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La Stampa Rassegna Stampa
23.11.2017 Siria e Libano: il problema è l'Iran e i suoi alleati, da Hezbollah alla Russia di Putin a Erdogan
Cronaca di Giuseppe Agliastro, Giordano Stabile intervista Moustafa Allouche, consigliere di Saad Hariri

Testata: La Stampa
Data: 23 novembre 2017
Pagina: 13
Autore: Giuseppe Agliastro - Giordano Stabile
Titolo: «Elezioni e dialogo con l’opposizione. Il patto a tre per il futuro della Siria - 'L’unica via d’uscita alla crisi in Libano è disarmare le milizie di Hezbollah'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 23/11/2017, a pag.13, con il titolo "Elezioni e dialogo con l’opposizione. Il patto a tre per il futuro della Siria" la cronaca di Giuseppe Agliastro; con il titolo 'L’unica via d’uscita alla crisi in Libano è disarmare le milizie di Hezbollah' l'intervista di Giordano Stabile a Moustafa Allouche, consigliere di Saad Hariri.

Ecco gli articoli:

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Un deposito di armi di Hezbollah

Giuseppe Agliastro: "Elezioni e dialogo con l’opposizione. Il patto a tre per il futuro della Siria"

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Giuseppe Agliastro

Russia, Iran e Turchia si sono ormai ufficialmente ritagliati un ruolo di primaria importanza nella ricerca di una soluzione al conflitto in Siria. E in vista di una sconfitta militare dell’Isis che appare ormai imminente, Putin, Erdogan e Rohani si sono riuniti ieri a Sochi per discutere del futuro del Paese mediorientale e trovare un compromesso che li soddisfi. I tre presidenti hanno interessi diversi e spesso divergenti in Siria. Ma sembrano decisi ad andare avanti insieme e spartirsi il bottino da buoni amici senza pestarsi troppo i piedi. L’incontro sulle sponde del Mar Nero è servito a proseguire il dialogo per la creazione di future sfere di influenza. Il primo passo in questa direzione è il Congresso del popolo siriano promosso dal Cremlino che Russia, Turchia e Iran hanno finalmente concordato di mettere in piedi nel prossimo futuro. Nelle intenzioni di Mosca, servirà per stabilire le linee politiche chiave e la Costituzione della nuova Siria. Vi parteciperanno i rappresentanti del governo di Bashar al Assad - tenuto in sella dall’intervento militare russo - e quelli di diversi gruppi etnici e politici. Ma la questione più spinosa resta sempre la stessa: vi parteciperanno i curdi? Putin, si sa, vuole coinvolgerli nelle trattative, anche per non lasciarli completamente nelle mani degli Usa, che li sostengono militarmente. Ma Erdogan non vuole cedere e a Sochi ha subito messo le cose in chiaro prima ancora di tornare in patria: «L’esclusione degli elementi terroristici che minacciano l’unità politica e l’integrità territoriale della Siria nonché la nostra sicurezza nazionale continuerà a far parte delle priorità della Turchia», ha tuonato, definendo i curdi siriani «una banda sanguinaria che cerca di dividere il Paese».

 

Al di là delle frasi di facciata sulla «ricerca della pace e della stabilità in Siria», la strada da fare è ancora molta. Con la differenza che mentre a Riad i rappresentanti di una trentina di gruppi d’opposizione continuano a litigare tra loro e a chiedere la testa di Assad, ieri a Sochi forse qualcosa si è mosso. Russia e Iran sostengono le forze governative siriane, la Turchia invece alcuni gruppi di ribelli. Ma tutti e tre i Paesi sbandierano ai quattro venti la loro volontà di cooperare. Putin, Erdogan e Rohani hanno infatti mandato un chiaro messaggio incontrandosi a Sochi: nella questione siriana noi giochiamo un ruolo imprescindibile. E a fare la parte del leone è soprattutto Vladimir Putin, che ieri in conferenza stampa sembrava particolarmente a suo agio seduto in mezzo tra il presidente turco e quello iraniano. I raid dei jet russi hanno ribaltato le sorti del conflitto a favore di Assad, che adesso non rischia più di perdere la poltrona da un giorno all’altro. Lunedì il dittatore siriano è volato a Sochi apposta per incontrare Putin in vista del vertice di ieri. Avrebbe accettato «riforme costituzionali e elezioni libere sotto il controllo dell’Onu». Ma non è improbabile che si tratti di parole a vuoto. Il leader del Cremlino tratta però anche con Donald Trump, con il re saudita Salman, con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. E oggi, a meno di una settimana dall’inizio dei nuovi negoziati di pace a Ginevra, l’inviato speciale Onu Staffan de Mistura è atteso a Mosca: ormai una tappa obbligata sulla strada verso la soluzione del conflitto.

Giordano Stabile: 'L’unica via d’uscita alla crisi in Libano è disarmare le milizie di Hezbollah'

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Giordano Stabile

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Moustafa Allouche

Saad Hariri è tornato in una Beirut tutta azzurra per le bandiere del suo partito, Future. Ha pregato sulla tomba del padre. Ha assistito, dal palco d’onore, alla parata per la festa dell’Indipendenza, seduto accanto al presidente Michel Aoun. Poi dal palazzo presidenziale di Baabda, il premier libanese ha annunciato che «sospendeva» le sue dimissioni, annunciate in tv da Riad 18 giorni fa, e spiegato che il suo gesto serviva a rilanciare un «dialogo responsabile» per migliorare le relazioni con i «fratelli arabi» e tenere fuori il Libano dai «conflitti regionali». Ma è sembrato un altro Hariri rispetto a quello «prigioniero» nella capitale saudita, teso e che prometteva di «tagliare le mani all’Iran». Ieri ha stretto quelle dell’ambasciatore iraniano. Segni di distensione. Hassan Nasrallah, leader del partito sciita Hezbollah ha dato qualche segnale di disponibilità, e annunciato il ritiro dei suoi miliziani dall’Iraq. Ancora non basta, la speranza è ora che si vada verso la soluzione di una crisi che stava per trascinare il Libano in un’altra guerra civile. Moustafa Allouche, uno dei principali leader di Future e consiglieri di Hariri, resta però prudente e non risparmia critiche neanche al grande alleato, l’Arabia Saudita: «Contento? C’è poco da gioire: la crisi è appena cominciata e l’aspetto libanese è una piccola onda in un tempesta che scuote l’intero Medio Oriente».

Cominciamo dalla crisi libanese.
«Ci sono soluzioni belle, ma impossibili. E ci sono soluzioni mediocri. La vera via di uscita da questa situazione è il disarmo di Hezbollah. Sono 17 anni che se ne parla, da quando è finita l’occupazione israeliana nel Sud. Non si è fatto un solo passo in avanti. Il presidente Aoun deve molto a Hezbollah, difficilmente farà grosse concessioni su questo punto».

Se Hariri non ce la fa, è pronto un sostituto nel campo sunnita?
«Il movimento Future ha preparato dirigenti di alto livello in questi anni. I nomi non li faccio, tanto circolano già (fra gli altri il suo, quello del generale Ashraf Rifi, e il fratello di Hariri Bahaa, ndr). Detto questo, Hariri resta uno dei rari leader davvero liberali in Medio Oriente. C’è un bisogno disperato di una visione di questo tipo, laica, democratica. Il Libano resta forse l’unica democrazia regionale, anche se azzoppata dal settarismo. Ma ora è stritolata da forze molto più grandi».
Cioè?
«La prima forza, che da trent’anni continua ad aumentare la sua influenza, è quella della rivoluzione iraniana. È l’ideologia khomeinista del velayat e faqih, il governo dei religiosi, che ha riacceso questa attesa messianica, del ritorno del Madhi, nelle comunità sciite dall’Iraq al Libano. Questo movimento è un avversario di tutte le forze liberali e ha creato delle potenti forze armate, milizie, a sostegno del suo progetto. Una minaccia evidente».

Anche nel campo sunnita, però, l’estremismo è dilagato. Come giudica il ruolo dell’Arabia Saudita?
«Il Regno saudita è stato costruito settant’anni fa su due pilastri: il feudalesimo e il settarismo. Sono due pilastri molto negativi che influenzano tutto il Medio Oriente. Prendiamo l’economia: perché un giovane deve trovare un buon posto di lavoro solo attraverso i legami famigliari, di clan, feudali, o attraverso l’appartenenza settaria? E non perché è il più qualificato? Un forte cambiamento in questo senso è la rivoluzione che ci serve».

Ora però, in Arabia Saudita, i tentativi di riforma di Mohammed bin Salman suscitano molte speranze.
«Sono molto prudente. La struttura di quello Stato, così come è stata concepita, è molto difficile da riformare. La gestione delle dimissioni di Hariri è stata un errore madornale da parte dell’Arabia Saudita, che ha alimentato il sospetto che fosse tenuto in ostaggio. In realtà è questa la nostra condizione di libanesi, oggi. Tutti i due campi sono affetti dalla sindrome di Stoccolma, amano i loro sequestratori».

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