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La Stampa Rassegna Stampa
07.02.2016 Robert Wistrich si rivolterà nella tomba
Alain Elkann intervista la sua successora Manuela Consonni

Testata: La Stampa
Data: 07 febbraio 2016
Pagina: 25
Autore: Alain Elkann
Titolo: «L'antisemitismo va studiato all'università»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 07/02/2016, a pag.25, con il titolo "L'antisemitismo va studiato all'università" l'intervista di Alain Elkann a Manuela Consonni.

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Alain Elkann                        Manuela Consonni

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Robert Wistrich

A fine intervista, la Consonni si esprime così:
«L’accademia israeliana si sente un po’ isolata e a disagio. Il boicottaggio economico è meno forte, il boicottaggio accademico è diventato uno strumento politico per obbligare il governo a fare la pace. Invece il governo va avanti nella sua politica e vede nel boicottaggio un figlio del pregiudizio contro gli ebrei. Mentre viene penalizzata l’intellighenzia democratica liberale del paese e Israele viene lasciata in balia degli estremismi».
Quale abisso dalle posizioni di Robert Wistrich, a succedergli è stata scelta la persona meno adatta. Ci auguriamo che la Fondazione Vidal Sassoon venga informata delle 'idee' che esprime la nostra, la sua permanenza a capo del Centro per lo studio dell'antisemitismo è del tutto inadeguata.
Robert Wistrich si rivolterà nella tomba.

Ecco l'intervista:

Professoressa Consonni, lei è la nuova direttrice del Centro Internazionale Vidal Sassoon per lo Studio dell’Antisemitismo alla Hebrew University di Gerusalemme. In cosa consiste il suo incarico?
«Il mio obiettivo è riportare lo studio dell’antisemitismo all’interno dell’università ebraica, con studenti di Master e di dottorato. Il mio predecessore Robert Wistrich era soprattutto proiettato verso l’esterno, ma credo sia importante, in questo momento, concentrarsi sullo studio e l’analisi dell’antisemitismo in cui la delegittimazione dello Stato d’Israele svolge ancora un ruolo importante, ma non l’unico».
Il premio Nobel Elie Wiesel disse nel ’45 che dopo Auschwitz non ci sarebbe più stato antisemitismo, ma ha dovuto ricredersi. Come mai?
«P urtroppo il pregiudizio antiebraico continua a essere molto forte. Credo che sia un fenomeno mai sopito in quanto è legato ai modelli di inclusione ed esclusione della società. L’antisemitismo è una malattia del corpo sociale: in Giappone, dove non ci sono mai stati ebrei, c’è un pregiudizio antiebraico nutrito dagli stessi topoi dell’antisemitismo storico».
Lei cosa cerca di insegnare?
«La storia del pregiudizio dell’antisemitismo nei secoli, mi trovo in grande accordo con l’approccio di David Niremberg della Chicago University nel suo libro Antijudaism and the Western Tradition. Non a caso lui usa il termine “antigiudaismo” perché sostiene che anche nella società secolarizzata moderna esistano pregiudizi teologici».
Oggi le cose sono cambiate. Tre pontefici diversi si sono recati in visita alla sinagoga di Roma. Da Giovanni XXIII in poi il pregiudizio liturgico è stato abolito?
«Malgrado il fatto che gli ebrei siano integrati nelle società in cui vivono questo non cancella l’insorgere del pregiudizio antiebraico nei momenti di tensione, di conflitto o di crisi come quelle che stiamo vivendo oggi».
La sua definizione di razzismo qual è?
«Attribuire delle caratteristiche individuali a un intero gruppo umano».
Essere anti- israeliano spesso è confuso con l’essere antisemita?
«Sì, da entrambe le parti però. Ci sono critiche che ripetono le forme e le modalità del
pregiudizio. Ad esempio l ’idea che esista una l obby ebra ca mondiale che influenza il governo Usa perché non obblighi Israele alla pace, è costruita su un classico
pregiudizio verso gli ebrei. Nessuno pensa agli interessi politici americani ad avere un
Medio Oriente  diviso, per esempio. Questo non aiuta il dialogo dentro Israele, tra ebrei e arabi. L e critiche verso i governi sono sempre legittime, verso il governo israeliano c’è una critica in più, con aspetti che esulano dal conflitto e investono soprattutto gli ebrei. Da parte sua il governo israeliano legge tutte le critiche in chiave di antisemitismo, anche quando non è così».
Come si fa a separare la critica alla politica israeliana dall’antisemitismo storico?
«Se si arrivasse alla pace questa tendenza sarebbe depotenziata».
Quali sono i rapporti tra gli israeliani e gli ebrei della diaspora?
«C’è una sovrapposizione tra essere ebreo e israeliano che esiste fin dalla nascita dello Stato di Israele nel ’48».
Gli ebrei europei e americani si sentono israeliani?
«Sì e no, certo vengono chiamati in causa e devono sempre esprimere un’opinione sulla politica israeliana. Mentre non si chiede per forza a un italiano che vive all’estero cosa pensa del governo italiano. Per gli ebrei è diverso. È di questa diversità che parlo».
Le persecuzioni avvenute sotto il fascismo, il nazismo, lo stalinismo oggi non potrebbero più avvenire?
«Questo tipo di antisemitismo non si ripropone per il momento. Non credo alla possibilità di un nuovo sterminio proprio perché la memoria della Shoah è ancora troppo vicina. Per fortuna l’Occidente è molto attento a commemorare lo sterminio degli ebrei. Anche se in questa ipertrofia di memoria, eccessiva, ci sono insidie e pericoli».
Dove è presente l’antisemitismo oggi?
«Una domanda difficile, complessa. Penso al fenomeno del boicottaggio accademico, ad esempio, dove la critica legittima verso la politica del governo israeliano è contaminata da derive pericolose al cui interno funzionano elementi del pregiudizio antiebraico. Il Bds
(Boycott Disenvestement and Sanctions), nato nel mondo anglosassone, è un fenomeno da non sottovalutare e di cui oggi si parla troppo poco. Molti professori si rifiutano di venire a convegni delle università israeliane perché il Bds sostiene la loro correità con l’oppressione dei palestinesi, perché sono finanziate in parte da soldi governativi. La partecipazione in attività accademiche congiunte “normalizzerebbe” l’occupazione». Come sono i rapporti con l’Italia? Oggi 170 studiosi di varie università hanno firmato una petizione contro il Technion.
«È un vero peccato, perché fino ad oggi l’accademia italiana non si era mai espressa in questo modo».
In Israele vi sentite a disagio?
«L’accademia israeliana si sente un po’ isolata e a disagio. Il boicottaggio economico è meno forte, il boicottaggio accademico è diventato uno strumento politico per obbligare il governo a fare la pace. Invece il governo va avanti nella sua politica e vede nel boicottaggio un figlio del pregiudizio contro gli ebrei. Mentre viene penalizzata l’intellighenzia democratica liberale del paese e Israele viene lasciata in balia degli estremismi».

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