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La Repubblica - Libero Rassegna Stampa
27.07.2014 Antisemitismo, antisionismo, antisraelismo: rassegna di commenti
di Alain Finkielkraut, Giampaolo Pansa, Gianandrea Gaiani

Testata:La Repubblica - Libero
Autore: Eugénie Bastié, Alexandre Devecchio, Guillaume Perraul - Giampaolo Pansa - Gianandrea Gaiani
Titolo: «Europa a rischio antisemitismo ora Israele cerchi un compromesso - C'è anche un'Italia che odia gli ebrei - Israele non cada nel tranello. Le 'pause' allungano le guerre»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 27/07/2014, apag. 4, l'intervista di Eugénie Bastié, Alexandre Devecchio e Guillaume Perrault ad Alain Finkielkraut, ripresa da LE FIGARO , dal titolo "Europa a rischio antisemitismo ora Israele cerchi un compromesso ", da LIBERO a pagg. 1-13, l'articolo di Giampaolo Pansa dal titolo " C'è anche un'Italia che odia gli ebrei " e da pag. 12 l'articolo di Gianandrea Gaiani dal titolo "Israele non cada nel tranello. Le 'pause' allungano le guerre ".
Anche Eugenio Scalfari dedica una parte del suo articolo domenicale, pubblicato da REPUBBLICA  a pagg. 1-25 con il titolo "Se il pifferaio stona il concertone diventerà una gazzarra ". Riprendendo la sua polemica risalente al 1967 con Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti (liberali schierati a difesa di Israele sulle pagine dell'ESPRESSO )  Scalfari sostiene che la politica di Israele dovrebbe preoccuparsi innanzitutto dei diritti nazionali dei palestinesi.
 Una tesi che ignora il fatto che Israele ha fatto di tutto perché i palestinesi realizzassero le loro aspirazioni nazionali, come provano i molti negoziati naufragati solo per via delle condizioni poste dai palestinesi, inaccettabili per Israele in quanto ne mettevano a repentaglio l'esistenza.

Di seguito, gli articoli:


Manifestazione antisraeliana a Parigi



LA REPUBBLICA -
Eugénie Bastié, Alexandre Devecchio e Guillaume Perrault: "Europa a rischio antisemitismo ora Israele cerchi un compromesso
"


Alain Finkielkraut

Rispetto
al conflitto israelo-palestinese, alcuni intellettuali la criticano per non aver denunciato i bombardamenti israeliani contro i civili palestinesi, mentre a suo tempo lei era insorto contro l’assedio di Vukovar e di Sarajevo da parte dei serbi. Lei cosa risponde?
«Prima di tutto vorrei fare una precisazione. Io amo Israele e mi spaventa l’odio intercontinentale che si scatena su questo piccolo paese la cui esistenza è ancora messa in dubbio. Ma non ho mai sostenuto incondizionatamente la politica israeliana. Il 9 luglio, ero a Tel Aviv su invito del quotidiano Haaretz , che aveva organizzato una grande conferenza sulla pace. Rappresentavo Jcall (movimento di ebrei europei per la pace sul principio “due popoli, due Stati”, ndr) e ho detto che, come intellettuale ebreo, devo costantemente battermi su due fronti: contro un antisemitismo che denuncia il “mostro sionista” nel linguaggio dell’antirazzismo, e a favore del compromesso, vale a dire la separazione in due stati, uno israeliano e l’altro palestinesi. Ho aggiunto che insistendo sullo status quo, il governo israeliano mette a rischio il progetto sionista stesso. Già nel 1991, il grande orientalista Bernard Lewis era preoccupato nel veder diventare Israele, sul modello del Libano, «un’ennesima associazione difficile tra gruppi etnici e religiosi in conflitto». E aggiungeva: “Gli ebrei verrebbero a trovarsi nella stessa posizione dominante che avevano una volta i maroniti con la probabile prospettiva, alla fine, di un destino alla libanese”. Per evitare che questa previsione si avveri, sarebbe urgente fare ciò che Ariel Sharon definiva “dolorose concessioni territoriali”. Se questo ripugna ai suoi successori è perché diffidano del loro partner, ma è soprattutto perché hanno paura dei propri estremisti. Essi temono la guerra civile tra israeliani che accompagnerebbe lo smantellamento degli insediamenti in Cisgiordania».
Non è forse lecito interrogarsi sull’elevato numero di vittime tra i civili palestinesi?
«A Tel Aviv ho visto un breve film di propaganda in cui Hamas chiedeva ai “coloni” di Beer-Sheva di lasciare la loro città perché l’avrebbero distrutta. Questa organizzazione non si pone il problema dei due Stati, non si pone nemmeno il problema di uno stato palestinese. Quello che vuole è che tutta la Palestina torni ad essere di proprietà dell’islam. Se la civiltà dell’immagine non stesse distruggendo la comprensione della guerra, nessuno sosterrebbe che i bombardamenti israeliani sono rivolti contro i civili. No, gli israeliani avvertono gli abitanti di Gaza dei bombardamenti che stanno per fare. E quando mi dicono che queste persone non hanno un posto dove andare, rispondo che i sotterranei di Gaza avrebbero dovuto essere fatti per loro. Oggi ci sono delle stanze di cemento armato in ogni casa d’Israele. Ma Hamas e la Jihad islamica fanno altri calcoli e hanno altre priorità architettoniche. Per vincere la guerra da un punto di vista mediatico, vogliono far apparire Israele come uno Stato criminale. Ogni vittima civile, per loro è una benedizione. Io stesso andrei a manifestare a Parigi per il cessate il fuoco a Gaza se in questi cortei si pretendesse anche la cessazione dei lanci di razzi su tutte le città israeliane. Chiederei il ritiro del blocco se fosse accompagnato dalla smilitarizzazione di Gaza».
Alcuni arrivano a paragonare Gaza — lunga poco più di 40 km e larga meno di dieci — al ghetto di Varsavia. Il confronto le sembra scandaloso?
«Ricordiamo in effetti che la Wehrmacht si prendeva cura, come oggi fanno le forze armate israeliane, di proteggere le strade che portavano al ghetto, per consentire il trasporto di viveri, medicine, aiuti umanitari... Verrà il giorno — è già venuto in Turchia — in cui non ci si riferirà all’apocalisse nazista che per incriminare Israele, il sionismo e gli ebrei. Io non credo in Dio, ma questo rovesciamento del dovere della memoria mi sembra una prova molto convincente dell’esistenza del diavolo».
Abbiamo ascoltato per le strade di Parigi il grido «Morte agli ebrei». Il fenomeno è paragonabile all’antisemitismo degli anni Trenta o è più il pretesto di un comunitarismo “anti-francese”?
«L’antisemitismo degli anni Trenta e la grande solidarietà antirazzista degli anni Ottanta si sono frantumati. Oggi abbiamo a che fare con l’antisemitismo di quelli che si definiscono i dannati della terra, da cui l’imbarazzo dei progressisti. Non ne riconoscono l’esistenza che di malavoglia e quando non possono fare altrimenti. Così ora parlano di un “nuovo” antisemitismo per un fenomeno che esiste da quasi 30 anni. Questo odio non è solo contro gli ebrei. Lo abbiamo visto nelle manifestazioni dopo le vittorie dell’Algeria nella Coppa del Mondo, con la sostituzione delle bandiere francesi con bandiere algerine sugli edifici pubblici. Bisognava esprimere la propria fierezza nazionale e il disprezzo per la nazione in cui si vive».
Tacciando di antisemitismo ogni critica contro Israele, alcuni membri della comunità ebraica non rischiano di alimentare il vittimismo?
«Io critico la politica israeliana. Mi dichiaro instancabilmente dai primi anni Ottanta per la soluzione dei due Stati. Condanno il proseguimento della costruzione di insediamenti in Cisgiordania. Dico che l’intransigenza nei confronti di Hamas dovrebbe essere accompagnata da un efficace sostegno all’Autorità palestinese. Ciò non mi impedisce di essere uno dei bersagli preferiti del “nuovo” antisemitismo».
Dietro il rifiuto di Israele espresso da una parte della sinistra francese, cosa c’è? Un rifiuto dell’identità, dello Stato- nazione e delle frontiere?
«In un articolo pubblicato nel 2004 sulla rivista Le Débat, lo storico inglese Tony Judt ha scritto che “in un mondo dove le nazioni e gli uomini si mescolano sempre di più e dove i matrimoni misti si moltiplicano, dove le barriere culturali e nazionali alla comunicazione sono quasi crollate, dove siamo sempre più ad avere molteplici identità elettive e in cui ci sentiremmo terribilmente in imbarazzo se dovessimo rispondere a una sola di esse; in questo mondo, Israele è veramente un anacronismo”. Così come san Paolo si indignava del rifiuto ebraico della religione universale, i nostri multiculturalisti vedono Israele come un ostacolo etnico-nazionale al riconoscimento definitivo dell’Uomo da parte dell’Uomo. Ma il mondo umano non è un supermercato o una brochure turistica. Qual è il multiculturalismo dietro la United Colors of Benetton e la gioiosa disponibilità di tutte le cucine, di tutte le musiche, di tutte le destinazioni? È lo scontro delle culture, e in questo scontro gli ebrei, ovunque si trovino, qualsiasi cosa dicano e facciano, sono in prima linea».
© Le Figaro ( traduzione Luis E. Moriones)

LIBERO - Giampaolo Pansa: "C'è anche un Italia che odia gli ebrei "


Giampaolo Pansa

All'inizio la questione sembrava molto semplice. Dei terroristi legati ad Hamas o arabi sequestrano tre adolescenti ebrei che escono da scuola e li ammazzano. Per ritorsione, un ebreo squilibrato cattura un giovane palestinese e lo uccide. Basta poco per innescare una guerra. Da Gaza le bande di Hamas cominciano a lanciare razzi contro le città di Israele. Sono missili carichi di esplosivo e un congegno ideato da Tel Aviv li distrugge prima che cadano. Ma la pioggia di bombe volanti s'intensifica. Sono sempre più potenti e con una gittata sempre più lunga. Possono colpire anche città molto lontane da Gaza e strutture vitali come l'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Risulta chiaro che, nella striscia di Gaza, Hamas nasconde le rampe di lancio dentro le case dei civili, le scuole, gli ospedali. E tratta gli abitanti da scudi umani. A questo punto come reagisce Israele? Come qualsiasi stato che veda a rischio l'incolumità della sua gente e la propria stessa esistenza. E costretto ad attaccare la roccaforte di Hamas, per individuare le rampe e i depositi dei missili. E scoprire i tunnel scavati dai terroristi palestinesi per infiltrarsi in territorio israeliano. Siamo di fronte a un'altra guerra che lo stato di Israele deve combattere per non essere annientato. Ma una parte dell'opinione pubblica mondiale non ammette che gli ebrei possano difendersi. Emerge un vecchio spettro: l'antisemitismo. Esplodono dimostrazioni di piazza, battaglie di strada, aggressioni individuali. Proclami allucinanti ricordano il dramma più nefando per la nostra civiltà: la politica razziale della Germania nazista e lo sterminio degli israeliti tedeschi e di molte altre nazioni, compresa l'Italia. Chi non ha vissuto o assistito, anche soltanto da bambino, alle deportazioni degli ebrei in tanti campi di morte, primo fra tutti Auschwitz, non può awertire l'angoscia che provano gli italiani della mia generazione. Oggi in Italia non vediamo ancora i cortei che intossicano Paesi come la Francia, la Germania, l'Olanda. Mi auguro che il nostro Paese resti immune da questo virus disumano. Ma se debbo essere sincero non sono affatto sicuro che da noi non accada nulla. C'è anche un'Italia che odia gli ebrei o resta indifferente alla loro sorte. Esattamente come avvenne alla fine degli anni Trenta, nella fase terminale della dittatura fascista. Qui lo rammenterò in una sintesi estrema. Da bambino il mio mondo era la città dove ero nato e crescevo: Casale Monferrato. Anche qui esisteva un ghetto, la vecchia Contrada degli ebrei, e una sinagoga tra le più belle in Italia. La comunità israelitica era ben inserita nella società cittadina. Vantava commercianti, impiegati, professionisti, medici, insegnanti. Il fondatore della squadra di calcio, il Casale Fbc, i famosi nerostellati, era un professore ebreo che tutti stimavano. Le ragazze del ghetto erano famose per la loro bellezza e molto ricercate come mogli. Nel 1939 Mussolini varò le leggi razziali. Fu l'inizio della persecuzione. Gli ebrei che avevano incarichi pubblici, come il fondatore della squadra di calcio, vennero licenziati. I professori e gli studenti furono cacciati dalle scuole. Le famiglie che avevano colf o governanti ebree vennero obbligate a mandarle via. I negozi degli israeliti dovettero chiudere. Tanti anni dopo, quando decisi di ricostruire quel che era accaduto, mi resi conto che, a parte qualche caso isolato, la città dei cattolici non batté ciglio davanti a quel disastro. La mia famiglia viveva nel centro di Casale, in un grande appartamento di un palazzo nobiliare decaduto. Dopo la cena, venivano a trovarci parenti e amici. Gli adulti discutevano di tutto. Del fascismo, del socialismo, del comunismo, della guerra e in seguito dell'armistizio, della Repubblica sociale e dei partigiani. L'opinione più diffusa era vagamente socialista. Andavo per i dieci anni, ma restavo sveglio per ascoltare i grandi. Ebbene non ho mai sentito una parola su quanto accadeva agli ebrei della città. Quando vennero avviati al lavoro obbligatorio accadde di peggio. Le donne ebree furono mandate in un'industria cartotecnica di Casale. Qui incontrarono delle operaie che non volevano averle accanto. Ringhiavano: «Riportatele nel ghetto, non debbono restare qui con noi!». Andò meglio agli uomini inviati in un'azienda agricola della Cartiera Burgo. Erano quasi tutti signori anziani e venivano da professioni che non prevedevano l'uso della vanga e della pala. Ebbero la fortuna di incontrare dei capi operai comprensivi che tentarono di rendere meno pesante il lavoro. Ma il peggio lo si vide all' inizio del 1944, il giorno che cominciarono le catture e le deportazioni. In città tutti sapevano che cosa stava accadendo. Mia madre lo apprese dalla famosa Gigin, la portinaia di un casamento di fronte al ghetto. Era stata una ragazza ardente, pronta a passare da un amore all'altro. Da anziana aveva iniziato a lavorare da cartomante. L'unico lusso di mia madre era l'andare spesso da lei per farsi leggere il futuro sui tarocchi. La Gigin aveva già visto arrestare un'inquilina del palazzo, un'antiquaria molto conosciuta in città. E un paio di mesi dopo era presente quando i poliziotti del commissariato si portarono via la madre ottantenne della stessa signora. La cartomante ne avrà di certo parlato con mia madre, ma in casa nostra non si discusse mai di quelle catture.  E' possibile che i miei genitori abbiano deciso di non dire nulla in presenza dei due figli piccoli. Ma anni dopo mi resi conto che, tranne in pochi casi, l'arresto degli ebrei della città non suscitò reazioni. Dominò l'indifferenza. Il caso più clamoroso fu quello dei ferrovieri alla guida dei treni blindati che partivano dalla stazione di Carpi carichi di ebrei raccolti nel campo di Fossoli, in provincia di Modena. Sino alla frontiera del Brennero, il macchinista e il fuochista erano italiani. Scendevano dal treno al momento di entrare nel territorio del Reich e lo consegnavano ai ferrovieri tedeschi. Conoscevano di certo il carico che trasportavano: ebrei di ogni età, dagli ottantenni ai bambini e ai neonati, tutti destinati alle camere a gas. Ma la storia dello sterminio non ci consegna nessun gesto di rifiuto o di ribellione. L'unica attenuante era la condizione dell'Italia del centro e del nord: un Paese occupato dall'esercito di Hitler. Dove la minima opposizione poteva costare il carcere o la partenza verso il campo di sterminio. Dopo la fine della guerra, una volta ritornati in Italia, i pochi ebrei sopravvissuti si resero conto di essere stranieri in patria. Gli eroi di quell'epoca erano i partigiani. Dello sterminio non parlava quasi nessuno. L'indifferenza restava un muro difficile da scalfire. Il motivo poteva essere un gigantesco complesso di colpa per la morte di tanti italiani che professavano una religione diversa da quella cattolica? Mi piacerebbe pensare che fosse così. Ma temo che la causa di quel silenzio fosse l'egoismo che connota tutti gli esseri umani: mi sono salvato io e la tua morte non mi riguarda. Adesso i terroristi di Hamas vorrebbero trasformare Israele in una gigantesca Auschwitz. Tanti di noi stanno a guardare, in silenzio. È chiaro che la storia non ci ha insegnato niente. Prima o poi ne pagheremo lo scotto.

LIBERO - Gianandrea Gaiani:  "
Israele non cada nel tranello. Le 'pause' allungano le guerre"



Gianandrea Gaiani

L'ipocrisia della "tregua umanitaria" è un rito buonista che si ripete in ogni conflitto. A Gaza gli israeliani hanno accettato lo stop delle operazioni militari per 12 ore come il minore dei mali rispetto a una tregua prolungata che vanificherebbe gli sforzi compiuti finora e costati la vita a 40 militari di Tsahal e forse a un migliaio di palestinesi tra i quail è impossibile discriminare tra civili e combattenti. Vale la pena notare che la "tregua umanitaria" imposta a Gerusalemme dagli USA è stata in passato respinta proprio da Washington quando le sue truppe erano all'offensiva in Serbia, Afghanistan e Iraq con la giustificazione di non dare respiro all'avversario. Il paradosso della guerra che "risparmia" il nemico invece di annientarlo è una delle cause del crollo di credibilità militare dell'Occidente, incluso Israele. Per ridurre la pressione intemazionale lo Stato ebraico effettua addirittura "bombardamenti umanitari" avvisando con volantini, altoparlanti e persino sms la popolazione palestinese che determinate aree verranno attaccate. Svelando dove colpiranno gli israeliani rinunciano alla sorpresa e le milizie palestinesi hanno tutto il tempo di ritirarsi (mischiandosi ai civili utilizzati come scudi umani) lasciandosi dietro mine e trappole esplosive che sono la principale causa delle perdite israeliane. Quando le guerre si combattevano per davvero colpire la popolazione contribuiva a minare il morale del nemico e a demolire il consenso nei confronti dei regimi e delle leadership. Questo era lo scopo nel 1940-45 dei bombardamenti aerei su Coventry, Amburgo, Dresda, Tokyo. Prima di portarci democrazia, cioccolata, collant e swing gli anglo-americani bombardarono le città italiane mietendo decine di migliaia di vittime ma ciò nonostante li abbiamo accolti come "liberatori". Oggi che in Afghanistan usiamo i guanti di velluto continuiamo a venire percepiti come Invasori" per giunta inconcludenti dal momento che a fronte dei limitati danni collaterali non siamo riusciti a sconfiggere i talebani e dopo dodici anni ci ritiriamo con la coda tra le gambe. Le guerre di un tempo erano più sanguinose ma alla loro conclusione vincitori e vinti erano ben chiari. Aveva ragione Edward Luttwak quando nel saggio "Give war a chanche" accusava le cosiddette "missioni di pace" di impedire ai conflitti di concludersi prolungando all'infinito l'instabilità e del resto la cultura buonista applicata alla guerra ha fatto molti danni, al punto che agli attacchi nemici un tempo si replicava con la massima concentrazione di fuoco, o con la "risposta proporzionata". Se Israele non andrà fino in fondo, riconquistando la Striscia di Gaza e annientando le milizie palestinesi, le vittime registrate finora su entrambi i lati della barricata saranno state inutili e Hamas potrà ricostruire in breve tempo tunnel e arsenali di razzi prolungando all'infinito una guerra che potrebbe venire risolta in meno di una settimana con un uso più determinato della forza. Certo più sanguinoso ma risolutivo. Del resto le guerre combattute in punta di piedi non portano a vittorie durature. La rivolta contro gli americani nell'Iraq "liberato" da Saddam Hussein non sarebbe stata possibile nella Germania del 1945 per la semplice ragione che quasi tutti i tedeschi in età per combattere erano morti, feriti, prigionieri o invalidi. I tanti fans del raìs risparmiati dalla guerra "politicaily correct" del 2003 hanno dato una mano ai qaedisti a trasformare il nord dell'Iraq nel Califfato.

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