lì lì per vincere. Ma nel corso della notte, con l’arrivo dei risultati effettivi dalle urne, le proiezioni si sono ribaltate e quella che sembrava una vittoria si è trasformata in un trionfo della destra.

La frustrazione è profonda, fa male, ed è senza dubbio analoga a quella provata dal patriarca Giacobbe all’alba del giorno dopo le nozze, quando scoprì nel suo giaciglio una donna diversa da quella amata. La popolazione israeliana, negli ultimi decenni, si è fatta più reazionaria, religiosa, e non appare ancora pronta a dare fiducia allo schieramento per la pace, nonostante le buone intenzioni e i programmi razionali di quest’ultimo. Preferisce che siano i leader della destra, del cui patriottismo si fida più che dei bei sogni della sinistra, a condurre negoziati con gli arabi e a fare concessioni territoriali. Così è stato con Menahem Begin, firmatario dell’accordo di pace con l’Egitto, e con Ariel Sharon, fautore del ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza.

Il rammarico per la frantumata speranza di un cambiamento è nondimeno grande, per me come per molti altri israeliani. Non che avessimo la sensazione che se la sinistra fosse andata al governo avremmo potuto siglare entro pochi giorni la pace in base alla soluzione di due Stati per i due popoli. La strada per raggiungere questo obiettivo è difficile e complicata. Però avremmo potuto almeno coltivare la modesta speranza di interrompere la costruzione di nuovi insediamenti nei territori palestinesi, pregiudizievole per ogni possibile soluzione futura.

Nei recenti risultati elettorali ci sono tuttavia due raggi di luce:
1. Un drastico calo di voti per il partito radicale dei coloni «HaBait HaYehudi», efficiente e ostinato promotore degli insediamenti in Cisgiordania.
2. La coalizione di tutti i partiti arabi israeliani riuniti in un’unica lista, che rafforza molto il loro potere di rappresentanza alla Knesset.

Nonostante questo mi sono ritrovato a consolare i miei figli, incapaci di comprendere come così tanti loro connazionali non riescano a vedere che la destra va in una direzione sbagliata. E per attenuare la loro amarezza e porre il risultato di queste elezioni nelle giuste proporzioni, ho deciso di approfittare del mio mestiere di scrittore (che mi costringe, di tanto in tanto, a calarmi nei panni di personaggi diversi) per immaginare il monologo di un razionale cittadino medio israeliano che ha votato Likud, e che spiega le ragioni di questa scelta.
Le sue parole potrebbero essere queste: “Occorre ammettere che la situazione economica in Israele è relativamente buona. Il tasso di disoccupazione è basso e la crescita è costante. E negli ultimi anni ci si sono aperti nuovi e proficui mercati in India e in Cina. Anche lo stato della sicurezza è sostanzialmente buono. Gli attentati terroristici sono diminuiti e la guerra contro Hamas, a Gaza, nonostante le difficoltà, per il momento è riuscita a fermare le folli provocazioni di questa organizzazione che invece di preoccuparsi del suo popolo lancia missili contro i centri abitati israeliani. L’Autorità palestinese mantiene un coordinamento di sicurezza con le forze armate israeliane e le critiche della comunità internazionale non sono ancora sfociate in veri e propri atti di boicottaggio di Israele o in un blocco economico. E, naturalmente, la ragione principale per cui ho votato Likud è che il mondo arabo sta vivendo una fase di radicalizzazione, di sgretolamento, di brutali guerre civili. Persino il forte Egitto si trova a dover fare i conti con il terrore islamista. E Israele non può permettersi che una simile situazione di instabilità arrivi tanto vicina ai suoi confini, nel caso rinunciasse ad altri territori Per questo, nonostante gli errori e i fallimenti, ho ancora fiducia in questo governo. È vero, non provo molta simpatia per il primo ministro Netanyahu, ma è in carica da parecchi anni e riesce a tenere in piedi il Paese. Perché allora sostituirlo con qualcuno forse più simpatico, ma inesperto?».

Così ho cercato di confortare i miei figli dall’amara delusione per le ultime elezioni. Non voglio infatti che provino alienazione o ostilità verso il loro Paese, o che perdano le speranze per il futuro. Dovranno pur sempre costruire la loro vita e l’avvenire dei loro figli in questo minuscolo Stato democratico che in poco tempo sta cercando di normalizzare la problematica e millenaria storia del piccolo popolo ebraico.

Così ho cercato di confortare i miei cari, ma il fatto è che io stesso non riesco ancora a trovare consolazione.

IL FOGLIO - Mattia Ferraresi: "Così Obama guida la ritorsione dell'Onu contro Netanyahu"


Mattia Ferraresi

New York. Alcune fonti diplomatiche sentite dal giornale Foreign Policy dicono che gli americani stanno prendendo in considerazione il voto a una mozione del Consiglio di sicurezza dell’Onu per il riconoscimento dello stato palestinese. E’ la risposta americana – per il momento ufficiosa – alla vittoria elettorale del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che poco prima del voto ha cambiato linea sulla soluzione a due stati, promettendo che sotto la sua guida non verrà riconosciuto uno stato palestinese.

A brevissimo giro di posta, anonimi funzionari della Casa Bianca e del dipartimento di stato hanno fatto circolare lo stesso messaggio presso le redazioni di quotidiani israeliani e americani. Lo spiffero diplomatico raccolto dalle parti del Palazzo di vetro si è svelato per quello che era: il tassello di una strutturata offensiva politica dell’Amministrazione americana contro Netanyahu. John Kerry ha telefonato a Bibi per congratularsi, ma la portavoce di Foggy Bottom, Jen Psaki, ha chiarito immediatamente che si è trattato di una conversazione protocollare, e i due hanno sorvolato sulla sostanza politica; nel frattempo John Earnest, portavoce della Casa Bianca, ha spiegato che Barack Obama sostiene ancora la soluzione a due stati, e visto il cambio in corsa di Bibi dovrà “rivalutare” la posizione degli Stati Uniti sul processo di pace.

Per rincarare la dose ha attaccato direttamente le dichiarazioni del Likud sugli arabo- israeliani: “Profondamente preoccupanti e divisive, e posso dirvi che l’Amministrazione intende comunicare direttamente agli israeliani queste cose”. La ritorsione di Obama contro l’alleato indigesto si prepara a Washington ma si materializza a New York, nella cavernosa aula del Consiglio di sicurezza dove i diplomatici americani hanno fin qui ostacolato le ambizioni dell’Autorità nazionale palestinese. Il piano strategico era già pronto. Poco prima delle elezioni di questa settimana in Israele, scrive Foreign Policy, gli Stati Uniti hanno informato i diplomatici alleati che avrebbero bloccato qualunque risoluzione onusiana contro Israele nel caso Isaac Herzog avesse vinto le elezioni. Ma hanno fatto anche sapere che una vittoria di Netanyahu a capo di un governo di coalizione contrario alla soluzione a due stati avrebbe fatto cambiare i calcoli, e gli Stati Uniti avrebbero aperto all’ipotesi di una risoluzione pro palestinese.

Fonti della Casa Bianca raccolte dal New York Times dicono che il piano potrebbe basarsi sui confini del 1967, con uno scambio di territori concordato. All’Onu non c’è ancora una bozza approvata dagli americani, ma la macchina diplomatica si sta muovendo per fissare scadenze e stabilire quelle “red line” che Obama traccia più volentieri davanti ai piedi degli alleati che a quelli degli avversari. Ieri nella sua prima intervista post-elettorale, alla Nbc, Netanyahu ha cercato di allentare un minimo la tensione con una piroetta politica: “Non voglio una soluzione con uno stato solo. Voglio una soluzione sostenibile con due stati, ma le condizioni devono cambiare”. Poi, parlando più al popolo americano che ai palazzi di Washington, ha ripetuto il mantra dell’alleanza incorruttibile fra paesi predestinati: “Israele e Stati Uniti possono avere delle divergenze ma restano uniti su molti fronti”.

Nelle ultime settimane l’Amministrazione ha fatto circolare la voce che un nuovo piano per il processo di pace fosse già in lavorazione, un piano che tenderebbe a ridurre il potere negoziale di Netanyahu paventando una riduzione degli aiuti militari dai quali Israele dipende. Durante (e immediatamente dopo) l’ultima operazione militare a Gaza, gli americani, contrariati per il raggio e l’ampiezza dell’offensiva, hanno rallentato il flusso dei rifornimenti bellici, cosa che non è passata inosservata a Gerusalemme.

A questa forma di pressione diretta ora Obama aggiunge una più felpata manovra onusiana, il che mette in luce anche la sua debolezza rispetto a Netanyahu negli ingranaggi politici di Washington. Il primo ministro è immensamente popolare presso il Congresso a maggioranza repubblicana, e un fronte trasversale di falchi è perfettamente allineato con la sua posizione rapace quando si tratta del Grand Bargain nucleare promosso dall’Amministrazione Obama. Quando ha fatto il suo discorso al Congresso, Netanyahu ha ricevuto quello che il comico Jon Stewart ha definito “the longest blowjob a Jewish man has ever received”, e non c’è bisogno di tradurre. Mentre i lobbisti dell’Aipac lavoravano sui parlamentari più freddi, i sondaggisti hanno rilevato indici di gradimento di Netanyahu presso il pubblico americano che Obama può soltanto sognare.

Il superinviato anti Bibi
Per trovare partner affidabili nella strategia del dissenso anti Netanyahu, Obama va a pescare dunque nella Turtle Bay, dove gli attori pronti a puntellare la causa palestinese con una mozione ufficiale non sono mai mancati. I palestinesi sono subito saltati sul carro: “Il fatto che il governo israeliano opponga pubblicamente la soluzione a due stati rafforza l’idea che il conflitto debba essere risolto dalla comunità internazionale”, ha detto Maen Rashid Areikat, capo della diplomazia palestinese all’Onu. Al dipartimento di stato si esercitano con circonlocuzioni inedite per lasciare intendere che il veto ferreo a qualunque riconoscimento palestinese potrebbe cadere. “Più il nuovo governo israeliano si sposta a destra più è probabile che qualcosa succeda a New York”, dice un diplomatico occidentale a Foreign Policy. Per ungere meglio il meccanismo offensivo, al quale la Casa Bianca lavora evidentemente da tempo, Obama ha affidato l’incarico di superinviato per medio oriente, Africa e Golfo persico a Robert Malley, avvocato e politologo che nel 2008 è stato allontanato dal team della campagna elettorale di Obama per le sue posizioni pericolosamente vicine a Hamas. Malley è una delle voci più critiche verso le politiche di Israele nell’entourage dell’Amministrazione, e le critiche si fanno ancora più acute quando si tratta di Netanyahu e della sua coalizione di governo inevitabilmente sbilanciata a destra.

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