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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - La Repubblica - Corriere della Sera Rassegna Stampa
21.07.2014 I dilemmi di Israele di fronte all'aggressione di Hamas
le opinioni di Aharon Appelfeld, Abraham B. Yehoshua, Etgar Keret

Testata:La Stampa - La Repubblica - Corriere della Sera
Autore: Alain Elkann - Vanna Vannuccini - Etgar Keret
Titolo: «Israele costretta a essere crudele. Non ha scelta - Tra i soldati a Gaza ho anche mio figlio, ma al premeier dico trattare con Hamas -L'esercito potrà vincere, ma il paese perderà»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 21/07/2014,  a pagg. 2-3, l'intervista di Alain Elkann allo scrittore israeliano Aharon Appelfeld, dal titolo "Israele costretta a essere crudele. Non ha scelta", da REPUBBLICA, a  pag. 5,  l'intervista di Vanna Vannuccini ad Abraham B. Yehoshua, dal titolo "Tra i soldati a Gaza ho anche mio figlio, ma al premeier dico trattare con Hamas ", dal CORRIERE della SERA, a pag. 3, l'articolo di Etgar Keret dal titolo "L'esercito potrà vincere, ma il paese perderà", preceduti dai nostri commenti.

Intervistato da Alain Elkann ,Aharon Appelfeld sottolinea come, aggredito da Hamas, che è arrivato a scavare una città sotterranea approntata a quello scopo, Israele non abbia altra scelta che quella di difendersi.

LA STAMPA - Alain Elkann: "Israele costretta a essere crudele. Non ha scelta"



Alain Elkann                      Aharon Applefewld



Aharon Appelfeld vive quasi come un recluso nella sua casa, in un paesino vicino a Gerusalemme. Quando suona l’allarme scende in cantina con la moglie, come chiunque altro in Israele in questi giorni.
«Tutti i ricordi della seconda guerra mondiale mi stanno ritornando in mente e sono sicuro che questo accada a tutti i sopravvissuti dell’Olocausto e a quelli della guerra dei sei giorni e di quella dello Yom Kippur. Non è facile vivere quando tutte le nostre città sono sotto l’attacco dei razzi. Generalmente si ha l’idea che Israele sia un Paese molto forte, armato bene. E nondimeno un piccolo gruppo di terroristi, forse 5000 o 7000, opposti a un Paese di più di 6 milioni di persone, hanno scavato e costruito un’altra città 30-40 metri sotto terra e hanno gallerie in grado di raggiungere il territorio israeliano. Questa gente continua a sparare razzi contro di noi. Combatterli sul terreno per Israele significa una battaglia casa per casa, sarà un confronto brutale e questo diventa un vero problema. Risolvere il problema significa che dobbiamo essere molto crudeli e questo moralmente non è facile da fare. È possibile che ci siano molti morti, da entrambe le parti. Ma che cosa fare contro terroristi che hanno una città sotterranea? È un terribile dilemma».
Ci sono altre soluzioni?
«La proposta di Israele è di smilitarizzare Gaza, ma dubito che i terroristi accettino».
Com’è lo stato d’animo di un israeliano?
«Sono molto forti, ma naturalmente soffrono ogni volta che c’è un nuovo allarme anche se sanno che i razzi vengono intercettati. Io stesso vivo chiuso in casa. Ogni cinque minuti suonano le sirene, soprattutto sulla costa, meno a Gerusalemme».
Ma cosa ne pensa?
«Pensavamo che venendo qui avremmo smesso di soffrire. Venire qui aveva una logica, è il Paese in cui gli ebrei, la loro cultura e la loro fede sono nate. All’inizio c’erano solo mezzo milione di ebrei, mezzo milione di arabi e il deserto. Ma per rispondere alla domanda, come si sentono gli israeliani, c’è una sorta di solidarietà tra le persone. In tempo di pace ci sono molti litigi ma improvvisamente diventano insignificanti di fronte alla guerra».
Pensa che la guerra sia destinata a durare?
«Non sarà breve, perché Israele non può lasciare un tale arsenale vicino alla frontiera. Solo per fare un esempio, pensiamo che tredici uomini ben armati sono sbucati da un tunnel nella notte per distruggere una piccola città israeliana. Questo vuol dire che i loro tunnel si spingono molto all’interno del territorio israeliano. Sono orripilato all’idea che tutti i soldi dati ai poveri palestinesi siano finiti così, nella costruzione dei tunnel».
E gli altri Paesi arabi?
«Siamo molto fortunati perché Hamas è diventato un nemico dell’Egitto. Siria e Iraq hanno altri problemi. Per fortuna abbiamo fatto la pace con l’Egitto e la Giordania».
E l’America e l’Europa?
«L’America si è indebolita, o forse dopo l’Afghanistan e l’Iraq e non sono pronti a investire denaro in altre guerre. Penso abbiano capito che Israele è una roccaforte in quest’area e quindi rafforzano costantemente il loro aiuto. Gli europei vogliono mantenersi in qualche modo neutrali».
Ma non è terribile pensare che i bambini stanno morendo?
«I terroristi proteggono se stessi, non la loro popolazione. La vita umana non conta. Muori e vai in Paradiso. Pare che per loro l’aldilà sia più importante».

Abraham B. Yehoshua, intervistato da Vanna Vannuccini, ricorda giustamente che la guerra non è stata iniziata da Israele, ma da Hamas. Con la quale, sostiene però,  Israele dovrebbe trattare. Una posizione, quest'ultima,  che trascura di considerare che cosa realmente sia Hamas: non solo un gruppo terroristico, ma una forza totalitaria dall'ideologia geonicida, che nella sua carta costitutiva dichiara l'obbiettivo della distruzione di Israele e del massacro di tutti gli ebrei.
L'intervistatrice, Vanna Vannuccini, formula domande che sono quasi tutte accuse a Israele. Non riesce a ottenere da Yehoshua una sentenza di condanna, ma rivela  soltanto la propria faziosità

LA REPUBBLICA - Vanna Vannuccini:  " Tra i soldati a Gaza ho anche mio figlio, ma al premeier dico trattare con Hamas"

  
Vanna Vannuccini               Abraham B. Yehoshua

Gerusalemme La voce , al telefono, trema. «Ho un figlio di 40 anni a Gaza. Ha due bambini piccoli. Sono in grande ansia». Abraham B. Yehoshua è uno dei grandi della letteratura israeliana, e da sempre fa parte di quella tradizione di impegno politico che ha contrassegnato una generazione di intellettuali in Israele. Almeno cento sono le vittime palestinesi di ieri, una gran parte donne e bambini, tredici i soldati morti. Ormai è una guerra. Yehoshua mi interrompe: «Una guerra lo era anche prima. È stata una guerra da quando Hamas ha cominciato a lanciare i suoi razzi. Di questo bisogna tenere conto».
Ma muoiono giovani soldati, donne e bambini vengono uccisi. È vero che Hamas nasconde i missili nei luoghi abitati, ma è difficile non sostenere che questo sia un massacro. Lei è sempre stato un messaggero di pace. Che cosa dice oggi?
«Soffriamo noi per i missili, soffrono loro, la situazione è intollerabile. Ma se i palestinesi avessero accettato il cessate il fuoco non saremmo arrivati a quanto punto. Portano la responsabilità di aver detto di no. Che cosa crede, che gli israeliani applaudano quando a Gaza cadono le bombe?»
Per la verità qualcuno l’ha fatto, a Sderot, una città dove le sirene suonavano ogni ora per l’attacco di missili, tutti fortunatamente sventati dall’Iron Dome, il sistema antimissile israeliano.
«La maggioranza degli israeliani soffre, glielo assicuro. La pace e la dignità delle persone ci stanno a cuore. È vero che è cresciuta la destra, che è aumentato il fanatismo. Dappertutto, non solo in Israele. A Hamas non importa che la gente soffra sotto l’attacco perché soffre in ogni caso, e non gli importa nemmeno dei morti. L’esercito non ha avuto altro modo che estendere le operazioni, una volta che i tentativi di mediazione sono tutti falliti».
Per non farli fallire bisognava forse cedere su almeno una delle richieste di Hamas, no?
«Ma l’Egitto ha rifiutato. Per questo la mia proposta a Netanyahu è che Israele parli direttamente con Hamas, subito. La chiusura del valico di Rafah è stato ciò che ha scatenato la guerra. Non è che noi dobbiamo fare la guerra per conto degli egiziani! Perciò dobbiamo parlare con Hamas. È la strada che abbiamo sempre seguito. Abbiamo parlato con i giordani, con i siriani, con gli egiziani, con l’Olp. Io sono vecchio abbastanza per poterlo ricordare. Ho servito nell’esercito fin dagli anni ‘50 nel Sinai, a Gerusalemme sono stato tre mesi sotto le bombe giordane, vivendo nei rifugi: però abbiamo sempre scelto il dialogo e alla fine abbiamo fatto la pace. Dobbiamo trattare seriamente con Hamas, aprire il blocco della Striscia e ottenere la demilitarizzazione di Gaza. Ci sono dei falchi nella coalizione di governo di Netanyahu, ma il sentimento della grande maggioranza degli israeliani è questo: bisogna parlare con Hamas sotto l’ombrello dell’Autorità palestinese di Mahmoud Abbas, e dare ad Abbas via libera per i due Stati, quello palestinese accanto a quello israeliano. Questa è la via, non ce ne sono altre».
La soluzione dei due Stati rimane ufficialmente la posizione israeliana, ma non sembra che a Netanyahu stia davvero molto a cuore. Aveva senso continuare pervicacemente negarla, come il premier ha sempre fatto?
«Ma ora spetta a lui prendere l’iniziativa e chiedere una trattativa diretta nel quadro del governo unitario che era stato formato dall’Autorità palestinese insieme a Hamas. L’ho detto per decenni, e continuo a dirlo adesso: i palestinesi sono i nostri vicini e lo saranno eternamente, questa è la realtà». Lei ha sempre cercato di promuovere il dialogo, ha preso parte alle iniziative che denunciano la prepotenza colonialista delle truppe occupanti in Cisgiordania, non pensa che ormai troppo odio sia cresciuto da entrambe le parti?
«Sì, sostengo per esempio i soldati di “Breaking the silence” che denunciano gli episodi di violenza contro i palestinesi, lo faccio perché voglio rendere il nostro esercito più forte, non più debole. E perché credo che l’ingiustizia, la negazione del diritto, corrodano anche la società israeliana. Ma lei ha ragione: mai, nemmeno durante la guerra d’indipendenza, un anno e mezzo sotto il fuoco dei paesi arabi, avevo sentito tanto odio nei confronti degli arabi come adesso. Ma ribadisco: non abbiamo alternativa se non due Stati, con un corridoio che permetta un passaggio tra Gaza e Cisgiordania come era stato previsto a Oslo».
Molti dicono che con gli insediamenti due Stati sono irrealistici. «I coloni potranno continuare a vivere nello Stato palestinese, con un passaporto palestinese e un’identità israeliana».
Lei nei suoi libri ha disegnato una visione sionista: si è incrinata questa visione? «Direi più una visione d’Israele che una visione sionista. Certamente Israele sta attraversando tempi bui, ma sono tempi bui per tutti, per l’Italia, per la Germania, non solo per noi».

Il commento di Etgar Keret è sintomatico della cecità pacifista della sinistra. Si augura la pace – chi plaude alla guerra ?- ma indossa i panni preferiti della sinistra, si presenta come una vittima della destra, secondo lui, montante in Israele. Che è l’opposto di quanto avviene. Per giudicare la politica di un paese, prima di ogni altra cosa, si guarda alla formazione del governo, quello di Israele è una coalizione che in questi giorni di guerra obbligata contro Hamas ha trovato il consenso della maggioranza dei partiti,anche di opposizione, pur nelle differenti analisi. Persino Meretz, il partito della sinistra intellettuale, quello di Keret, descrive la situazione in termini opposti. Ma è Keret che il Corriere sceglie per descrivere la situazione.

CORRIERE della SERA - Etgar Keret:  "L'esercito potrà vincere, ma il paese perderà "


Etgar Keret

 Nell’ultima settimana mi imbatto sempre più spesso in un noto slogan:
 «Let the Idf win», ovvero: «Lasciate vincere l’esercito israeliano». Molti dei ragazzi che lo citano sulle loro pagine Facebook sono sicuri che sia stato appena inventato in onore dell’operazione in corso a Gaza. Io, però, sono abbastanza vecchio da ricordare che è nato come adesivo per auto e in seguito è divenuto un mantra. Questo slogan, ovviamente, non è destinato a Hamas o ai cittadini dei Paesi europei ma alla gente che vive qui e racchiude la maledetta visione del mondo di Israele negli ultimi quattordici anni. Il suo primo, errato, presupposto è che in Israele c’è chi impedisce all’esercito di ottenere una vittoria e di conseguenza la pace e la tranquillità auspicate. Tali entità sabotatrici sono, ovviamente, io, mia moglie e tutti i nostri amici della sinistra che, di volta in volta, impediamo al nostro onnipotente esercito di vincere incatenandone le possenti braccia con articoli noiosi e appelli disfattisti a mostrare sentimenti di umanità e di empatia. Se non ci fossero dei traditori come noi l’esercito israeliano avrebbe già vinto da un sacco di tempo portandoci la pace alla quale aneliamo per l’eternità. L’altro presupposto, molto più pericoloso, è che l’esercito, di fatto, può vincere. «Siamo pronti a sopportare tutti questi razzi, senza nessuna tregua» dice la famiglia di turno intervistata nel sud di Israele «purché questa storia finisca una volta per sempre».
Dodici anni, quattro operazioni a Gaza e siamo rimasti con lo stesso slogan distorto. I bambini che andavano in prima elementare durante l’operazione «Scudo difensivo» sono ora soldati che entrano a Gaza e in ognuna di queste operazioni c’è sempre qualche politico di destra e qualche analista militare che spiega che «questa volta dovremo andare fino in fondo». E quando li guardi sullo schermo non puoi fare a meno di chiederti a quale «fondo» si riferiscano. Perché anche se tutti i combattenti di Hamas verranno annientati qualcuno crede davvero che, assieme a loro, sarà annientata anche l’aspirazione del popolo palestinese all’indipendenza nazionale? Prima di Hamas abbiamo combattuto contro l’Olp e dopo Hamas, con la speranza di essere ancora qui, combatteremo certamente contro qualche altra organizzazione palestinese. L’esercito potrà vincere le battaglie ma solo un compromesso politico potrà garantire pace e sicurezza ai cittadini israeliani. Ma questo, secondo le forze patriottiche che gestiscono la campagna in corso, è proibito dirlo perché sono proprio discorsi del genere a ostacolare la vittoria dell’esercito. Quindi, quando l’operazione sarà finita e ognuna delle due parti conterà i propri morti, ancora una volta il dito accusatore sarà puntato verso di noi.
È terribile commettere un errore tragico che può costare la vita a molte persone. È molto più terribile commetterlo ancora e ancora e ancora. Quattro operazioni, un numero enorme di morti e torniamo sempre allo stesso punto. L’unica cosa che cambia è la tolleranza della società israeliana verso le critiche. Durante quest’ultima operazione abbiamo potuto constatare che la destra ha perso la pazienza nei confronti del confuso concetto di «libertà di espressione». Nelle ultime due settimane siamo stati testimoni del pestaggio di manifestanti della sinistra da parte di attivisti della destra, di apertura di pagine di Facebook chiamate «Morte a quelli di sinistra» e di appelli al boicottaggio di chi potrebbe impedire all’esercito di ottenere l’agognata vittoria. A quanto pare il sanguinoso percorso compiuto da un’operazione all’altra in Israele non è circolare, come pensavamo. È a spirale e la direzione di questa spirale è verso il basso, verso nuovi baratri che, purtroppo, avremo modo di conoscere.
(Traduzione di Alessandra Shomroni )

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