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La Stampa Rassegna Stampa
07.06.2017 Due film da non perdere: Natalie Portman rilegge l'autobiografia di Amos Oz, una commedia rosa di Rama Burshtein nel mondo dell'ebraismo ortodosso israeliano
Recensioni di Fulvia Caprara, Ariela Piattelli

Testata: La Stampa
Data: 07 giugno 2017
Pagina: 36
Autore: Fulvia Caprara - Ariela Piattelli
Titolo: «La sfida di Natalie Portman sul filo dei ricordi di Amos Oz - Nessun problema è impossibile da risolvere anche se si viene mollati sull’altare»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 07/06/2017, a pag. 36, con il titolo "La sfida di Natalie Portman sul filo dei ricordi di Amos Oz", la recensione di Fulvia Caprara; con il titolo "Nessun problema è impossibile da risolvere anche se si viene mollati sull’altare", la recensione di Ariela Piattelli.

Ecco gli articoli:

Fulvia Caprara: "La sfida di Natalie Portman sul filo dei ricordi di Amos Oz"

Ecco gli articoli:

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Fulvia Caprara

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La locandina

Aria fragile e spirito da combattente. Che Natalie Portman fosse la regina dei contrasti l’avevamo capito subito, dai tempi della prima apparizione sul grande schermo, nel ‘94, in Leon al fianco di Jean Reno. Da allora, niente delusioni. Passo dopo passo, l’attrice, che dopodomani compie 36 anni, ha tenuto fede alle promesse costruendo una carriera di successi, ma anche di sfide complicate. Come l’ultima, scrivere e poi dirigere, a Gerusalemme, Sognare è vivere, basato sul best-seller di Amos Oz Una storia d’amore e di tenebra (Feltrinelli): «L’ho letto nove anni fa e ho voluto farne subito un film. È una storia commovente, scritta in modo meraviglioso. E poi molti dei racconti mi appartengono. Ho sentito tante storie sui miei nonni e sulla loro passione per la cultura e per le lingue, per l’Europa e per Israele».

Lungo il filo dei ricordi dell’autore, cresciuto in una famiglia ebrea fuggita dall’Europa in Palestina durante le persecuzioni naziste, Portman ritrova brani della propria esistenza e ci si specchia, con l’emozione di chi riconosce la parte più profonda di se stesso: «Ho saputo come mamma e papà si sono conosciuti, come i nonni sono emigrati. Per molti ebrei e israeliani esiste la mitologia dell’Olocausto e della storia d’Israele. È interessante sezionarne le parti e analizzarle. È così che si struttura un’identità culturale».

Al centro della narrazione, tra il 1945 e il ‘53, c’è la figura del piccolo Amos (Amir Tessler), figlio di Arieh e di Fania (Natalie Portman), la madre che lo alleva nel segno della parola e della lingua, regalandogli l’eredità che lo renderà scrittore. Ma se il padre affronta il futuro con piglio pragmatico e cauto ottimismo, Fania non regge al senso di delusione che segue il riconoscimento dello Stato d’Israele: «È una donna cresciuta nell’idealizzazione romantica d’Israele, la vediamo da piccola a Rovno, mentre si culla in sogni d’arte e di sionismo, la ritroviamo giovane madre in Palestina, dove fronteggia le difficoltà legate al peso della storia e della situazione politica, ai suoi errori, al matrimonio infelice e alla frustrazione delle esperienze artistiche».

Una spirale che la conduce alla depressione e al suicidio. Passo che, per Portman, madre di Aleph, 5 anni, e Amalia, 3 mesi, nati dall’unione con il coreografo francese Benjamin Millepied, non è semplice da comprendere: «Non puoi immaginare di separarti da un figlio, ma ti rendi anche conto di quanto sia complessa la maternità. Una sfida meravigliosa, che cambia la tua identità».

Per realizzare Sognare è vivere (da domani nei cinema con «Altre storie») Portman ha risolto problemi e superato ostacoli. Dalla decisione di interpretare Fania (una diva premio Oscar rende mille volte più agevole la ricerca dei finanziamenti) a quella di recitare in ebraico («La lingua è un personaggio del film, pensavo di esprimermi in ebraico molto meglio, ho avuto una meravigliosa insegnante, Neta Riskin, che mi ha aiutata a eliminare l’accento americano»), per non parlare dell’avere sul set un attore bambino, circostanza che spaventa anche i registi più navigati: «Abbiamo fatto casting con ogni ragazzo ashkenazita che riuscissimo a trovare, centinaia di audizioni. Poi abbiamo trovato Amir Tessler, quando l’ho visto sono rimasta senza parole. Non riuscivo a credere che un bambino così piccolo potesse essere dotato di tale saggezza e maturità».

Gli insegnamenti dell’avventura di Sognare è vivere sono stati tanti, anche per una star che recita da quando era bambina e che oggi è richiesta sui set del mondo, compreso quello di Star Wars, dove potrebbe tornare a interpretare la regina Amidala. Lei, però, ne riconosce, scherzando, soprattutto uno: «Quando scriverò di nuovo qualcosa per me o per altri non inserirò tanta pioggia. L’acqua è molto cinematografica, ma non è piacevole. Mi piace lavorare, ma non amo soffrire».

 

 

Ariela Piattelli: "Nessun problema è impossibile da risolvere anche se si viene mollati sull’altare"

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Ariela Piattelli

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La locandina

Quando si è mollate sull’altare c’è poco da ridere. Specie se non si è giovanissime, e se il promesso sposo ti confessa di non essere più innamorato quando tutto è pronto per i festeggiamenti. Ma mai disperare, perché non c’è problema per il quale non si possa immaginare una soluzione. È la lezione della tradizione chassidica che la regista israeliana Rama Burshtein, dopo il dramma La sposa promessa, infonde tra le trame della sua wedding comedy Un appuntamento per la sposa, in uscita domani e presentata allo scorso Festival di Venezia.

La protagonista del film, Michal, dopo essere stata lasciata dal fidanzato ha ben chiaro di non voler tornare alla vita da single e alla raffica di noiosi appuntamenti combinati con semi sconosciuti della sua comunità che sembrano colloqui di lavoro, così tiene in piedi tutto: data, location e vestito, deve solo cercare il marito, ma è sicura che lo troverà. Inizia dunque la sua corsa contro il tempo per cambiare il nome dello sposo sull’invito.
Quella della Burshtein è una commedia chassidica sulla forza e la determinazione delle donne e sulla fede nel destino: «Il titolo originale è Through the Wall, ovvero “attraverso il muro” - spiega la regista -. Per passarci devi credere al cento per cento che sia possibile perché se fallisci ti rompi la testa. Con questo film volevo lanciare un messaggio di speranza in tempi duri. Molti pensano che sia un film femminista, altri progressista e altri ancora reazionario. La realtà è semplice, io guardo le cose dal punto di vista delle donne del mondo a cui appartengo, dunque è una commedia femminile. Michal non si sente completa senza l’amore e con tenacia e personalità lo cerca nuovamente. Da un lato c’è il potere della donna, dall’altro c’è anche una sorta di dipendenza dai sentimenti».

La storia affonda le sue radici nella tradizione ebraica ortodossa, da cui trae il messaggio più forte: «Nachman di Breslov (rabbino e teologo vissuto tra il 700 e l’800, tra i padri del movimento chassidico, ndr) diceva che non esiste disperazione nel mondo. Eppure noi ci sentiamo spesso disperati - continua la regista -. Il suo messaggio è che la gran parte delle volte non lo siamo davvero, e che non esiste nulla di irrisolvibile. Tutto è possibile e tutto può accadere. Quando passi per questo processo spirituale diventi veramente libero. Michal vuole combattere la disperazione e far vincere il bene. La lezione è dunque quella di non mollare e cercare sempre una soluzione. Se una persona è in grado di infondere speranza in una situazione difficile è possibile che riuscirà a risolverla».

Il film è girato tra le pietre bianche di Gerusalemme e le sponde del mare della vecchia Giaffa a Tel Aviv, tra la Città Santa e la metropoli israeliana laica per eccellenza: «Io vivo a Tel Aviv, noi abbiamo bisogno di stare qui per ricordarci chi siamo. Anche gli altri ci definiscono, è il dialogo all’interno della società tra identità diverse. Io ho sposato l’ortodossia a 27 anni e adesso ne ho 50. Ho passato gran parte della mia vita nel mondo laico, come la protagonista del film, ho conoscenza di entrambi i mondi».

Rama, un marito e 4 figli, mentre sposava l’ortodossia ha scoperto nel cinema il mezzo per raccontarla, e adesso è la stella che brilla di più nell’affollatissima cinematografia religiosa ebraica d’Israele: «Qui ci sono donne che con dieci figli partoriscono un film all’anno. Per loro esprimersi nel campo delle arti è un bisogno. E i nostri uomini? Loro studiano, anche per noi, si dedicano alla Torah, non hanno tempo per le arti».

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