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Il Foglio Rassegna Stampa
31.08.2016 Siria: nè Onu nè Ue risolveranno niente, ci vuole realpolitik, non chiacchiere
Analisi di Gianni Castellaneta

Testata: Il Foglio
Data: 31 agosto 2016
Pagina: 3
Autore: Gianni Castellaneta
Titolo: «In Siria non vincerà nessuno, ora serve tanta realpolitik»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 31/08/2016, a pag.3, con il titolo " In Siria non vincerà nessuno, ora serve tanta realpolitik ", l'analisi di Gianni Castellaneta.

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Gianni Castellaneta
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A cinque anni dall’inizio della guerra civile in Siria, tutto il mondo si chiede quanto potrà durare ancora questo conflitto sanguinoso che ha provocato fino a ora più di quattrocentomila vittime e oltre quattro milioni di rifugiati all’estero. E’ indubbio che negli ultimi mesi si siano verificati dei sensibili progressi che hanno prodotto una ritirata delle formazioni facenti capo a Daesh, che a livello territoriale non può più vantare il controllo di tipo quasi statuale che aveva fino a un anno fa e si è trovato costretto ad arretrare verso la propria roccaforte di Raqqa. Eppure, il livello di equilibrio sul campo di battaglia siriano è talmente alto che una fine del conflitto appare ancora molto difficile da scorgere. C’è chi dalle colonne del New York Times si è recentemente azzardato a prevedere che la guerra in Siria durerà addirittura per almeno altri dieci anni. Nessuna delle grandi potenze che sostengono le due parti in causa sembra in effetti in grado al momento di imporre una soluzione a proprio vantaggio. Come si è giunti a questa situazione di sostanziale “paralisi”, o meglio, di perpetuazione di uno scenario di violenza che non presenta apparente possibilità di soluzione? I motivi, credo, sono principalmente due. Da una parte, il fatto che vi siano numerose potenze esterne coinvolte, ognuna con i propri interessi nella questione e che a fatica si possono raggruppare in due schieramenti netti e opposti l’un l’altro. Dall’altra parte, la riluttanza degli attori esterni a volersi impegnare in prima persona con un’occupazione militare vera e propria, limitandosi a mettere in atto delle guerre per procura che, seppur meno costose per le casse dello stato e più “digeribili” agli occhi dell’opinione pubblica, hanno contribuito a esacerbare una situazione di incertezza che in sostanza non consente ad alcuna delle fazioni in gioco di mettere a segno il punto decisivo e porre fine al dramma siriano. Pensiamo all’intreccio di alleanze e interessi confliggenti che hanno finito per produrre un groviglio difficile da districare. Gli Stati Uniti vogliono la destituzione di Assad, ma al contempo Obama non ha voluto – né potuto, specialmente in questi anni pre elettorali – portare il proprio paese in un’altra guerra esplicitamente dichiarata attraverso l’invasione manu militari della Siria. Washington sta cercando di contenere le “intemperanze” di Erdogan, che negli ultimi mesi ha accentuato la pressione contro i curdi e di approfittare di Daesh a proprio vantaggio, salvando contemporaneamente i rapvirtù della strategica appartenenza alla Nato. Nel complicato “minuetto” con Ankara, non va dimenticato che gli Stati Uniti sostengono le azioni dei curdi contro le milizie dell’Isis, cosa che ovviamente il governo turco vede come un attacco alla propria sicurezza interna. Washington deve inoltre gestire il complicato rapporto con la Russia di Putin, che da un lato è il più deciso difensore del dittatore di Damasco ma dall’altro rappresenta anche un possibile, importante alleato contro la follia terrorista dello Stato islamico. Infine, va menzionato anche il delicato rapporto degli Stati Uniti con l’Arabia Saudita e gli altri stati del Golfo: alleati a parole, “sospetti” fiancheggiatori del Califfato nei fatti. Il quadro è completo se a tutto ciò aggiungiamo lo stallo interno determinato dalla campagna per le presidenziali, che non consente a Obama di prendere iniziative di rottura. La partita di Mosca Lo stesso esercizio potrebbe essere ripetuto con gli altri attori in gioco. La Russia, ad esempio, si dimostra molto attiva nell’area ricucendo i rapporti con Ankara e Teheran ma deve al contempo coprire le difficoltà sul piano interno, a livello soprattutto economico. Dunque, la prospettiva di una guerra cheequilibrio appare realistica. Si tratta di uno scenario terribile per la regione mediorientale e mediterranea, ma anche per l’Italia che si confronta ogni giorno con gli ingenti flussi di rifugiati in arrivo dalla Siria e deve temere una situazione di instabilità permanente con possibili ripercussioni sui paesi dell’area che si estende fino al Nordafrica, dal Libano alla Libia, alla Tunisia. Che fare, dunque, per cercare una via d’uscita? Alla fine, la soluzione di insegnamento bismarckiano è sempre la stessa, e risponde al termine realpolitik. E’ ormai evidente, dopo che la dottrina dell’“esportazione” della democrazia ha clamorosamente fallito così come purtroppo la fase delle primavere arabe (pur con la bella eccezione della Tunisia, un germoglio di speranza per l’intera regione da tutelare con cura), che mai come in questa fase è necessario un atteggiamento pragmatico per cercare di porre fine a un conflitto che rischia di protrarsi in maniera insostenibile per la stabilità politica, economica, sociale e demografica della regione. Le potenze occidentali dovrebbero favorire una soluzione negoziata con l’aiuto dei quattro paesi che sembrano essere ora più attivi e maggiormente in grado di imporre la pace: Russia e Turchia in primis, poi Iran e Arabia Saudita, il cui ambiguo atteggiamento si è finora rivelato uno dei problemi più spinosi. Non dimentichiamo infatti che anche Riad sta combattendo la propria proxy war contro Teheran, ormai in via d’uscita dal lungo isolamento internazionale e dunque sempre più in grado di essere il principale rivale dei sauditi per la leadership geopolitica nella regione. Il ruolo passivo di Washington Stati Uniti e Unione europea, seppur divisi e disorientati, dovrebbero puntare in questa fase esclusivamente a ottenere la cessazione delle ostilità, senza transigere sulla difesa dei diritti fondamentali delle popolazioni a noi più vicine, dai curdi alle comunità cristiane a quanti hanno combattuto in buona fede l’estremismo islamico e Daesh. Un cessate il fuoco permanente è infatti la condizione minima (ma probabilmente anche quella “massima” che si può aspirare a ottenere nel breve periodo) e necessaria per poter radunare attorno a un tavolo tutte le parti statuali in causa e ridefinire l’assetto della regione attraverso una grande conferenza internazionale con la garanzia di tutti i partecipanti, che abbia innanzitutto la finalità umanitaria di porre fine all’emorragia demografica in atto in Siria. E’ inevitabile che il punto di partenza per la ridefinizione di confini e autorità politiche saranno le linee tracciate all’indomani dei due conflitti mondiali, e che hanno negli accordi di Sykes-Picot la geografia di riferimento, seppur nei suoi vizi di fondo che sono in parte alla base della polveriera mediorientale di questi ultimi anni. Eppure non vi è altro modo nel breve periodo per tentare di sconfiggere le varie forme di terrorismo che hanno avuto modo di proliferare: internazionale, individuale e per così dire “spontaneo”, settario, sponsorizzato da attori terzi. Si tratterebbe insomma di prendere atto dell’impossibilità per nessuno dei competitor di prevalere nettamente sugli altri e di negoziare un accordo che riporti stabilità e sicurezza. Che i tempi siano maturi per una proposta di questo genere, che richiede ambizione e coraggio ma che al momento sembra l’unica possibile? Vari episodi, dall’intensificazione degli incontri internazionali sulla Siria, alle attività navali nel Golfo Persico, all’evoluzione della guerra nello Yemen, fino al rafforzamento delle truppe del generale Haftar in Libia, fanno pensare che è entrato nella fase finale un tentativo di portare al tavolo negoziale tutti i protagonisti del conflitto siriano con i loro rispettivi sponsor. Una fase cruciale potrebbe dunque essere vicina, e il nostro auspicio è che il tempo per l’inizio della pacificazione sia vicino. In questo complesso scenario, non va di certo dimenticato il ruolo dell’Italia, che non si deve appiattire sulle posizioni concordate a livello comunitario (conoscendo peraltro la debole rilevanza dell’Unione europea nelle questioni di politica estera). Da tempo ripetiamo che il nostro paese ha una posizione chiave nell’area, e il nostro contributo può essere determinante per favorire la stabilizzazione soprattutto a livello umanitario, disciplinando i flussi di rifugiati e normalizzandoli fino alla progressiva interruzione. Saprà il governo Renzi tutto concentrato sulla crescita e i problemi interni, cogliere questa occasione storica, riannodando i rapporti con tutti i protagonisti, non solo con belle parole da tutti ipocritamente condivise, ma con concrete proposte? E’ vero che i referendum in Italia non si vincono con i successi in politica estera ma alla lunga questi ultimi favoriscono ogni governo con ambizioni di lunga durata. Stare in seconda fila può apparire comodo ma alla fine fa la differenza tra furbizia e intelligenza.

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