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La Stampa Rassegna Stampa
10.11.2017 Libano: si accende lo scontro tra Arabia Saudita e Iran
Cronache e commenti di Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 10 novembre 2017
Pagina: 12
Autore: Giordano Stabile
Titolo: «Riad minaccia il Libano: guerra imminente - Nel suq di Beirut abbandonato dagli stranieri: 'Ora temiamo un altro conflitto per procura'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 10/11/2017, a pag.1-12. con i titoli "Riad minaccia il Libano: guerra imminente", "Nel suq di Beirut abbandonato dagli stranieri: 'Ora temiamo un altro conflitto per procura' ", due servizi di Giordano Stabile.

Ecco gli articoli:

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Giordano Stabile

"Riad minaccia il Libano: guerra imminente"

L’Arabia Saudita, seguita dal Kuwait, ordina a tutti i suoi cittadini di lasciare il Libano «immediatamente» e lascia intendere che il rischio di una guerra nel Paese dei cedri è ormai imminente. Beirut accusa Riad di «tenere prigioniero» il suo primo ministro Saad Hariri, che sabato si è dimesso in un discorso pronunciato dalla capitale saudita, e da allora non è più tornato in patria. Il braccio di ferro fra la potenza sunnita e la piccola nazione multiconfessionale ieri è salito ancora di grado e la crisi, come temuto, si sta allargando a tutta la regione. Anche perché, rivelano fonti diplomatiche, un eventuale attacco da parte saudita o israeliana scatenerebbe la reazione iraniana: i Pasdaran, dopo la conquista ieri dell’ultima città in mano all’Isis al confine siro-iracheno, sono in grado di «muovere dall’Iraq e riversare in pochissimo tempo sul Golan 50-60 mila miliziani» lungo il «corridoio sciita», ora aperto da Baghdad a Damasco.

La giornata di ieri si è aperta con la controffensiva da parte del governo libanese. Un funzionario, che ha voluto rimanere anonimo, ha accusato il governo di Riad di aver orchestrato la crisi. Venerdì scorso i sauditi, ha spiegato, «hanno improvvisamente ordinato ad Hariri di andare a Riad e di leggere le sue dimissioni alla tv». Da allora al premier, di confessione musulmana sunnita, è concessa soltanto «una ristretta liberà di movimento e questo è un attacco alla sovranità libanese».

L’obiettivo dei sauditi è quello di costringere il Libano a escludere dal governo Hezbollah, il movimento sciita alleato dell’Iran. Il Partito di Dio ha però replicato che questa è «un’aggressione» al Libano e che il presidente Michel Aoun, cristiano, «sta chiamando i leader arabi» perché facciano pressione sul principe ereditario Mohammed Bin Salman e lo convincano a lasciare Hariri libero di tornare a Beirut. Sulla volontarietà delle dimissioni i media libanesi hanno avanzato dubbi fin da sabato. Il viaggio in Arabia Saudita è avvenuto senza l’entourage che di solito accompagna il premier. Il discorso alla tv Al-Arabiya «non era scritto da lui o dai suoi collaboratori ma da qualcuno che parla l’arabo del Golfo»: i politici arabi usano nelle comunicazioni ufficiali l’arabo classico contaminato dall’arabo colloquiale locale, e quello di Hariri non aveva caratteristiche libanesi.

L’Arabia Saudita ha però replicato che il primo ministro libanese «è libero di muoversi» e lo dimostra il fatto che mercoledì è andato ad Abu Dhabi per un colloquio bilaterale con l’emiro, e ieri ha incontrato l’ambasciatore francese e il rappresentante dell’Ue nella sua residenza a Riad. Nella capitale saudita continua il giro di vite contro la corruzione, in realtà una «purga» nei confronti di principi e uomini d’affari ostili al principe ereditario: il numero delle persone arrestate è salito a 102 e sono 1200 i conti correnti congelati, anche negli Emirati Arabi Uniti, per un totale di 100 miliardi di dollari che si sospetta siano stati sottratti illegalmente alle finanze pubbliche.

L’aria, però, non è quella «di una guerra imminente», spiegano fonti diplomatiche: l’Arabia Saudita, in difficoltà contro i ribelli sciiti Houthi nello Yemen, «non ha i mezzi per colpire il Libano». L’impressione è che Riad stia cercando di esercitare la «massima pressione psicologica possibile» su Beirut, mentre sono in corso trattative per la formazione di un nuovo governo, magari con lo stesso Hariri riconfermato ma senza Hezbollah. Un’azione militare, in ogni caso, richiederebbe la collaborazione di Israele, che dovrebbe come minimo concedere il passaggio nel suo spazio aereo ai cacciabombardieri sauditi.
In questo momento però lo Stato ebraico, in modo particolare le forze armate, sembra molto prudente. Un conflitto con il Libano potrebbe allargarsi alla Siria. E l’Iran, attraverso il generale dei Pasdaran Qassem Suleimani, è in grado di muovere «50-60 mila miliziani sciiti» dall’Iraq alla Siria fino alle Alture del Golan. Ieri l’esercito siriano, appoggiato da quello iracheno e dalle milizie Hash al-Shaabi e dallo stesso Hezbollah, ha conquistato Al-Bukamal, l’ultima città in mano all’Isis in Siria, al confine con l’Iraq. Il «corridoio sciita» è adesso aperto da Baghdad a Damasco, in un Medio Oriente in piena «ristrutturazione» geopolitica.

 

 "Nel suq di Beirut abbandonato dagli stranieri: 'Ora temiamo un altro conflitto per procura' "

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Bandiere di Hezbollah e dell'Iran

Con il loro solito sarcasmo i beirutini hanno già battezzato tutta la vicenda «Il ratto dal serraglio», dall’opera lirica di Wolfgang Amadeus Mozart. Il Grand Sérail, serraglio, è l’imponente palazzo a tre piani fatto costruire dagli ottomani, su una collina che sovrasta quella che una volta era la città vecchia e il suk di Beirut. Dall’indipendenza, nel 1943, è la sede del governo e il centro del potere sunnita in Libano, perché il premier per convenzione deve essere un musulmano sunnita.

Adesso a esser rapita dal «serraglio» non è una bella fanciulla, come nell’opera, ma il primo ministro Saad Hariri, «prigioniero», qui ne sono convinti, dei suoi stretti alleati sauditi. L’ironia non riesce però a nascondere l’angoscia di una città che si ritrova di nuovo in bilico, prigioniera, lei sì di sicuro, del braccio di ferro fra Arabia Saudita e Iran.

Il Gran Sérail è stato completamente ricostruito dopo il 1990, quando quindici anni di guerra civile avevano lasciato la città in macerie. Anche la città vecchia, tutta in pietra gialla tagliata, è nuova di zecca, con al centro la Piazza de l’étoile e il Parlamento. I blocchi di cemento, il filo spinato e le sbarre di acciaio che filtrano gli accessi sono i soliti ma l’idea di cittadella del potere assediato è ancora più forte adesso che è esplosa la crisi con l’Arabia Saudita e il rischio di un’altra guerra per procura combattuta sul suolo libanese è più alto che mai. Il suq ha perso nella ricostruzione ogni briciola di anima mediorientale. Ci sono le boutique delle grandi case di moda, soprattutto italiane, i ristoranti di catene internazionali. La clientela del Golfo si è diradata già a partire da due anni fa, quando ci fu la prima crisi con Riad. Sono spariti i ricchi giovanotti in bermuda, barba lunga e occhiali da sole accompagnati dalle mogli rigorosamente velate. «Gli affari vanno male da troppo tempo – è la litania nei negozianti – questo sarà il colpo di grazia, a meno che non ritornino i clienti europei».

Rafik Hariri, il padre dell’attuale premier ucciso da un’autobomba nel 2005, aveva puntato tutto sul gigantesco progetto della ricostruzione: soldi dal Golfo e creatività libanesi. Ne è venuta fuori una specie di Las Vegas, fatta per piacere soprattutto ai ricchi sauditi, qatarini ed emiratini. Anche Zeituna Bay, la baia degli ulivi, con la sua bella marina e gli yacht ancorati davanti al pontile in legno, ha un aspetto finto, accentuato dallo scheletro del mitico Hotel Saint-Georges, mai ricostruito dopo l’esplosione che uccise il premier. Era il centro della vita e degli incontri fra gli «expat» e i beirutini, fra il quartiere di Hamra, sede di tutti i giornali, teatri e caffè, e il mare. Adesso per ritrovare quella vivacità bisogna spostarsi verso la zona cristiana, a Est, nei quartieri di Gemayzeh e Mar Mikhail, ai piedi della collina di Ashrafieh dove abitano i ricchi maroniti e ortodossi.

Il Café Paul, sul lato orientale della Piazza dei Martiri, ancora sventrata, resta uno dei punti di ritrovo preferiti. «Hariri forse non è prigioniero, ma di sicuro è sotto ricatto – ragiona Patricia Khoder, giornalista della testata francofona l’Orient-Le Jour –. Tutti i suoi affari ruotano attorno all’Arabia Saudita, come quelli del padre, possono rovinarlo in un attimo se non fa quello che gli ordinano». Il riferimento è all’enorme credito, 9 miliardi di dollari, che vanta la società di costruzioni del premier, la Oger, nei confronti del governo saudita. Se i soldi non tornano indietro, Hariri «è fallito». Il «sequestro» ha però fatto aumentare le simpatie nei confronti del primo ministro anche negli ambienti cristiani. La speranza è nella Francia, storica alleata, con il presidente Emmanuel Macron diretto a Riad per «liberare Hariri». Alla sede del giornale Annahar, il Giorno, tutti appoggiano la decisione del presidente Michel Aoun di non accettare le dimissioni «finché Hariri non sarà tornato a Beirut». La mossa di Riad ha riaperto vecchie ferite e riacceso l’orgoglio: «Prima dettava legge la Siria, poi l’Iran, ora anche l’Arabia usa gli stessi metodi. È il momento di riprenderci il nostro Paese».

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