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La Stampa Rassegna Stampa
25.09.2017 Oggi il referendum per l'indipendenza del Kurdistan
Commento di Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 25 settembre 2017
Pagina: 13
Autore: Giordano Stabile
Titolo: «Il referendum curdo nella morsa di Iran e Turchia»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 25/09/2017, a pag.13 con il titolo "Il referendum curdo nella morsa di Iran e Turchia" il commento di Giordano Stabile.
Domani si conoscerà il risultato del referendum. Sarà di nuovo la STAMPA il solo giornale a scriverne?

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Giordano Stabile

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Meglio morire combattendo che lentamente di fame. Nel palazzo presidenziale di Sari Blend il leader curdo Massoud Barzani spiega così il perché del referendum sull’indipendenza. E perché ha deciso di tenerlo ora, senza aspettare qualche mese, qualche anno, come gli chiede la comunità internazionale. Appare affaticato. Ha ricevuto ambasciatori e telefonate fino all’ultimo momento. Ai confini della nuova nazione che sta per nascere si addensano minacce sempre più concrete. L’Iran ha chiuso il suo spazio aereo ai voli dal Kurdistan e sospeso tutti i collegamenti con Sulaymaniyah ed Erbil su «richiesta dell’autorità di Baghdad». La Turchia ha trasformato le manovre di avvertimento alla frontiera, nella zona di Silopi, in un presidio permanente, il preludio di una possibile invasione con decine di migliaia di soldati e centinaia di tank. Il Parlamento ha approvato compatto la mossa; i media vicini al presidente Recep Tayyip Erdogan parlano di «ultimo avviso».



Sotto questa pressione tremenda i curdi cominciano a chiedersi se questo referendum, questo passo verso la dichiarazione formale di indipendenza, non rischi di compromettere tutto quello che hanno conquistato negli ultimi 25 anni, un’autonomia sempre più ampia, un proprio esercito, un governo, un budget separato da quello centrale. Barzani però è convinto del contrario. Lo ha spiegato in decine di comizi nelle ultime settimane. Lo spiega ora ai giornalisti, all’opinione pubblica internazionale. Il Kurdistan ha creduto nella possibilità di vivere in un Iraq federale, con la Costituzione del 2005. È Baghdad ad aver tradito quel patto. Le risorse che dovevano arrivare dal governo centrale, il 17 per cento delle entrate federali, non si sono mai viste. Da quasi due anni Erbil non riesce a pagare gli stipendi tutti i mesi, e se lo fa sono salari dimezzati. In un Paese che vive degli introiti petroliferi, con il settore pubblico che fornisce più di metà degli impieghi, significa «morire lentamente di fame».

Barzani è convinto che lo «strangolamento» possa essere fermato solo da un colpo di mano. Ogni volta che ha azzardato, come con le prime elezioni curde del 1992, poi Baghdad «ha trattato» e gli alleati esteri lo hanno alla fine appoggiato. Dopo il voto popolare, con i sondaggi che danno il sì all’80 per cento, andrà a negoziare con il governo centrale: «non ci sarà una dichiarazione di indipendenza immediata», ci vorranno mesi, forse un anno. La partnership con Baghdad dentro uno Stato federale «è fallita», insiste il leader curdo. Rimane soltanto la possibilità di rimanere «buoni vicini di casa». Ma delle promesse degli arabi i curdi non si fidano più. E non c’è solo il lato economico. Ci sono i massacri, con armi chimiche, sotto il regime di Saddam Hussein. C’è l’arabizzazione forzata dei territori curdi, a cominciare da Kirkuk, che è andata avanti «fin dalla fine della Seconda guerra mondiale».

Kirkuk «resterà nel Kurdistan», ribadisce Barzani. Ammette che una parte degli arabi e dei turkmeni in città non sono d’accordo ma potranno «esprimersi liberamente con il voto». La città, abbandonata dall’esercito iracheno nel giugno 2014 di fronte all’avanza dell’Isis, è ora presidiata soprattutto dalla polizia provinciale, con i peshmerga che tengono un profilo basso. Ma sulle strade di accesso a Sud-Ovest si vedono anche le bandiere delle milizie sciite Al-Abbas e Imam Ali, che rispondono direttamente al premier iracheno Haider al-Abadi. Un’altra possibile minaccia. Per ora sembra tutto tranquillo, al mercato Jizir al-Qalat, il Ponte della Fortezza, c’è la solita ressa attorno alle gabbie dei canarini da canto, una vera mania in Iraq, che possono costare fino a cinquemila dollari. Curdi, arabi, turkmeni, cristiani siriaci, dicono tutti che andranno a votare e che «fra loro c’è sempre stata armonia».

Ma la tensione resta sotto la superficie, i commercianti si lamentano del crollo degli affari e si chiedono «come faremo se Baghdad ci taglia fuori?». La paura dell’isolamento è su tutti i fronti. A Sulaymaniyah, verso il confine con l’Iran, è arrivato in missione «segreta» il leader dei pasdaran Qassem Suleimani per fare un’ultima offerta ai dirigenti del Kdp, il partito di Barzani, e del Puk, l’altra grande formazione curda, che domina l’Est del Paese. Suleimani ha avvertito che Iran e Turchia sono pronte al blocco totale delle frontiere, degli scambi, e anche degli oleodotti che esportano il petrolio curdo. Uno «strangolamento veloce» invece di quello lento. «Le 72 ore dopo il voto saranno quelle decisive», dicono al Puk. Se il Kurdistan le supera, evita il caos, dopo ci sarà solo «da trattare, con pazienza». E infine la libertà.

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direttore@lastampa.it

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