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La Stampa Rassegna Stampa
21.08.2016 Siria: In attesa dell'Onu. Ma sul serio
Analisi di Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 21 agosto 2016
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Opzione Nato nella lotta all'Isis»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 21/08/2016, a pag. 1/21, l'editoriale di Maurizio Molinari, dal titolo "Opzione Nato nella lotta all'Isis"

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Maurizio Molinari

Dalle quattro battaglie per il controllo di Sirte, Aleppo, Raqqa e Mosul dipende la sorte dello Stato Islamico (Isis) di Abu Bakr al-Baghdadi e anche il futuro equilibrio di potenza nel mondo arabo fra Occidente e Russia. Il Califfato jihadista appare in affanno un po’ ovunque: a Sirte gli sono rimaste poche centinaia di miliziani africani, fuori Aleppo difende con difficoltà i propri territori, nella roccaforte di Raqqa si prepara ad affrontare l’assalto degli avversari curdo-arabi e attorno a Mosul assiste alla lenta avanzata di reparti peshmerga e governativi iracheni. La perdita di almeno 10 mila effettivi jihadisti - circa un terzo del totale - negli ultimi 18 mesi, la ritirata da snodi strategici come Ramadi in Iraq e Manbij in Siria, la prolungata assenza di apparizioni personali di al-Baghdadi e l’aumento consistente degli attacchi terroristici all’estero descrivono la più seria fase di indebolimento delle proprie infrastrutture statuali dalla proclamazione del Califfato, il 29 giugno 2014. Da qui l’attenzione su come Occidente e Russia stanno combattendo il comune avversario e quali potrebbero essere le conseguenze sul piano strategico nel Grande Medio Oriente. La differenza di fondo è di metodo. L’Occidente, guidato dagli Stati Uniti, combatte Isis impiegando una combinazione di raid aerei, intelligence e truppe speciali in missioni top secret a sostegno delle operazioni sul terreno di milizie alleate: i clan tripolitani a Sirte, i ribelli curdo-arabi attorno a Raqqa, i reparti iracheni a Mosul. Ovvero, in tre città su quattro i Paesi occidentali conducono campagne di terra per procura. Aleppo fa eccezione perché qui a guidare le operazioni belliche sono i russi, che operano in maniera assai diversa: hanno propri contingenti sul terreno, sebbene numericamente ridotti, sulla base di patti siglati con governi e Stati della regione come il regime di Bashar Assad in Siria, l’Iran di Ali Khamenei e adesso forse anche la Turchia di Recep Tayyp Erdogan. E l’obiettivo di Mosca è più vasto: non solo l’eliminazione delle cellule di Isis ma di tutti i gruppi islamici riconducibili al fondamentalismo sunnita. E’ per questo che i bombardieri russi decollano dalla base di Hamdan in Iran per colpire ad Aleppo anche obiettivi di gruppi diversi da Isis. Il risultato di tale squilibrio è che l’impegno militare russo appare più massiccio, efficiente e capace di garantire risultati duraturi. Consegnando a Mosca una seria ipoteca sugli equilibri regionali di lungo termine. Un assaggio di quanto sta maturando lo si è avuto nei cieli della Siria Orientale, quando i jet di Assad - alleati di Mosca - hanno bombardato obiettivi prossimi alle truppe speciali Usa, sfiorando il duello aereo con gli aerei americani. Ovvero, Mosca riesce a ostacolare il Pentagono con i propri alleati mentre il contrario non è al momento neanche ipotizzabile. E’ per colmare questo svantaggio tattico dell’Occidente rispetto alla Russia di Vladimir Putin che si fa largo l’ipotesi di un impegno di forze Nato. Ad alzare il velo sulla discussione in atto è Dianne Feinstein, vicepresidente della commissione Intelligence al Senato di Washington, suggerendo alla Nato di «fare di più contro Isis» creando task force di truppe speciali capaci di intervenire sul terreno, direttamente, alla luce del sole, contro gli jihadisti «per fare la differenza». Feinstein è uno dei leader del partito democratico di Hillary Clinton ed esprime una convinzione crescente nell’establishment di sicurezza degli Stati Uniti: il fatto che solo 7 dei 27 Paesi Nato partecipino ad operazioni combattenti anti-Isis, limitandole, è una debolezza perché è l’intera Alleanza che dovrebbe, invocando l’articolo 5 del Trattato come fu fatto contro Al Qaeda dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, impegnarsi per eliminare un avversario protagonista di una campagna di attacchi sanguinosi da Orlando a Nizza, da Bruxelles a San Bernardino. A ben vedere la necessità di un impiego di forze combattenti Nato contro Isis è uno dei rari punti di convergenza fra Hillary e il rivale repubblicano Donald Trump, secondo il quale l’Alleanza è divenuta «obsoleta» perché non si occupa delle reali minacce contro la sicurezza collettiva ovvero degli jihadisti. Nessuno ipotizza interventi militari di terra simili a quelli guidati dagli Usa in Afghanistan nel 2001 ed in Iraq nel 2003, bensì operazioni limitate, nel tempo e nello spazio, affidate a truppe speciali. A rendere impellente tale svolta militare è l’entità dei pericoli che incombono sui Paesi Nato: John Brennan, capo della Cia, prevede l’aumento degli attentati jihadisti contro obiettivi civili perché si ritiene che solo nell’ultimo anno almeno 500 «foreign fighters» siano tornati in patria per realizzare attacchi con il risultato che, soltanto negli Stati Uniti, l’Fbi ha aperto oltre 900 indagini a carico di sospetti terroristi di Isis. E in Europa le dimensioni sono maggiori: in Francia gli «estremisti» islamici considerati a rischio sono stimati in circa 10 mila. Impegnare proprie task force di intervento rapido per liberare Raqqa e Mosul, le due maggiori città sotto il giogo del Califfato, consentirebbe alla Nato di guidare le operazioni delle milizie arabe anti-Isis già sul terreno, riconsegnando alla coalizione guidata dagli Stati Uniti una credibilità in Medio Oriente e Nord Africa capace di rivaleggiare con quella russa. Ed iniziando a riguadagnare, almeno in parte, il terreno perduto e soprattutto la capacità di deterrenza svanita. Resta da vedere se i leader dell’Alleanza avranno la volontà di raccogliere i suggerimenti degli esperti militari e di intelligence che la senatrice Feinstein ci ha fatto conoscere.

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