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Il Foglio Rassegna Stampa
22.04.2017 Europa, islam: lo scontro di civiltà
Analisi di Bernard Lewis

Testata: Il Foglio
Data: 22 aprile 2017
Pagina: 1
Autore: Bernard Lewis
Titolo: «Europa, islam»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 22/04/2017, a pag. 1, con il titolo "Europa, islam", l'analisi di Bernard Lewis.

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Bernard Lewis

Pubblichiamo ampi stralci di un articolo apparso sul Weekly Standard del 4 ottobre 2004. Lo sguardo del professore emerito della Princeton University sul dibattito relativo all’ingresso della Turchia nella Ue, il destino del continente davanti alle sfide della contemporaneità, le lezioni (dimenticate) della storia.

Raramente il corso della storia europea è stato cambiato da un’osservazione di passaggio fatta da un non-politico in un giornale tedesco nel bel mezzo del completo ristagno estivo. Il 28 luglio, lo storico di Princeton Bernard Lewis ha dichiarato al quotidiano conservatore Welt che, “al più tardi” entro la fine del secolo, l’Europa sarebbe diventata islamica. E da quel giorno la politica europea non è più stata la stessa. Pochi giorni prima del terzo anniversario dell’11 settembre, l’olandese Fritz Bolkestein, il dimissionario Commissario alla concorrenza dell’Unione europea, ha scatenato un putiferio quando ha menzionato l’osservazione di Lewis in occasione di un discorso pronunciato all’apertura dell’anno accademico dell’Università di Leida. Bolkestein ha avvertito che l’Europa è destinata a “implodere” se si espanderà con troppo rapidità. Ha scelto il momento più opportuno per sollevare questo problema. Fra pochi giorni, il commissario europeo all’Allargamento, il tedesco Günther Verheugen, farà pubblicare un rapporto sui modi per aprire i negoziati con la Turchia riguardo alla sua adesione all’Ue. Ci si aspetta che sia un rapporto favorevole. La Commissione deve votare su questo rapporto a dicembre; dopodiché si prevede un decennio di negoziati.

Ma, poiché il rapporto di Verheugen sarà con ogni probabilità favorevole e poiché è presumibile che la Commissione approvi le raccomandazioni del rapporto e poiché, infine, nessuno stato candidato all’Ue è mai stato finora rifiutato, il processo appare come un fait accompli. Grazie a che cosa? Grazie all’umore di Verheugen, i popoli d’Europa vedono il loro destino irrevocabilmente incatenato a quello del mondo islamico. Anzi, la necessità di creare un legame solenne con il secolarismo islamico che la Turchia ha seguito dopo l’ascesa al potere di Atatürk, è la ragione più spesso menzionata per dimostrare l’indispensabilità dell’ingresso della Turchia nell’Ue. Così, Bolkestein stava affrontando un turbamento di portata continentale. Il suo discorso è stato lungo. Riferendosi all’aspirazione dell’Ue di diventare uno stato multinazionale, ha richiamato l’attenzione sul destino cui andò incontro la più recente potenza europea che abbia nutrito quest’aspirazione: l’impero austroungarico. Gli austriaci contavano sulla loro cultura (a Vienna vissero Liszt, Richard Strauss, Brahms, Mahler e Wagner). Godevano di grande prosperità ed erano orgogliosi della loro posizione. Ma erano soltanto otto milioni, e l’espansione delle loro frontiere li mise faccia a faccia con un vigoroso movimento panslavico. Dopo che l’Impero austroungarico ebbe assorbito 20 milioni di slavi, dovette cercare di trovare un difficile compromesso tra la concessione a questi nuovi sudditi del permesso di autogovernarsi e la conservazione della propria cultura.

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Esattamente come nel caso dell’Ue, l’impero aveva già oltrepassato il punto di non ritorno quando si accorse che non stava andando da nessuna parte. Bolkestein ha chiesto quale lezione devono trarre gli europei dalla storia, nel momento in cui prendono in considerazione la possibilità di accogliere la Turchia. Ha poi trattato due problemi specifici. In primo luogo, il fatto che non si vedeva all’orizzonte una conclusione logica all’espansione europea: una volta che l’Ue avrà accettato la Turchia, non ci saranno ragioni per rifiutare paesi molto più europei come l’Ucraina o la Bielorussia. Così, l’Europa sta aggravando una situazione di instabilità. Per affrontarla le mancano tanto i mezzi finanziari quanto la solidarietà culturale. In secondo luogo, ha avvertito Bolkestein, l’immigrazione sta trasformando l’Ue in “un Impero austroungarico di proporzioni molto più vaste”. Ha accennato al fatto che molte grandi città avranno presto soltanto una minoranza di europei (due tra le più importanti, Amsterdam e Rotterdam, nella sua madrepatria) e ha ribadito che la (progettata) aggiunta di 83 milioni di musulmani turchi accentuerà ulteriormente l’islamizzazione dell’Europa. E’ stata questa la parte del suo discorso (nella quale ha citato le previsioni di Lewis) che ha occupato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo: “Le attuali tendenze”, ha detto, “consentono una sola conclusione: gli Stati Uniti d’America resteranno la sola superpotenza. La Cina sta diventando un gigante economico. L’Europa si sta islamizzando”.

Ne è nata una specie di reazione a catena. Due giorni dopo il discorso di Bolkestein, il Financial Times ha pubblicato una lettera che Franz Fischler, l’uscente commissario dell’Ue per l’Agricoltura, aveva inviato privatamente ai commissari suoi colleghi. Fischler si lamentava che la Turchia “era un paese di natura molto più orientale dell’Europa” e, peggio ancora, che “rimanevano dubbi sulle credenziali laiche e democratiche della Turchia. Ci sarebbe potuto essere un ritorno violento del fondamentalismo”. La reazione dell’Europa è stata un collettivo “E ce lo dite soltanto adesso!”. Considerate insieme, le osservazioni di Bolkestein e di Fischler sono apparse sintomatiche della politically correctness che circonda la questione dell’adesione turca. Una maggioranza del Parlamento europeo e i vari parlamenti nazionali sono contrari all’ingresso della Turchia nell’Ue, e anche le popolazioni europee sono schierate sulla stessa posizione. E’ stata la Commissione europea a guidare questo processo; e ora due autorevoli membri di questo organismo, al momento di abbandonare la loro carriera politica, dicono che è stato tutto un grande errore di cui nessuno osa parlare (forse l’unica cosa che fa infuriare l’uomo della strada europeo ancora più di questa ambiguità burocratica è il costante appoggio dato dagli Stati Uniti all’ingresso della Turchia nell’Ue).

La cosa più interessante a proposito dell’intervista di Lewis che ha suscitato questa ondata di introspezione europea è che non era dedicata specificamente all’Europa. L’intervistatore ha chiesto a Lewis la sua opinione sugli sviluppi della guerra in Iraq, sull’evoluzione della questione palestinese, sulle speranze democratiche dell’Iran e sulle prospettive di vittoria contro al Qaida (su quest’ultimo tema Lewis ha dato un’inquietante risposta: “Si tratta di un processo lungo il cui risultato non è affatto certo”, ha detto, aggiungendo: “Funziona in modo simile al comunismo, che affascinava gli scontenti dell’occidente perché sembrava offrirgli risposte non ambigue. L’islam radicale esercita la stessa forza d’attrazione”). Lewis è stato altrettanto incisivo quando ha descritto la spaccatura tra Ue e Stati Uniti usando l’espressione “comunità dell’invidia” (“Comprensibilmente, gli europei hanno alcune riserve su un’America che li ha nettamente distaccati. E’ per questo che gli europei comprendono perfettamente i musulmani, che condividono gli stessi sentimenti”).

Ma il tema del futuro islamico dell’Europa è stato toccato solo incidentalmente nel corso dell’intervista. Alla domanda se l’Ue potesse fare da contrappeso globale agli Stati Uniti, Lewis ha risposto con un secco “no”. Secondo Lewis, solo tre paesi possono essere degli attori “globali”: sicuramente la Cina e l’India e, forse, una rinnovata Russia. “L’Europa”, ha aggiunto Lewis, “diverrà parte dell’occidente arabo, del Maghreb”. Ciò che sembra avere fatto infuriare gli europei è il fatto che Lewis non ha presentato questa affermazione come un’ipotesi azzardata, ma come se fosse qualcosa che ogni persona politicamente neutrale e intellettualmente onesta dà per scontato. E’ davvero così? Bolkestein ha detto di non sapere se le cose andranno proprio come predetto da Lewis (“Ma se ha ragione”, ha aggiunto, “la liberazione di Vienna nel 1683 sarà stata inutile”). Bassam Tibi, un immigrato siriano, tra i più autorevoli rappresentanti dell’islamismo moderato in Germania, sembra concordare con la tesi di Lewis, anche se rifiuta la sua enfasi. “O l’islam si europeizza, oppure l’Europa si islamizza”, ha scritto sul Welt am Sonntag. Avendo trascorso gran parte dell’ultimo decennio impegnandosi nella costruzione di giudiziose istituzioni musulmane in Europa, sembra volerci avvertire che l’Europa non ha la forza di rifiutare l’islam né la possibilità di guidarlo. “Il problema non è se la maggioranza degli europei diventa musulmana”, ha dichiarato, “ma piuttosto quale forma di islam è destinata a dominare in Europa: l’islam della sharia o l’euroislam”.

IL PERICOLO MAGGIORE PER L’OCCIDENTE (Da Foreign Affairs, 2005)
Il pericolo maggiore è rappresentato dai fondamentalisti islamici, per i quali la democrazia è una delle espressioni del Male incarnato dall’occidente, sia nella forma antica del dominio imperiale che in quella moderna di penetrazione culturale. Per il Corano, Satana è “il tentatore insidioso che sussurra nel cuore degli uomini”. Ai loro occhi i modernizzatori, con i loro appelli rivolti alle donne e ai giovani, colpiscono al cuore l’ordine islamico in seno allo stato, nei luoghi di insegnamento, nei mercati, nel seno stesso della famiglia. Per i fondamentalisti, non solo gli occidentali, con i loro discepoli e seguaci, impediscono all’islam di procedere sulla via predestinata del suo trionfo finale sul mondo, ma lo minacciano nella sua stessa terra d’origine. A differenza dei riformatori, i fondamentalisti individuano i problemi del mondo musulmano non nelle sue carenze, ma in un eccesso di modernizzazione. E la democrazia è l’intrusione di estranei infedeli, che però costituisce soltanto uno degli elementi del più vasto e pernicioso piano di Satana e delle sue legioni. La reazione fondamentalista alla concezione occidentale del governo, e più ancora all’influenza sociale e culturale dell’occidente, ha covato a lungo, radunando le forze. E ha trovato espressione in una letteratura che sta esercitando un’influenza crescente, nonché in una serie di movimenti di attivisti, il più importante dei quali è la Fratellanza Musulmana, fondata in Egitto nel 1928.

L’islam politico è divenuto un fattore internazionale di rilievo dai tempi della rivoluzione iraniana, nel 1979. In medio Oriente si è sempre fatto un grande abuso del termine «rivoluzione», per designare o giustificare i più diversi episodi di trasferimenti violenti del potere. Ma quella iraniana è stata una vera rivoluzione: un cambiamento di vasta portata, con contenuti ideologici molto significativi. Una sfida e una trasformazione di fondo della società, che ha avuto un immenso impatto su tutto il mondo islamico, tanto intellettualmente quanto moralmente e politicamente. Il regime teocratico dell’Iran è stato portato al potere da un’ondata di sostegno popolare, alimentato dal risentimento contro il vecchio regime, la sua politica e le sue alleanze. Ma da allora, il governo in carica è diventato sempre più impopolare, dato che i mullah al potere si sono dimostrati non meno corrotti e oppressivi dei governanti di altri stati della regione. Numerosi segnali stanno ad indicare una crescente ondata di scontento in Iran. C’è ci aspira a un cambiamento radicale, sotto forma di un ritorno al passato. Altri, di gran lunga più numerosi, ripongono le loro speranze nell’avvento di una vera democrazia. Anche per questo il governo iraniano guarda con grande apprensione agli sviluppi democratici in atto in Iraq, e i suoi timori sono aggravati dal fatto che gli iracheni – come gli iraniani – sono in maggioranza sciiti. La stessa esistenza di una democrazia sciita al confine occidentale dell’Iran costituirebbe non solo una sfida, ma una minaccia mortale al regime dei mullah. Da qui i loro sforzi per contrastare questo sviluppo.

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Ma al momento attuale, il ruolo di maggior rilievo è quello dei fondamentalisti sunniti. Un elemento importante della guerra santa sunnita è la diffusione del wahabismo, che in alcune aree è ormai dominante. I wahabiti sono seguaci di una scuola islamica sorta a Najd, nell’Arabia centrale, nel XVIII secolo, che ha dato non poco filo da torcere ai governanti del mondo musulmano dell’epoca, ma è stato infine arginato e represso. E’ però ricomparso nel XX secolo, e ha acquistato una nuova importanza quando la famiglia di capi tribali Saud si è convertita al wahabismo, e dopo aver conquistato le città sante della Mecca e della Medina ha instaurato la monarchia saudita. Questi eventi hanno portato alla convergenza di due fattori di primaria importanza: innanzitutto, i sauditi wahabiti governano oggi le città sante, e il controllo dei pellegrinaggi annuali dei musulmani conferisce loro un immenso prestigio e una grandissima influenza sul mondo islamico. Inoltre dispongono delle immense ricchezze dovute alla scoperta e allo sfruttamento dei pozzi petroliferi. Quella che altrimenti sarebbe rimasta una frangia estremista in un paese marginale ha quindi oggi un impatto a livello mondiale. Ma le forze alimentate e coltivate a lungo, prima di essere scatenate, minacciano oramai la stessa monarchia saudita. Il primo grande trionfo dei fondamentalisti sunniti è stato il tracollo dell’Unione Sovietica, che consideravano – non senza qualche buona ragione – come un loro successo. Ai loro occhi, la sconfitta dell’Unione Sovietica non era l’esito della Guerra fredda condotta dall’occidente, bensì una vittoria del jihad islamica dei guerriglieri afghani. Osama Bin Laden e i suoi sostengono di aver distrutto una delle maggiori superpotenze infedeli – la più difficile da battere e la più pericolosa. E pensano che sarà assai più facile battere gli americani, degenerati e troppo abituati alle comodità. Quanto agli Stati Uniti, spesso hanno fatto vacillare questo convincimento con le parole e coi fatti, ma in molti casi lo hanno invece rafforzato.

In una competizione elettorale realmente libera, i fondamentalisti avrebbero sui riformisti e sui moderati una serie di vantaggi. Innanzitutto, il loro linguaggio ha un suono più familiare alle orecchie dei musulmani. I partiti democratici promuovono un’ideologia e usano termini generalmente estranei all’uomo della strada musulmano; mentre i fondamentalisti evocano valori radicati e si servono di un linguaggio ben noto, sia per attaccare l’ordine secolare e autoritario esistente che per proporre un’alternativa. Inoltre, per diffondere il loro messaggio i fondamentalisti hanno a disposizione una rete di contatti e comunicazioni di straordinaria efficacia: quella degli incontri nelle moschee e dei sermoni dal pulpito. Nessuno dei partiti secolari può avere accesso a uno strumento paragonabile a questo. Inoltre, i rivoluzionari religiosi e gli stessi terroristi riescono a conquistare appoggi grazie ai loro sforzi, non di rado autentici, per alleviare le sofferenze della gente comune: un impegno che appare spesso in netto contrasto con l’incallita indifferenza e l’avidità dimostrata dalle forze più influenti in medio oriente, e degli attuali detentori del potere. Visto l’esempio della rivoluzione iraniana, si è indotti a pensare che una volta al potere, questi militanti religiosi non si dimostrerebbero migliori dei loro predecessori, e rischiano anzi di rivelarsi addirittura peggiori Ma nel frattempo sono favoriti dalla percezione della popolazione, che ripone in loro le sue speranze.

Va infine citato un fattore che è forse il più importante di tutti: in nome dei principi che sostengono, i partiti democratici sono tenuti a lasciare piena libertà d’azione ai fondamentalisti. Ma questi ultimi non sono soggetti agli stessi vincoli, e una volta al potere si riterranno probabilmente investiti della missione di reprimere i sediziosi e gli infedeli. Ma al di là di queste difficoltà non mancano i segni di speranza, soprattutto alla luce delle elezioni generali irachene del gennaio scorso. Milioni di iracheni si sono recati alle urne, hanno atteso in fila il loro turno e hanno votato, consapevoli di rischiare la vita in ogni momento. E’ stato un risultato di grande portata, il cui impatto è già visibile nel mondo arabo e negli stati vicini. Ma se la democrazia araba ha vinto una battaglia, non ha ancora vinto la guerra. E deve tuttora far fronte a molti pericoli, che provengono non solo da nemici spietati e risoluti, ma anche dagli stessi amici, spesso esitanti e inaffidabili. Ma è stata una grossa battaglia; e le elezioni irachene si riveleranno forse un punto di svolta nella storia del medio oriente, non meno importante dell’arrivo in Egitto, due secoli fa, del generale Bonaparte e della Rivoluzione francese. La creazione di un ordine politico e sociale democratico, in Iraq o altrove in medio oriente, non sarà cosa facile. Ma è possibile. Ed è già incominciata, come molti segnali dimostrano ogni giorno di più.

Al momento attuale, i principali rischi che minacciano la stabilizzazione della democrazia in Iraq sono due: il primo è che non funzioni – un timore che molti hanno espresso negli Stati Uniti, e che in Europa è quasi un dogma. L’altro timore, che gli ambienti del potere mediorientale avvertono con preoccupazione molto maggiore, è che al contrario funzioni. Evidentemente, una società realmente libera in Iraq costituirebbe una minaccia mortale per molti governi della regione, alcuni dei quali sono considerati ostili da Washington, mentre altri passano per alleati degli Stati Uniti. La fine della Seconda guerra mondiale ha aperto alle ex potenze dell’Asse la strada della democrazia. La fine della Guerra fredda ha offerto a molti degli ex stati sovietici un primo spazio di libertà, avviando una dinamica in senso democratico. Con molta tenacia e pazienza, alla fine sarà forse possibile portare giustizia e libertà ai popoli a lungo tormentati del medio oriente.

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