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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Repubblica - Il Giornale Rassegna Stampa
19.12.2014 Pericolo terrorismo: anche in Italia rischio di infiltrazioni Isis
Analisi di Paolo Berizzi, cronaca di Gian Micalessin

Testata:La Repubblica - Il Giornale
Autore: Paolo Berizzi - Gian Micalessin
Titolo: «Fabio, Sergio e gli altri: i 40 miliziani italiani che combattono sul fronte della jihad - Il vero scandalo Isis: il ritardo dei pm»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 19/12/2014, a pag. 20-21, con il titolo "Fabio, Sergio e gli altri: i 40 miliziani italiani che combattono sul fronte della jihad", l'analisi di Paolo Berizzi; dal GIORNALE, a pag. 10, con il titolo "Il vero scandalo Isis: il ritardo dei pm", la cronaca di Gian Micalessin.


Musulmani in preghiera davanti al Duomo di Milano. Il pericolo di infiltrazioni terroristiche è alto anche in Italia

Ecco gli articoli:

LA REPUBBLICA - Paolo Berizzi: "Fabio, Sergio e gli altri: i 40 miliziani italiani che combattono sul fronte della jihad"


Paolo Berizzi

Si sono inabissati applicando la “taqiya”, l’arte islamica di camuffarsi per rendersi invisibili al mondo di sopra. Hanno spento la luce sulle loro vite “normali”, spogliando progressivamente l’identità democratica e occidentale fino a ridurla a brandelli, e, infine, a simbolo del Male. Un obbiettivo da combattere con progetti sovversivi, coltivati nel segreto del fondamentalismo armato, sotto la bandiera nera dello Stato islamico. Si chiamano Massimiliano, Filippo, Fabio, Giampietro, Sergio, Donoue. Eccoli, gli jihadisti italiani. «Lupi solitari». Una quarantina in tutto. Età tra i 19 e i 42 anni. Sono figli, fratelli, padri della “porta accanto” che hanno risposto alla «dawa», la chiamata della Jihad. Nel nome di Allah e della sollevazione contro l’Occidente colonizzatore operata dai seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi, sono diventati foreign fighters . Partono dall’Italia, tra il 2013 e il 2014, per arruolarsi nelle cellule jihadiste dell’Isis attive in Siria e Iraq. Hanno storie e percorsi simili a quello del genovese Giuliano Ibrahim Delnevo. Il “Califfo Ibrahim”. Un «eroe», per il padre. Un «martire» per i guerriglieri dell’Islamismo. Di un plotone di «combattenti dello Stato islamico partiti dal nostro Paese», ricorderete, aveva parlato quest’estate il ministro Alfano: «Quarantotto persone », aveva detto il capo del Viminale. Sottolineando, però, che «solo due hanno nazionalità italiana » (il ministro citò Delnevo, morto nel 2013 in Siria, e un «giovane marocchino naturalizzato che si trova in un altro paese europeo »). Repubblica è ora in grado di raccontare — per la prima volta — chi sono e dove provengono i combattenti italiani. Chi li ha arruolati. Come è iniziato il processo di identificazione con la Jihad globale. E che, in realtà, sono molti di più dei «due» di cui ha parlato il ministro Alfano.

LA RAGNATELA
Un rapporto riservato della nostra intelligence li divide tra “italiani” e “naturalizzati”, figli di immigrati di seconda generazione. Per l’anagrafe sono tutti italiani. Finiscono sotto i radar dell’antiterrorismo. Le informazioni raccolte sugli jihadisti italiani sono state trasmesse da Roma alle forze di polizia dei Paesi lungo i quali si snoda il filo dei loro spostamenti: una ragnatela che ha come centro il «buco nero della Turchia». Lo definiscono così al Viminale. Sono transitati quasi tutti da lì. Provenienti da Torino, Modena, Comiso, Mantova, Milano, Como, Cantù, Venezia, Bologna, Roma, Napoli, Biella. E diretti, soprattutto, nel Nord della Siria. Il «monitoraggio » dedicato ai foreign fighters nostrani segue lo stesso protocollo adottato dai responsabili delle agenzie di sicurezza internazionali per tutti i combattenti stranieri — circa 20 mila, di cui almeno 3mila europei — approdati in Medioriente per irrobustire le fila dei miliziani dell’Isis e alleati.

DA CHIVASSO AD ANKARA
Filippo R. è una new entry per gli esperti dell’antiterrorismo. Trentasette anni, di Chivasso. Di lui si è già occupato il Ros dei carabinieri. «Oggetto di attività preventiva» è la formula che ne accompagna il nome. Uno dei primi finiti nell’elenco dell’intelligence. Tutto inizia tre anni fa. Filippo, ex studente vicino alla galassia antagonista, si converte all’Islam. Da subito viene rilevata la sua «forte attrazione per il mondo qaedista». Un mondo al quale l’Isis continua a sfilare adepti e forze fresche. Molti gruppi scavallano, si uniscono allo Stato proclamato dal califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Il percorso di radicalizzazione di Filippo inizia sul web. In principio i “suoi” Fratelli Musulmani rimandano alle milizie di Aqim (AlQaeda nel Maghreb), in particolare la branca denominata “Coloro che firmano col sangue”. Sono gruppi legati ai terroristi guidati dall’egiziano Ayrnan al-Zawahiri. Poi Filippo, come fece il genovese Delnevo, parte. Ufficialmente vola in Turchia, ad Ankara, per seguire un corso di lingua araba. Va e torna più volte dall’Italia. Gli investigatori ritengono fondato il sospetto che abbia superato i confini turchi per stringere contatti con gruppi di ribelli siriani. E che, in Turchia, abbia gettato «basi solide». Sono circa mille i militanti di nazionalità turca che combattono tra le fila dello Stato Islamico. Le province di Ankara — ne ha dato conto un’inchiesta del New York Times — sono una delle principali centrali di reclutamento di miliziani dell’Is.

LA LIBIA E I TEATRI DI GUERRA
Si chiama Ansar al Sharia. È un gruppo jihadista libico. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite l’ha aggiunto alla sua lista delle organizzazioni terroristiche. Tra i seguaci di Ansar al Sharia c’è anche un aspirante califfo di Modena. Si chiama Fabio E., ha 39 anni. I nostri servizi di sicurezza lo considerano «vicino a più gruppi terroristici». Il ragionamento che fa una fonte dell’intelligence, per lui come per altri jihadisti italiani, è questo: «Una volta convertiti all’Islam, vanno alla ricerca di un modello di Rivoluzione contro l’Occidente e si identificano, anche per una forma di realizzazione personale, con una causa che non esclude il sacrificio della propria vita». Fabio quel modello lo cerca, all’inizio, nel «progetto qaedista». I primi passi li muove assieme a un amico: Massimiliano R., 42enne. Da un paese della provincia di Mantova. Anche lui convertito all’Islam. Una figura non marginale — spiegano le fonti — in quell’ambiente di riferimento «misto» — italiani-stranieri naturalizzati — che fa la spola tra il nostro Paese e le zone in mano ai ribelli siriani. Soprattutto quelle di Dayr az Zor e Aleppo. A Massimiliano quelle terre non sono sconosciute. Anche se al momento si troverebbe in Italia. Un dettaglio che non viene per nulla trascurato visto che il militante mantovano «ha evidenziato, nel corso di questi anni, forti derive jihadiste». Un soggetto, inoltre, in grado di «fare propaganda».

REGGIO CALABRIA-ALEPPO
Fabio C., 27 anni, di Comiso. Chi è? Senza lavoro, dopo aver frequentato «gruppi italiani e nordafricani che coltivano rapporti con network jihadisti», in particolare “Sharia4”, Fabio «manifesta l’intenzione di raggiungere i teatri di guerra». Uno, da subito: la Siria. Quella che Ibrahim Delnevo chiamava la “mia via”. La via di Allah. Fabio, come Delnevo, si mette in moto. La Turchia è un passaggio strategico. Il «buco nero». «Perché — spiega la fonte — una volta arrivati lì, i teatri di guerra sono alla portata, ed è più facile far perdere le proprie tracce». Così ha fatto Giampietro F., 35 anni. Parte da Reggio Calabria. È uno dei casi che i nostri 007 definiscono «accertati». «Accertati» significa che sono in Siria a combattere. Quattordici persone «localizzate » in quei luoghi. Nel mazzo compaiono nomi “spendibili”, e altri nomi — di cui Repubblica è a conoscenza — che non possono essere diffusi: nemmeno parzialmente. Giampietro, dunque. Forse è riuscito a uscire dai radar. Forse da un certo momento in poi non è stato più possibile separare il suo mondo di sopra dal mondo sommerso. Da una copertura. Funziona così. Per dire: Delnevo — prima di raggiungere la Siria dopo il percorso di fede ad Ancona, la città in cui vive l’ex presidente dell’Unione delle comula nità islamiche italiane Mohamed Nour Dachan, oggi membro del Syrian National Council — , si era fabbricato il paravento di una missione umanitaria in Turchia. Ma in moschea sapevano tutti che era a combattere sul fronte siriano. «Il giorno prima che lo uccidessero mi aveva chiamato — ricorda il padre, Carlo Delnevo — . Mi disse: “Papà io mi sento realizzato qui, ma ti devo lasciare perché i nemici sono a pochi metri”». Giampietro ha imbracciato le armi, si è unito ai ribelli siriani. Con lui ci sono altri due connazionali: Sergio G., classe ‘87, napoletano. E Donoue E.M., 22 enne, naturalizzato, di Biella. Si ritiene facciano ormai parte di gruppi armati formati anche da ribelli iracheni, libici, tunisini, libici, egiziani.

ANDATA E RITORNO
Spiegano gli analisti che la “cifra” di queste cellule jihadiste è la composizione. Estremamente «liquida». I capi della rivolta anti-Assad reclutano soldati, tutti addestrati e arabofoni, che attendono la «dawa», la chiamata della Jihad, anche mesi. Molti arrivano da fuori. Dai Paesi dove vivono. O da dove transitano. Muovono anche da Venezia, Milano, Cantù. Come Ben A.M., che ha solo 19 anni ed è canturino naturalizzato. L’intelligence, che lo ha intercettato e seguito, lo descrive così: «Ha solidi rapporti con soggetti appartenenti all’organizzazione Isis, alcuni dei quali operanti sul web. Ha più volte manifestato l’intenzione di recarsi in Siria e di frequentare corsi di addestramento militare in Afghanistan». Avanti e indietro. Mitragliate permettendo. Ammar Bacha, jihadista di ritorno, è partito da Cologno Monzese. Il 10 settembre ha raccontato a questo giornale che faceva parte di un «piccolo gruppo: 200 persone, tutti civili». Lascia l’Italia nell’aprile 2012, segue le orme di un amico, Haisam Sakhanh (l’elettricista 4lenne che nel 2012 guidò l’assalto all’ambasciata siriana a Roma prima di unirsi ai ribelli ad Aleppo, ndr). La “sponda” turca, poi il fronte siriano. Nel rapporto riservato degli investigatori ci sono anche loro. I foreign fighters non italiani partiti dall’Italia: dodici in tutto quelli “registrati”. Giovani, tra i 22 e i 41 anni. Le nazionalità: Tunisia, Marocco, Bosnia. Quattro gli jihadisti combattenti — tre iracheni e un pachistano — che hanno soggiornato a lungo in Italia: dove si ritiene abbiano fatto «opera di proselitismo e reclutamento ».

“ATTACCHEREMO ROMA”
Il suo errore è stato l’eccesso di protagonismo. L’esatto contrario del principio della «taqiya» che prevede la dissimulazione, il silenzio. Così dovrebbe operare il perfetto jihadista in guerra per l’affermazione del Califfato Globale. Ma Roberto Cerantonio, cittadino australiano di origine italiana, commette un passo falso. Sul web — lo stesso mezzo sul quale aveva iniziato il suo percorso — pubblica un’immagine manipolata del Milite Ignoto. Accanto, la bandiera dell’Isis e la scritta minacciosa: «Attaccheremo Roma, Allah ci permetterà di conquistarla». A luglio Cerantonio viene arrestato nelle Filippine grazie anche al lavoro dei nostri 007: terrorismo internazionale di origine islamica. Scavando nel suo passato si scopre che inizia la “carriera” avvicinandosi a circoli ultrafondamentalisti frequentati anche da italiani convertiti. Come i circoli Deobandi, formati per lo più da pachistani. Sono gli ambienti nei quali, nel 2012, aveva indagato l’antiterrorismo in due operazioni tra Brescia e Cagliari. Dai circoli, insomma dai “gradini” più bassi, Cerantonio è andato su, passando ai corsi di addestramento e alla propaganda sul web. Sognava la Rivoluzione del drappo nero. È caduto dimenticando che le regole della Jihad sono infrangibili.

 
IL GIORNALE - Gian Micalessin: "Il vero scandalo Isis: il ritardo dei pm"


Gian Micalessin

L'orrore può sembrar lontano. Il massacro nella città irachena di Fallujia di 150 schiave yazidi punite per il rifiuto di sposare i militanti dello Stato Islamico può apparire distante. Ma solo se dimentichiamo che la bandiera nera dell'Isis già sventola a Derna, capoluogo di una Libia a soli 400 chilometri dalle nostre coste. O se dimentichiamo che la Procura di Palermo ha appena aperto un'indagine per capire se tra le masse approdate sulle nostre coste nell'ultimo anno si siano infiltrati militanti dello Stato Islamico o di altri gruppi jihadisti.

Anche perché l'inchiesta della Procura, su cui il senatore Augusto Minzolini e 25 parlamentari con un'interrogazione chiedono al governo di riferire, arriva con molto ritardo. La prima ad affrontare l'argomento fu, più di un anno fa, l'ex ministro degli esteri Emma Bonino. «Ci sono sospetti che dalla Libia fra i vari disperati ci siano anche provenienze di jihadisti o qaidisti su una via europea, che tra l'altro è uno dei metodi che hanno usato spesso... E' una minaccia alla sicurezza».

La dichiarazione, datata 18 novembre 2013, non era improvvisata. Quel giorno Emma Bonino usciva da una riunione del Consiglio Ue. Dunque dietro le sue dichiarazioni, rese con un anno d'anticipo rispetto alla magistratura, si nascondevano precise informazioni d'intelligence. Anche perché, nella stessa occasione il ministro parlò di «spezzoni di informazioni che cominciano a diventare consistenti». Per capire a cosa alludeva bastava andare a Tripoli ed ascoltare quel che raccontavano fonti d'intelligence libiche e italiane sull'argomento. Ai primi di febbraio del 2014 una fonte libica consegnò al Giornale la foto di Ahmd Asnawi, un miliziano islamista sospettato di controllare il business dell'immigrazione clandestina e di usarla per finanziare la propria organizzazione. «I confini meridionali con Sudan, Ciad e Niger sono da due anni frontiere aperte, lì Hasnawi e i gruppi alqaidisti controllano i traffici di armi e uomini- raccontarono al Giornale altre fonti libiche - Hasnawi e i suoi spingono verso Kufra i trafficanti di uomini che arrivano da Sudan e Ciad. Lì scelgono i propri carichi di disperati. A differenza delle organizzazioni criminali offrono passaggi a prezzi inferiori su barche più grandi e più sicure in partenza da Sdabia o dalla Sirte.

Informazioni confermate dai funzionari del nostro ministero dell'interno mandati a Tripoli a monitorare la situazione. «I confini meridionali - spiegavano già allora gli uomini del Viminale - non esistono più, nessuno è in grado di dire quante centinaia di migliaia di persone sono affluite da Sudan, Ciad, Niger. A sud di Saba non esiste alcuna autorità, comandano i più forti e si muove di tutto dalla droga, alle armi, agli esseri umani». L'inchiesta di Palermo, oltre ad arrivare con 12 mesi di ritardo, rischia di essere persino riduttiva. La vera incognita non è, infatti, se qualche singolo terrorista abbia approfittato del passaggio su una barca di clandestini per raggiungere l'Europa. Viste le proporzioni dell'esodo e vista la diffusione dell'ideologia jihadista nel Nord Africa è inevitabile che terroristi e simpatizzanti si siano infiltrati tra i 200mila clandestini arrivati sulle nostre coste.

Ne fossero arrivati solo 20 saremmo di fronte ad una percentuale quasi fisiologica dell'uno su 10mila. La vera questione è, invece, quanta parte del traffico di uomini, alimentato per 12 mesi dai soccorsi di Mare Nostrum, sia sotto il controllo dei gruppi jihadisti. E quanto abbia contribuito al finanziamento dei gruppi terroristi. Stato Islamico compreso.

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