giovedi` 28 marzo 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
03.01.2017 Avvolgere la Torah: i drappi ebraici più preziosi
Commento di Ariela Piattelli

Testata: La Stampa
Data: 03 gennaio 2017
Pagina: 27
Autore: Ariela Piattelli
Titolo: «A Roma gli ebrei avevano la stoffa, anche quella di Cristina di Svezia»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/01/2017, a pag. 27, con il titolo "A Roma gli ebrei avevano la stoffa, anche quella di Cristina di Svezia", il commento di Ariela Piattelli.

Immagine correlata
Ariela Piattelli

Immagine correlata
Alcune mappot, i drappi che rivestono la Torah

Con ago e filo le donne del ghetto di Roma hanno liberato la creatività per lunghi secoli, quando agli ebrei era proibito ogni mestiere d’arte. Cucivano a mano, nelle loro case, perché il telaio era uno strumento troppo rumoroso. La storia delle famiglie ebraiche di Roma è scritta sulle mappòt (plurale di mappà), i drappi che rivestono la Torah (Pentateuco) e che le famiglie donavano alle sinagoghe per celebrare avvenimenti, ricorrenze, anniversari.

Sono oltre 200 le mappòt custodite nel Museo Ebraico di Roma, che ne possiede la collezione più grande al mondo: un tesoro unico, che rivela storie, nomi e destini su tessuti pregiati, dalla fine del ’500 a oggi. Alcuni giorni fa è stato presentato alla biblioteca degli Uffizi di Firenze il volume Antiche mappòt romane. Il prezioso archivio tessile del Museo Ebraico di Roma (ed. Campisano), a cura di Doretta Davanzo Poli, Olga Melasecchi e Amedeo Spagnoletto, che corona un grande progetto di Daniela Di Castro, la direttrice del Museo Ebraico scomparsa prematuramente nel 2010.

«Ciò che emerge dalle mappòt romane è la fedeltà tenace a un’identità minacciata. Questi tessuti erano una forma di resilienza», spiega Alessandra Di Castro, direttrice del Museo Ebraico dal 2012. «Scorrendo il volume sembra di vivere un film in cui riprendono vita voci e personaggi di cui si percepiscono le preoccupazioni, ma soprattutto la profonda spiritualità». Un film «girato» con tecnologie all’avanguardia: il fotografo di opere d’arte Araldo De Luca ha inventato un carrello computerizzato per ottenere le immagini dei lunghi drappi.

«Con il direttore degli Uffizi Eike Schmidt», annuncia Di Castro, «abbiamo deciso di fare una mostra delle mappòt nel 2018 proprio nel prestigioso museo di Firenze». Manufatti di tessuti pregiati con su ricamati gli stemmi delle famiglie, circondati da iscrizioni in ebraico, che comunicavano un avvenimento all’intera comunità, quando il Sefer, ovvero il rotolo della Torah, veniva innalzato, avvolto dalla mappà, in una sinagoga nel momento solenne della preghiera.

«Nelle mappòt è scritta la storia di molte famiglie: le donavano alle sinagoghe in varie occasioni. Festività, eventi straordinari, nascite, festeggiamenti per un matrimonio, guarigioni da malattie, o in ricordo degli estinti», spiega la curatrice del museo Olga Melasecchi. «Ognuno di questi manufatti “ricuce” una storia, e in alcuni casi, intrecciando vari dati, è possibile ricostruire vicende delle singole famiglie».
Nel corso dello studio sono state fatte vere e proprie scoperte. Come quella sull’addobbamento per il Sefer donato da Tranquillo Corcos, che era stato nominato rabbino capo della comunità nel 1703: «Per l’addobbamento era stata utilizzata una preziosa stoffa appartenuta a Cristina di Svezia. Daniela Di Castro riconobbe i simboli della famiglia reale, e infatti quel tessuto rivestiva l’interno della carrozza della regina».
Poi c’è una mappà donata a una sinagoga nel 1749 dal padre di Anna Del Monte, la giovane rapita nel ghetto di Roma e rinchiusa della casa dei catecumeni con l’obiettivo, poi mancato, di convertirla al cristianesimo. «Il drappo, su cui è scritto il passo di Isaia “Sion verrà riscattata con il diritto e quelli che fanno ritorno con la giustizia”, celebra il ritorno a casa della ragazza che ha difeso la sua identità», racconta Amedeo Spagnoletto. «A volte con le mappòt si celebravano eventi storici: ne abbiamo una che gli ebrei di Roma avevano deciso di donare alla comunità ebraica di Addis Abeba per il primo anno dell’impero italiano, ma questa non fu mai recapitata. Le mappòt erano uno strumento di comunicazione: con questi tessuti a quel tempo era possibile condividere informazioni, status e ispirare donazioni alle sinagoghe».

La tradizione della mappà arriva dalla Spagna, ma a Roma assume caratteristiche uniche per l’uso dei tessuti e per l’arte del ricamo. «Le donne ebree del ghetto di Roma avevano maturato una competenza straordinaria nell’arte del ricamo e del cucito», spiega la storica dell’arte Doretta Davanzo Poli, «venivano addirittura impiegate nella cucitura dei tessuti destinati ai Pontefici, malgrado non fosse loro concesso. Era l’unico mezzo per esprimere creatività e fede dal profondo dell’anima. La loro arte del ricamo è unica, colorata, vistosa e in rilievo. L’attività di tessitura con filati coloratissimi, metalli nobili, quali oro e argento, viene realizzata con una tecnica che rende un effetto ottico straordinario, diverso da tutte le altre mappòt realizzate nel mondo. E la lavorazione a mano ha permesso a questi preziosi drappi di conservarsi e di arrivare ai giorni nostri».

Per inviare la propria opinione alla Stampa, telefonare 011/65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


direttore@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT