Egitto, la situazione vista da Washington. Maurizio Molinari sulla STAMPA e Gian Micalessin sul GIORNALE.
La Stampa-Maurizio Molinari: " Al Cairo Obama punta sui generali "
Suleiman con Bibi
L’ amministrazione Obama guarda alle forze armate egiziane come garanti della transizione verso le elezioni presidenziali di settembre. L’interlocutore privilegiato è il generale Sami Hafez Enan, capo di Stato Maggiore, che fino a venerdì mattina era al Pentagono per discutere con il parigrado americano Mike Mullen gli scenari strategici in Africa e Medio Oriente. Appena le proteste di piazza sono lievitate Hafez Enan è tornato in gran fretta in patria e il generale James Cartwright, vice di Mullen, ammette che «nei corridoi» sono avvenute «conversazioni» sui disordini.
Il paludato linguaggio del Pentagono cela il fatto che le forze egiziane sono considerate una garanzia di stabilità da Washington. Un veterano del Medio Oriente come Edward Djerejian, già ambasciatore in Siria e Israele, lo riassume così: «I militari hanno rovesciato la monarchia nel 1952, espresso tutti i presidenti da allora, riscattato l’onore nazionale con la guerra del 1973, non sono considerati corrotti e guidano il più potente esercito arabo nella nazione-perno della pace con Israele, che è anche titolare del Canale di Suez attraverso cui passa una buona parte del greggio per l’Occidente». Le immagini dei manifestanti che abbracciano i militari hanno rafforzato la convinzione americana che siano i generali a poter evitare l’incubo dello «scenario iraniano» che Martin Indyk, ex consigliere di Bill Clinton sul Medio Oriente, riassume con queste parole: «L’America deve fare attenzione a non commettere gli errori che nel 1979 spinsero le piazze iraniane ad esserci ostili, ne stiamo ancora pagando il prezzo».
Scongiurarlo significa spingere i militari egiziani a non sparare sui manifestanti, diventando piuttosto un pungolo per indurre Mubarak alle riforme, cominciando con garantire elezioni davvero libere. E’ questo il motivo che ha portato il presidente Barack Obama a minacciare l’interruzione degli aiuti annuali all’Egitto - 1,3 miliardi di dollari - se dovesse scattare la repressione: la maggioranza di tali fondi va infatti, dal 1978, ai militari che li hanno usati per costruire un esercito di tipo occidentale, con aerei e navi americane, addestrando una forza di 468 mila uomini che ne fa il decimo esercito al mondo. In concreto ciò significa che la Casa Bianca mette i generali davanti a un bivio: sparare sulla gente significa rinunciare ai fondi, con in più il rischio di far scivolare la rivolta nelle mani dei Fratelli Musulmani rimasti finora alla finestra.
L’esercito d’altra parte può essere tentato di cercare una rivincita su Mubarak, che ha sempre cercato di ridurne l’influenza con decisioni simili a quella presa nel 1989 quando defenestrò il ministro della Difesa Abdel Halim Abu Ghazala - un popolare eroe di guerra - per sostituirlo con il meno amato Hussein Tantawi. Se da un lato Washington guarda ai militari dall’altro preme su Mubarak affinché eviti la repressione. Il portavoce del Dipartimento di Stato, Philip Crowley, gli manda a dire che «non basta rimescolare le carte» con il rimpasto di governo e «l’impegno alle riforme deve essere seguito da fatti concreti» mentre David Axelrod, guru politico della Casa Bianca, svela che «da due anni Obama preme su Mubarak per una svolta» facendo capire che la pazienza è finita. La designazione di Omar Suleiman come vicepresidente sembra premiare gli sforzi americani in atto perché lo zar dell’intelligence è un apprezzato interlocutore dei generali guidati da Hafez Enan: potrebbe essere un patto fra i due ad allontanare lo spettro di un collasso nazionale.
A confermare che da tempo Washington puntava ad un’accelerazione democratica c’è il dispaccio diplomatico redatto il 30 dicembre 2008 da Margaret Scobey, ambasciatrice al Cairo, a Hillary Clinton e reso pubblico da Wikileaks. Nel testo Scobey scrive «dobbiamo sostenere le riforme in Egitto» affermando di essere a conoscenza di «un piano segreto dei gruppi di opposizione per un cambio di regime prima delle presidenziali». Il memo fu mandato a Hillary in vista della partenza per New York di almeno un dissidente egiziano del gruppo «6 Aprile», che riuscì a lasciare Il Cairo sfuggendo ai controlli grazie agli americani.
Il Giornale-Gian Micalessin: " Obama peggio di Carter, autogol in Medio Oriente"
Obama/Carter
Rassegnamoci, son passati 30 anni e siamo alle prese con un nuovo Jimmy Carter. Tra il 1977 e il 1981 quel predecessore democratico di Obama innamorato dei diritti umani regala l’Iran alla rivoluzione khomeinista, concede a Mosca i più importanti baluardi africani, assiste inerte all’invasione sovietica dell’Afghanistan. In quattro anni trascina l’Occidente sull’orlo del tracollo strategico. Barak Obama, salutato dai nemici di Bush come il nuovo messia, sta facendo anche di peggio nella metà del tempo. La sua amministrazione sta regalando l’egemonia mediorientale all’Iran e alla Turchia e ha già archiviato tutti i sogni di rinascita regionale accesisi dopo la guerra a Saddam Hussein.
Ma il caso egiziano rischia di rivelarsi il suo de profundis .
Per capirlo, anche se il fior fiore della nostra intellighenzia democratica storcerà il naso, bisogna tornar indietro di 6 anni, riascoltare quel discorso sullo Stato dell’Unione con cui George W. Bush inaugura nel 2005 la «politica della libertà» e il sogno di un Medioriente democratico. Quel sogno parte non a caso proprio dal Cairo. Nel discorso del 2005 Bush si rivolge proprio all’Egitto, chiede al già tentennante e senescente autocrate del Cairo «di aprire la strada» alla democrazia. Poche settimane più tardi il segretario di Stato Condolezza Rice annulla una visita al Cairo. Subito dopo chiede a Hosni Mubarak l’abrogazione dello stato d’emergenza e una serie di riforme in vista delle elezioni del settembre di quell’anno.La minaccia di cancellare 2 miliardi di dollari d’aiuti annui fa il resto. Il 26 dello stesso mese Mubarak annuncia le sofferte riforme seguite dalla liberazione di molti prigionieri politici e dalle elezioni più libere dell’ ultimo trentennio.
E Obama? Il suo calvario mediorientale si apre e si chiude, non a caso, proprio con l’Egitto. Inizia con lo schioppettante, quanto retorico, discorso ai musulmani dall’aula magna dell’Università di Al Azahr e si conclude con la disfatta di queste ore al Cairo. Il peccato originale è proprio in quel discorso. Un discorso che tutti in Medio Oriente- dal più fanatico fondamentalista all’ultimo autocrate - interpretano non come apertura, ma come ammissione di debolezza.Da quel momento l’America rinuncia a qualsiasi possibilità di persuasione morale, smette di esser una nazione guida, si presenta come una potenza in declino. Una potenza che i dittatori possono permettersi il lusso d’ignorare e gli amici dell’Iran e del fondamentalismo di sfidare. Non a caso a novembre del 2010 la Casa Bianca e Hillary Clinton permettono a Mubarak d’inscenare la più vergognosa e sistematica truffa elettorale degli ultimi anni organizzando un’elezione parlamentare preceduta dal ritorno allo stato di emergenza e dalla sistematica cancellazione degli oppositori dalle liste elettorali. Quel voto truffa avvallato dal silenzio americano è il vero incubatore della rivolta, la prova dell’inettitudine dell’amministrazione statunitense.
Un’inettitudine confermata dal discorso dell’Unione di pochi giorni fa. Un discorso in cui nonostante la fresca caduta dell’alleato tunisino Ben Alì e l’imminente apocalisse egiziana si glissa su politica estera e situazione mediorientale. Per non parlare delle contraddizioni di Hillary Clinton. Alla vigilia della fuga di Ben Alì si rivolge agli alleati mediorientali invitandoli a far i conti con una regione «che affonda nella sabbia ». Pochi giorni dopo definisce «stabile» il regime di Mubarak salvo poi difendere «i diritti universali del popolo egiziano» e far nuovamente marcia indietro dopo la rivolta di venerdì quando ricorda che la «violenza non risolve i problemi».
Nel solco di questa politica inconsistente e contraddittoria Washington abbandona la Tunisia, regala il Libano ad Hezbollah, lascia sempre più solo e isolato lo stato ebraico, rischia ora di perdere l’Egitto. Ma dire addio al Cairo significa perdere il primo paese capace di siglare una pace con Israele, rischiare la catastrofe economica di una Suez in mano al fondamentalismo, rinunciare ad uno dei capisaldinella contrapposizione con l’Iran. Significa, in altre parole, firmare la Waterloo americana in Medioriente.
Per inviare alla Stampa, al Giornale, il proprio commento, cliccare sulle e-mail sottostanti.