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La Stampa Rassegna Stampa
11.06.2017 Armeni a Gerusalemme: un pezzo inutile come la professione dell'autore
Tale Fernando Gentilini, inviato dell'UE per il processo di Pace in Medio Oriente

Testata: La Stampa
Data: 11 giugno 2017
Pagina: 20
Autore: Fernando Gentilini
Titolo: «Gerusalemme armena, i manoscritti che salvarono il mondo»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 11/06/2017, a pag.20, con il titolo "Gerusalemme armena, i manoscritti che salvarono il mondo", il commento di Fernando Gentilini, inviato dell'UE per il processo di Pace in Medio Oriente.

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Patriarcato armeno ortodosso a Gerusalemme

Non entriamo nei dettagli religiosi che riguardano il popolo armeno, ma un po' di storia la conosciamo, per cui si rimane sbalorditi dalla vaghezza con cui l'autore - presentato come "inviato dell'UE per il processo di Pace in Medio Oriente"- sorvola sulla storia che sta dietro e intorno al quartiere armeno della Capitale d'Israele. Non dice per esempio perchè le famiglie che vi abitano sono 200 mentre un tempo, scrive Gentilini, i cittadini erano migliaia. Che fine hanno fatto, si chiederanno i lettori. Nessuna parola nemmeno sulle "sorti della propria patria, che a un certo punto ha semplicemente smesso di esistere" scrive Gentilini. Anche qui, niente che ci aiuti a capire come il fatto sia avvenuto. Molte sono le citazioni su santi, decapiatzioni,  fatti che "vanno oltre la Gerusalemme armena", ma allora ci vorrebbe un racconto vero che ci consentisse di capirne la storia. Verso la seconda parte del pezzo entrano in scena i manoscritti, ma anche qui dominano i "fili invisibili" che sviano il racconto.
Ci aiuta di più la qualifica dell'autore "
inviato dell'UE per il processo di Pace in Medio Oriente". Se nella sua missione si comporta con la stessa chiarezza con la quale non ci ha fatto capire nulla di quanto riguarda gli armeni, allora ci offre una motivazione in più per individuare nell'Unione Europea una delle organizzazioni responsabili di quanto accade in Medio Oriente.

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Gentilini & Mogherini

Il quartiere armeno di Gerusalemme, dentro le mura della Città Vecchia come quelli ebraico, cristiano e musulmano, è protetto da un ulteriore guscio di pietra. Una seconda cinta invalicabile, interrotta da pesanti portoni, sulle cui pareti, in prossimità dei luoghi più sacri, sono incise misteriose finestre in bassorilievo, con forme di croci, piante e fiori. Per entrarci bisogna essere accompagnati da un sacerdote armeno, oppure da un membro di una delle duecento famiglie residenti. Un tempo gli armeni gerosolimitani erano migliaia, con uno status talmente speciale da potersi permettere un quartiere tutto per loro. Ma poi questa comunità ha risentito delle sorti della propria patria, che a un certo punto ha semplicemente smesso di esistere. Padre Emmanuel, che ha accettato di farmi da guida, vive nel quartiere da oltre vent’anni, e per strada lo salutano tutti con rispetto. «La nostra gente si fida dei suoi preti», dice con una punta di orgoglio. «Perché la Chiesa apostolica armena, diversamente dallo Stato, non si è mai eclissata». I santi Giacomo Gli armeni divennero la prima nazione cristiana al mondo nel 301, sotto il regno di Tiridate III, completando un percorso avviato nel I secolo. Erano stati gli apostoli Taddeo e Bartolomeo a evangelizzare le loro terre, mentre a Gerusalemme i primi contatti con gli ambienti giudaico-cristiani risalgono al tempo di Gesù. La nostra visita comincia nella cattedrale dei santi Giacomo, costruita nel XII secolo su un sito religioso preesistente. All’interno penombra, fumi d’incenso, candele, ma soprattutto, come in ogni chiesa armena che si rispetti, un trionfo di lanterne che pendono dal soffitto, candelabri d’oro, croci d’argento, intarsi di madreperla, stoffe, marmi, paramenti sacri e piastrelle verdi e blu su pareti e colonne. L’altare di Giacomo il Giusto, il «fratello di Gesù», è di fronte a noi; la cappella di Giacomo il Maggiore, apostolo del Signore, alla nostra sinistra. La cattedrale è dedicata a entrambi: il primo, lapidato, fu vescovo di Gerusalemme dopo la morte di Cristo; il secondo, decapitato, fu il primo apostolo a subire il martirio. Le spoglie di Giacomo il Giusto riposano sotto l’altare maggiore. Dell’altro Giacomo resta la testa, perché il corpo, finito in mare dopo la decapitazione, avrebbe seguito la corrente fino a Santiago de Compostela. Ogni frase di padre Emmanuel evoca luoghi, vicende e personaggi che vanno oltre la Gerusalemme armena. Dice che siamo al centro di una ragnatela, i cui fili invisibili uniscono gli armeni di questo quartiere ai santi, ai condottieri, alle città, ai monasteri, alle reliquie, ai manoscritti, alle tradizioni, ai miti e al mistero dell’immenso universo armeno. Fili invisibili Il filo che li lega al Monte Ararat è una specie di cordone ombelicale. Per gli armeni l’Ararat è la culla dell’umanità, la rinascita dopo il Diluvio, il simbolo dell’Eden perduto e del vigneto di Noè: equivale al Muro Occidentale per gli ebrei e alla Grande Moschea della Mecca per i musulmani. Inoltre a Khor Virap, il monastero che sta ai suoi piedi, fu incarcerato san Gregorio Illuminatore, l’artefice della conversione del 301: un altro segno del legame trascendente tra la montagna sacra e il popolo armeno. Innumerevoli fili invisibili collegano questo quartiere a Edessa, che oggi è la città turca di Sanliurfa, ma una volta era l’emblema della cristianità orientale. Sarebbe stato il re siriaco Abgar V a scrivere a Gesù, il quale avrebbe spedito a Edessa l’apostolo Taddeo perché potesse guarirlo e battezzarlo. Abgar ha un ruolo centrale nelle Chiese antiche orientali. Basti pensare che nelle sue mani si materializzò il mandylion, la stoffa che aveva impressa l’immagine del Cristo barbuto e con i capelli lunghi. È la sua raffigurazione più antica, quella che ha più colpito l’immaginario occidentale. E poi ci sono i fili che conducono dritti in Cilicia, dove tra i secoli XI e XIV si era formato un nuovo regno armeno. I suoi re fecero affari con i crociati, i genovesi e i veneziani, e si allearono con i mongoli contro i musulmani. Per gli armeni gerosolimitani fu un periodo mitico, dal sapore di età dell’oro, che coincise con un’ascesa vertiginosa della loro comunità. È a quel tempo che furono edificate le chiese più belle, e il quartiere si estese in direzione della porta dei Leoni. Nascosti in celle e caverne Passando per le vecchie scuderie, la scuola e un grande giardino, arriviamo all’alloggio di padre Emmanuel. Ci aspetta un tavolinetto apparecchiato, con le tazze per il tè, la frutta secca e un dolce che viene da Erevan. Padre Emmanuel benedice il cibo, e ci rifocilliamo prima di riprendere il nostro giro. Dobbiamo ancora occuparci dei manoscritti armeni, ma per questo bisogna andare alla chiesa di San Toros, vicino alla cattedrale, dove sono custoditi quelli più antichi. Anche in questo caso un’infinità di fili invisibili unisce questi volumi con quelli nelle biblioteche armene di mezzo mondo: a Erevan, Venezia, Vienna, Parigi, Los Angeles... La storia dei manoscritti armeni è commovente. Inizia con l’invenzione dell’alfabeto da parte del monaco-linguista Mesrop Mashtoz, nel 401, e prosegue nei secoli successivi con la traduzione di migliaia di volumi. Furono i monaci a ricopiare il sapere del mondo, nascosti in celle e caverne poiché il loro paese era stato invaso e aveva perso l’indipendenza: copiarono la Bibbia, Aristotele, i classici greci e migliaia di testi romani, bizantini, arabi, persiani... Un tesoro inestimabile che la diaspora armena, per certi versi simile a quella ebraica, avrebbe messo in salvo al prezzo di molte vite. Libri contro i massacri Questi copisti implacabili e questi migranti impavidi credevano che i libri potessero salvare il mondo. Per questo opposero la parola scritta alle persecuzioni, ai massacri e alle minacce di annientamento che la Storia aveva loro riservato. Erano convinti che in tempi di grandi sconvolgimenti, con un futuro incerto e un presente dominato da violenza e ignoranza, bisognasse anzitutto studiare, salvare il sapere dalla barbarie, e tramandarlo alle generazioni future. Non solo il proprio sapere, ma il sapere di tutti: anche quello dei popoli, come gli arabi o i persiani, che stavano minacciando la loro esistenza. Fu questa la lezione degli armeni. Ed è difficile pensarne un’altra così attuale.

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