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La Stampa Rassegna Stampa
30.04.2017 Albert Einstein e l'equazione della pace a Gerusalemme
Commento di Fernando Gentilini

Testata: La Stampa
Data: 30 aprile 2017
Pagina: 22
Autore: Fernando Gentilini
Titolo: «Einstein, l’equazione della pace tra ebrei e arabi»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 30/04/2017, a pag. 22, con il titolo "Einstein, l’equazione della pace tra ebrei e arabi ", il commento di Fernando Gentilini, inviato Ue per il processo di pace in Medio Oriente.

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Fernando Gentilini


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Albert Einstein

Einstein credeva che un’università ebraica a Gerusalemme potesse diventare un ponte tra Oriente e Occidente. E dopo la Grande guerra era andato fino in America pur di trovare i fondi per realizzarla. Nel 1923, durante il suo unico viaggio in Palestina, tenne un discorso al campus universitario sul monte Scopus, che stava per essere completato. E due anni dopo, all’apertura ufficiale, prese posto nel primo consiglio d’amministrazione, assieme a Weizmann, Buber e Freud.
La decisione di lasciare all’Università il suo patrimonio letterario, inclusi i diritti di proprietà e quelli d’immagine, era quindi nell’ordine delle cose. E alla sua morte, nel 1955, furono l’assistente Helen Dukas, e l’amico e collega Otto Nathan, a dare esecuzione al testamento. Ci sono voluti anni, e il lavoro di tante persone. Ma oggi l’Archivio Albert Einstein è una realtà, e rappresenta da tre decenni il fiore all’occhiello dell’Università Ebraica di Gerusalemme.

Da Tolstoj a Agostino
Il campus Givat Ram è nella parte Ovest della città, non lontano dalla Knesset. Nel piazzale d’ingresso una foto a grandezza naturale ritrae Einstein in bicicletta. Gli Archivi sono più avanti, nell’edificio Levi. Ed è lì che incontro il professor Hanoch Gutfreund, già presidente dell’università.
Mi accoglie nella sala della biblioteca privata di Einstein. Una stanza rettangolare, con un grande tavolo al centro. In un angolo la scrivania dello scienziato, di quelle fatte per scriverci in piedi (come faceva S. Y. Agnon nella casa di Talpiot); e per il resto scaffali fino al soffitto, pieni di magnifici volumi.
Molti rispecchiano la cultura ebraica in Europa all’inizio del secolo scorso. Per esempio i romanzi di Tolstoj, le poesie di Heine o i testi filosofici di Spinoza. Altri, come Le confessioni di sant’Agostino o l’opera omnia di Gandhi, tradiscono gusti più personali: neoplatonismo, religione cosmica e pacifismo sono temi einsteiniani, ma vedere con i propri occhi le fonti d’ispirazione fa sempre un certo effetto. Su uno scaffale intravedo The Conquest of Everest, più in basso un volume sull’Art Nouveau. Non so fino a che punto Einstein amasse l’alpinismo o le avanguardie artistiche, ma magari li ha letti per davvero: il primo pensando al tempo che in montagna va più veloce, e il secondo fantasticando sulle forme egualmente curvilinee del suo universo...
Il professor Gutfreund mostra il manoscritto con i fondamenti della teoria generale della relatività (Die Grundlage der allgemeinen Relativitätstheorie). Il meglio di Einstein è tutto lì, in quelle 46 cartelle del 1916: lo spaziotempo, la luce che devia, un vuoto cosmico che non è più vuoto e che s’increspa come la superficie del mare.

Albert «l’italiano»
Lo scienziato pubblicò la sua teoria prima che potesse essere verificata. Una conferma importante, quella sulla deflessione dei raggi stellari, arrivò grazie all’osservazione dell’eclissi totale del 1919. Dopo di che le sue predizioni si sono avverate una appresso all’altra: Big bang, buchi neri, onde gravitazionali...
Ma torniamo al manoscritto, alla sua prima pagina: perché i nomi dei due matematici italiani che vi figurano, Ricci e Levi-Civita, rivelano il contributo decisivo che il loro sistema algoritmico diede alla formulazione definitiva della teoria della relatività generale.
Il professor Gutfreund ricorda lo scambio epistolare della primavera del 1915, tra Einstein e Levi-Civita. Lettere dense di equazioni, con le quali il secondo condivise con il primo il calcolo differenziale assoluto elaborato da Ricci-Curbastro e già applicato con successo ad altri problemi di fisica teorica. Einstein esitò, ma alla fine riconobbe che in fatto di equazioni il matematico ne sapeva più di lui. E la battuta con cui anni dopo avrebbe risposto a chi gli chiedeva cosa gli piacesse di più dell’Italia - «Spaghetti and Levi-Civita» - la dice lunga sulla stima e l’affetto per il collega.

In realtà Einstein amava anche tante altre cose del nostro Paese, e non ne fece mai mistero. Da ragazzo, nel 1895, aveva passato alcuni mesi a Pavia, dove i genitori si occupavano di impianti elettrotecnici; e si era trattato di un periodo decisivo, senza il quale è difficile spiegare i tanti legami futuri con scienziati, intellettuali e personalità del nostro Paese (sull’argomento suggerisco il volume Einstein parla italiano a cura di Sandra Linguerri e Raffaella Simili, ed. Pendragon, Bologna 2008).
Il fatto era che il giovane Einstein aveva vissuto in Italia un’avventura inebriante. Imparando la nostra lingua, stringendo amicizie, scoprendo libri, musei e città d’arte. Soprattutto aveva nuotato nel Ticino, partecipato alla vendemmia, suonato il violino alle feste, e una volta era persino andato a piedi fino a Genova, con lo zaino in spalla.
Il ricordo di quei mesi spensierati nel Pavese non lo abbandonerà più. Forse anche perché alcune delle sue intuizioni più potenti - sull’individuo, la società, la scienza, la religione, il senso della vita - erano maturate proprio allora.
In effetti non esiste campo del sapere cui Einstein non si sia poi applicato (basta leggere il suo Come io vedo il mondo). Il che vuol dire che bisognerebbe passarci anni in questo archivio per scoprire lo scienziato, il filosofo, il pacifista, lo scrittore, l’uomo preoccupato per la Palestina mandataria o quello che rifiutò la presidenza d’Israele.

18 anni prima di Israele
Proprio sull’Einstein più impegnato politicamente, Gutfreund ha in serbo un’ultima sorpresa: la lettera del 25 febbraio 1930, pubblicata sul quotidiano Falastin, con la quale si propone la costituzione di un Consiglio, composto da quattro ebrei e quattro arabi, per risolvere le difficoltà «tra le due nazioni». Un medico, un sindacalista, un religioso e un giurista per parte avrebbero dovuto riunirsi in segreto, e deliberare sul futuro di arabi ed ebrei. Non occorreva l’unanimità, sarebbero bastati tre voti per parte. E chi non se la sentiva di affrontare un determinato tema, avrebbe sempre potuto ritirarsi.
Con ciò, diciotto anni prima che nascesse lo Stato di Israele, la questione della convivenza in Palestina tra arabi ed ebrei era stata posta: senza giri di parole, con la solita semplicità, da una delle menti più implacabili di tutti i tempi.

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