Riduci       Ingrandisci
Clicca qui per stampare

Il Foglio Rassegna Stampa
14.07.2017 Turchia: che cosa è cambiato a un anno dall'inizio delle purghe di Erdogan
Analisi di Daniele Raineri, Eugenio Cau

Testata: Il Foglio
Data: 14 luglio 2017
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri - Eugenio Cau
Titolo: «Erdogan si allarga - Trauma turco»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 14/07/2017, a pag. 1, con il titolo "Erdogan si allarga", l'analisi di Daniele Raineri; con il titolo "Trauma turco", l'analisi di Eugenio Cau.

Per approfondire, rimandiamo all'analisi di Angelo Pezzana pubblicata oggi su IC: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=66950

Ecco gli articoli:

Daniele Raineri: "Erdogan si allarga"

Immagine correlata
Daniele Ranieri

Immagine correlata
Recep Tayyip Erdogan

 

Roma. Il collasso progressivo dello Stato islamico in Iraq e Siria crea conseguenze e reazioni in tutta la regione. In questi giorni la Turchia ammassa mezzi militari pesanti vicino al confine con la Siria e tre giorni fa un quotidiano turco molto vicino al governo Erdogan, lo Yeni Safak, ha chiesto con un titolo cubitale un intervento militare in territorio siriano contro i curdi del cantone di Afrin, nella provincia di Idlib. Non sono che le ultime battute di una conversazione sempre più forte e fatta di indizi, speculazioni e indiscrezioni a proposito di un imminente intervento della Turchia in Siria. L’esercito di Erdogan entrò in Siria con i carri armati, migliaia di uomini e forze speciali – appoggiati dai bombardieri – già l’anno scorso ad agosto, un mese dopo il golpe fallito del 15 luglio. Il punto da cui i turchi entrarono era sopra Aleppo. Lo scopo dichiarato dell’ope - razione era combattere contro lo Stato islamico e anche frenare l’espansione dei curdi, che come tutti sanno Ankara considera come nemici temibili. Prima di continuare serve una precisazione: Afrin, il luogo che ora è al centro dell’interesse, è un cantone curdo isolato che sta nel nordovest della Siria e se fosse collegato agli altri cantoni allora i curdi godrebbero di una continuità territoriale ininterrotta lungo tutto il confine turco. In pratica, nascerebbe una regione autonoma curda che si estenderebbe dall’Iraq fin quasi alla riva del Mediterraneo. La Turchia punta a bloccare la nascita di questo Kurdistan siriano. Il presidente Recep Tayyip Erdogan l’ha scritto su Twitter: “Lo dico davanti a tutto il mondo. Non permetteremo mai la costituzione di uno stato curdo nel nord della Siria, costi quel che costi”. Afrin inoltre è nella provincia di idlib, dove si concentrano i gruppi armati anti Assad. Si creerebbe una situazione nuova.

Di questa operazione si parla molto, anche se per ora è soltanto una congettura. I gruppi armati siriani sono certi che avverrà davvero e provano a descriverla in anticipo: i turchi avanzeranno su tre assi per prendere una zona larga circa 35 chilometri. Gli ambienti filogovernativi turchi fanno allusioni. A fine giugno una televisione e un giornale, entrambi vicini al governo di Ankara, hanno prodotto reportage da dentro la Siria in cui affrontavano l’ipotesi della costruzione di una base militare dell’esercito turco su un monte preciso dentro la Siria, da cui si controlla bene il territorio circostante. L’articolo diceva che “la maggioranza della popolazione di Idlib vedrebbe bene l’intervento dei soldati turchi, se provvedessero sicurezza e mettessero fine al terrorismo”. Il luogo è stato identificato da un sito inglese specializzato in indagini giornalistiche, Bellingcat. Considerato che attraversare il confine siriano è quasi impossibile per i giornalisti non autorizzati dal governo (vedi per esempio il caso dell’italiano Gabriele Del Grande, arrestato soltanto perché era nella zona di confine), si può dire che la storia della base militare turca in Siria avesse l’aria di un’anticipazione concordata, perché il grande pubblico familiarizzasse con l’idea. Il governo Erdogan per questa operazione ha un partner, la Russia, e un oppositore, l’America. Con Mosca si parla di uno scambio, negoziato durante un incontro recente avvenuto il 4 luglio tra Erdogan e il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu.

I termini di questo ipotetico scambio sarebbero questi: Mosca concede il suo assenso all’operazione della Turchia contro il cantone di Afrin e la Turchia aiuta Mosca a negoziare un cessate il fuoco con i gruppi armati di Idlib, una tregua che poi dovrebbe evolvere in operazioni contro le frange estremiste e infine – ma chissà quando – in accordi con il governo siriano (Mosca inoltre in questa campagna vorrebbe coinvolgere truppe delle ex repubbliche sovietiche centroasiatiche, come il Kazakistan). L’America si oppone, perché se i turchi attaccano Afrin tutti i curdi che in questo momento stanno assediando lo Stato islamico a Raqqa lasceranno quella zona d’operazione e andranno a respingere l’intervento turco. Questa è la situazione: bisogna cominciare a pensare alla battaglia di Mosul in Iraq non come a una scena finale, ma soltanto come alla scena d’apertura di una nuova fase in medio oriente.

Eugenio Cau: "Trauma turco"

Immagine correlata
Eugenio Cau

Immagine correlata
Murat Salim Esenli, l’ambasciatore turco a Roma

Roma. Per la Turchia, il fallito golpe del 15 luglio di un anno fa, quando una parte dell’esercito cercò di prendere il potere bombardando Ankara, è un’ossessione che non si rimargina. Lo è per il presidente Recep Tayyip Erdogan, che da un anno esatto cita il tentato golpe praticamente in tutti i suoi discorsi, trasformandolo in un’arma retorica potente che gli ha consentito, dopo lo scossone, di consolidare ancora di più il suo status.

Lo è per l’opposizione, che accusa Erdogan di avere approfittato del golpe per indebolire lo stato di diritto, ammassare potere e imprigionare i suoi nemici. Il capo del Chp, il Partito repubblicano e kemalista che è la principale forza anti Erdogan, le scorse settimane ha organizzato una lunga marcia a piedi da Ankara a Istanbul per chiedere giustizia dopo che le indagini post golpe erano arrivate a lambire la dirigenza del suo partito, e la sua protesta si è trasformata in un movimento di massa. Secondo il ministero della Giustizia turco, nell’ultimo anno 50.510 persone sono state arrestate e 169.013 sono in attesa di giudizio per sospetti collegamenti con la Fetö, l’organizzazione terroristica che secondo il governo fa capo al religioso esiliato Fethullah Gülen e avrebbe ordito il colpo di stato fallito. Ma il golpe è anche una ferita che non si rimargina nelle relazioni internazionali. Nell’ultimo anno il clima tra Ankara e i suoi partner occidentali si è fatto a volte ostile. Nei discorsi di Erdogan le citazioni del fallito golpe si annodano ad accuse all’occidente, da ultimo ieri in un’intervista alla Bbc, in cui il presidente dice che se l’Unione europea interrompesse il processo di ingresso della Turchia sarebbe quasi “un sollievo”, visto il suo comportamento “non sincero”, anche se la Turchia, ha detto, rimarrà “sincera ancora per un po’”. Nonostante questo “non abbiamo intenzione di rinunciare alle nostre relazioni con l’Europa”, dice al Foglio Murat Salim Esenli, l’ambasciatore turco a Roma. “C’è un’interdipendenza tra noi. Dopo il tentato colpo di stato le relazioni si sono fatte sospettose, ma adesso siamo pronti a guardare al futuro con ottimismo”.

Il fallito golpe ha segnato il punto più basso dei rapporti tra l’occidente e la Turchia, già tesi dopo anni di polemiche. I turchi hanno subìto una delusione cocente quando hanno visto che l’Europa ha atteso il risultato degli scontri prima di dare il proprio sostegno alla parte vincitrice, come se quasi sperassero nella caduta di Erdogan (ma l’Italia è stata un’eccezione positiva, dice l’ambasciatore), e gli europei, d’altro canto, hanno visto nelle purghe dei mesi successivi la prova della discesa di Ankara verso l’autoritarismo. L’Europa ha iniziato a protestare per l’ondata di arresti, e la Turchia ha preso le critiche come prova ulteriore di un’alleanza ormai a brandelli. Oggi, i turchi sono convinti di essere vittime di una grande opera di demonizzazione: “La Turchia è un elemento fondamentale di stabilità non solo per la regione ma anche più in generale per l’Unione europea”, dice l’am - basciatore Esenli citando come esempi del “perfetto comportamento della Turchia” la gestione della crisi migratoria e la lotta al terrorismo. “Ma sentiamo che i nostri sforzi non sono apprezzati come dovrebbero, anzi: siamo perfino criticati”. Secondo l’ambasciatore, che riecheggia la retorica erdoganiana, se la reputazione di Ankara in occidente è ai livelli minimi da oltre un decennio è esclusivamente per fattori esterni: non c’è spazio per la riflessione autocritica nel discorso pubblico turco. Per giustificare l’enorme numero di persone arrestate nel corso di questo anno in relazione al golpe, l’ambasciatore spiega che è un problema di prospettiva: “Il fallito golpe è stato un evento senza precedenti ed è comprensibile che si faccia fatica a empatizzare con le misure che abbiamo preso, e che comunque rispettano le garanzie di legge”. Ma da qui è partita una campagna antiturca che avrebbe molti responsabili: “Elementi dell’organizzazione Fetö si sono infiltrati nei media internazionali per gettare discredito sulla Turchia”, dice l’ambasciatore. “I media, le ong e certi leader hanno posto una cortina di fumo tra noi e l’Europa per non far vedere che abbiamo fatto grandi sforzi per risolvere i problemi non solo nostri, ma anche quelli degli europei”. E le decine di giornalisti imprigionati? Per il governo non c’è libertà di stampa che tenga: “Nessuna professione è immune”.

Per inviare la propria opinione al Foglio, telefonare 06/589090, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui