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La Stampa Rassegna Stampa
25.09.2016 Il Centro Primo Levi a New York
Alain Elkann intervista la direttrice Natalia Indrimi

Testata: La Stampa
Data: 25 settembre 2016
Pagina: 28
Autore: Alain Elkann
Titolo: «Abbiamo creato un tetto per gli ebrei italiani a New York»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 25/09/2016, a pag.28, con il titolo
" Abbiamo creato un tetto per gli ebrei italiani a New York", l'intervista di Alain Elkann a Natalia Indrimi, direttrice del Centro Primo Levi a New York

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Alain Elkann   Natalia Indrimi

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Lei è direttrice e uno dei fondatori del Centro Primo Levi New York. Qual è il ruolo del centro?
«Il Centro, nato nel 1998, promuove il dibattito sulle questioni sollevate da Primo Levi e la conoscenza dell’ebraismo italiano in America. Siamo molto fortunati ad avere nel consiglio direttivo Stella Levi che mette continuamente in discussione il significato delle attività e ha instillato un senso profondo delle tradizioni ebraiche italiane e sefardite, la riflessione sull’America dal punto di vista dello straniero, sui valori della convivenza e di quel che oggi rimane di Auschwitz». Quali sono le vostre attività?
«Organizziamo conferenze, film e tavole rotonde, seminari e progetti di ricerca. Quest’anno abbiamo anche contribuito a un borsa di studio alla Scuola Normale Superiore di Pisa che speriamo di rinnovare. Abbiamo anche una rivista elettronica, una piccola casa editrice, CPL Editions, e stiamo lavorando a una biblioteca digitale di studi ebraici italiani». Il Centro sembra avere successo… «Successo sì, con molti ostacoli e sfide. Siamo riusciti a creare uno spazio dove persone di campi diversi dalle scienze umane, al diritto, alla scienza, trovano un terreno comune per parlare di questioni etiche e sociali».
E la pubblicazione delle opere complete di Primo Levi?
«La Liveright-Norton ha intrapreso questo straordinario progetto più di 15 anni fa per dare al pubblico inglese la possibilità di apprezzare gli scritti di Primo Levi nel loro insieme. A un anno dalla pubblicazione, lo abbiamo presentato ieri al National Book Festival a Washington e credo abbia cambiato profondamente il modo in cui si legge Levi in America. Abbiamo coinvolto il Centro Internazionale di Studi Primo Levi a Torino. Sono loro i “filologi” di Levi e grazie a loro l’opera è uscita con un apparato di strumenti di lettura».
Oggi Primo Levi è assai noto in America.
«Certo più di vent’anni fa. È un’importante voce alternativa in un momento di crisi del discorso sulla Shoah. Levi ha parlato dei fascismi e dello sterminio come fatto storico-politico e come esperienza umana. I suoi lettori, in ogni lingua, riconoscono l’importanza della riflessione sull’uomo e sulla relazione tra individuo e potere. Il modo in cui Levi pensa allo sterminio, storico e universale al tempo stesso, è molto diverso dalla prevalente narrativa per cui l’Olocausto (il termine ufficiale in America che a Levi non piaceva) diventa o una questione “etnica” o un contenitore generale di qualunque persecuzione».
Presentate anche il libroVenezia, gli Ebrei e l’Europa. Come l’avete scelto? «Venezia rappresenta un capitolo importante nella storia degli ebrei in Italia e la mostra sui 500 anni del ghetto ha dato il via a dibattiti rivelatori delle sfide dell’ebraismo contemporaneo in Italia e non solo. Ci ha fatto molto piacere poter sostenere Marsilio in questa avventura americana e ospitare la professoressa Donatella Calabi, che ha curato la mostra e il libro. Il pubblico si è mostrato molto ricettivo».
Qual è il ruolo di Primo Levi per la vostra organizzazione?
«Gli scritti di Primo Levi, il suo interesse per la storia, per le questioni legate alla libertà individuale e alle relazioni col potere, la sua curiosità e il suo amore per la storia ebraica, piemontese, italiana o di altri luoghi, la sua preoccupazione di come la memoria e la storia funzionano in relazione reciproca al livello sociale, e molte altre questioni da lui sollevate sono il cuore e l’ispirazione del nostro lavoro».
L’antisemitismo è uno dei vostri temi di lavoro?
«Certo. La difficoltà è farlo rimanere un oggetto di riflessione e non un filtro attraverso cui leggere il mondo».
Esiste una comunità di ebrei italiani negli Stati Uniti?
«In America qualunque gruppo ha bisogno di definizioni semplici e visibili. Questo è difficile con l’ebraismo italiano perché è una realtà complessa e di dimensioni molto piccole e nessuno ha mai creato una sinagoga italiana. Eppure l’ebraismo italiano rimane una realtà storica e culturale profondamente diversa da quello americano. Non solo per l’unicità della liturgia e delle usanze ma per come ha formato la sua visione del mondo e le dinamiche di interazione sociale nel corso dei secoli. Con il Centro ci siamo permessi il lusso di fare tutto il possibile per far vivere quelle differenze almeno al livello culturale. Tanto tempo fa uno dei nostri soci mi disse che il Centro aveva creato un tetto. Questa metafora mi toccò molto e la porto sempre con me come una specie di amuleto». Avete rapporti con le comunità ebraiche in Italia?
«Uno dei nostri principali partners in Italia è il Cdec a Milano, il primo archivio e centro di ricerca sulla Shoah in Italia e sull’ebraismo italiano del Novecento. Altri importanti referenti sono appunto il Centro Internazionale di Studi Primo Levi a Torino, il Museo Ebraico di Roma, la Biblioteca Renato Maestro a Venezia, il Museo Ebraico di Trieste e la Fondazione per i Beni Culturali Ebraici. Penso sia importante valorizzare la natura regionale, municipale per essere precisi, dell’ebraismo italiano che ha mantenuto una struttura decentrata fino al primo trentennio del Novecento. Questa pluralità di centri e le sue dinamiche storiche costituiscono un elemento di riflessione molto importante».

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direttore@lastampa.it

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