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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa Rassegna Stampa
18.07.2015 'Mio figlio ucciso a 16 anni perché ebreo. Ma non voglio vendetta'
Elena Loewenthal intervista Rachel Fraenkel, madre di uno dei tre ragazzi rapiti e uccisi da Hamas nel giugno 2014

Testata: La Stampa
Data: 18 luglio 2015
Pagina: 1
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «'Una mamma ebrea ama la vita anche se le hanno ucciso il figlio'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 18/07/2015, a pag. 1-15, con il titolo "Una mamma ebrea ama la vita anche se le hanno ucciso il figlio", l'intervista di Elena Loewenthal a Rachel Fraenkel, madre di uno dei tre ragazzi rapiti e uccisi da Hamas nel giugno 2014.

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Elena Loewenthal

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Rachel Fraenkel

Le lingue talvolta parlano per allusione, talvolta sanno essere spietate come la realtà. L’ebraico, ad esempio, conosce un participio passivo (e come potrebbe essere altrimenti) per indicare una condizione che in italiano non ha modo di esprimersi: quella del genitore che ha perso un figlio. Madre o padre che sia, cambia solo un debole suffisso. Ma è una parola terribile, che quando la incontri ti sgomenta per il dolore assurdo che racconta oltre che per il fatto che in italiano non esiste.

E ora, eccola davanti ai miei occhi, quella parola, con una voce e un volto molto diversi da come me li immaginavo, con un sorriso dolce che è la prima cosa che appare di lei, sulla soglia di casa. Rachel Fraenkel ha sepolto il suo Naftali il 1 luglio di un anno fa. Lui aveva sedici anni. In realtà l’aveva perduto il 12 giugno precedente, quando di Naftali, Yilad Shaar e Eyal Yifrach si erano perse le tracce nei pressi della fermata dell’autobus di Alon Shvut. I corpi dei tre ragazzi furono ritrovati il 30 giugno, nei pressi di Hebron.

Rachel è un’insegnante di Talmud con una laurea in biologia, oltre che una grande esperta di legge ebraica. Ha addosso quella mitezza che viene da una forza straordinaria, la stessa che mise dentro la voce quando, al funerale del figlio, fece un gesto davvero dirompente recitando pubblicamente il Kaddish, la preghiera per i defunti che è in fondo un inno esaltato e disperato all’onnipotenza (e all’inconoscibilità) divina, ed entrando con il proprio dolore in quel territorio liturgico ebraico esclusivamente maschile.

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Naftali Fraenkel, Gilad Shaar, Eyal Yifrach


«Ho detto il Kaddish anche per l’anniversario di Naftali», dice con lo sguardo fermo. A un anno di distanza la famiglia abita nella stessa casa di Nof Hayalon, non lontano da Gerusalemme, in un caos magmatico di libri, stoviglie, giocattoli, scarpe da bambino. Ci sono anche due porcellini d’India in una grande gabbia che campeggia in salotto. Accanto al portoncino d’ingresso una catasta di biciclette di diverse dimensioni e stato di conservazione. È quel disordine animato tipicamente israeliano, là dove ci sono bambini che girano, vivono e parlano.

«Sono sei, adesso. Maschio, femmina, femmina, femmina, femmina, maschio». Dai venti ai cinque anni. Tutti con l’impronta di famiglia: occhi vispi, un accenno di malinconia nello sguardo, capelli folti, carnagione chiara. Il più piccolo succhia un gelato alla fragola e sorride nascondendo il viso contro il collo della madre, che è seduta. «Che cosa mi ha aiutato di più in questi mesi? Tanto. Il cuore delle persone che sono venute a trovarmi, aprendolo a me. La comunità qui tutt’intorno a noi. E poi? La famiglia, la famiglia, la famiglia. I figli sono una benedizione dal cielo. È proprio così».

Le fotografie
Rachel si gira verso una scatola. C’è dentro una pila di fotografie. Ne prende una e la porge. «Naftali. Ma qui è un po’ più piccolo di come è rimasto da quando non c’è più». La voce non si incrina. C’è in lei una pacatezza sorprendente, che non viene solo da quella fede che guida tutta la famiglia in ogni momento del giorno. È qualcosa di diverso, che va oltre la fede e si fatica a decifrare: penso a come tremerebbe a me la mano se toccasse a me porgere la fotografia di quel figlio.
«Ma le persone sono persone normali anche quando diventano delle “star”. La famiglia: il mio mondo è questo. Questa è la vita. L’ebraismo è cultura della vita, e fors’anche per questo ci sentiamo vicini all’Italia, di qui: perché siamo piccoli e perché ammiriamo e apprezziamo la vita. In questi mesi io e mio marito abbiamo imparato a fare posto al riso e al pianto nei nostri cuori. A non respingere né l’uno né l’altro».

Rachel non sa che cosa sia la solitudine. Ma l’impressione che dà è quella di una persona capace di reggere anche la solitudine, e più che mai quella inevitabile che viene da un dolore indicibile come il suo. Che l’ha trasformata, o forse no: ha tirato fuori quello che già c’era. Come quando nel 2014 partecipò a una manifestazione in memoria di Yitzhak Rabin «alternativa» a quella laica e progressista. In fondo, questa donna rappresenta il volto umanista più autentico dell’ebraismo religioso, con la sua storia millenaria che parte dal rabbino Hillel e arriva sino a Martin Buber. Il mondo non si regge solo sul principio della giustizia, ci vuole anche la pietà, che poi è capacità di mettersi nei panni degli altri, di riconoscere l’altro da sé. Una settimana dopo il funerale di Naftali e dei suoi due amici (sono sepolti insieme, a Modiin), Rachel chiese di andare a trovare la famiglia dell’adolescente palestinese ucciso a Gerusalemme. Non le hanno ancora aperto la porta di casa, ma lei non ha perso la speranza di incontrarli, prima o poi. Da allora è diventata, in Israele e non solo - verrà presto in Italia, dice - un personaggio pubblico, una voce importante.
«No, solitudine mai. I compagni di scuola di Naftali, ad esempio, ci sono sempre stati molto, molto vicini. Solitudine mai perché tanti sono venuti a trovarci, a darci una parola di conforto, a farci sentire la loro vicinanza, anche se venivano da molto lontano. E poi, in questa casa, quando hai la tentazione di infilare la testa sotto la coperta e sparire per un attimo, c’è subito un bambino che monta sul letto e con le manine la tira giù, per mettere la sua faccina contro la tua».

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Giustizia, non vendetta

Gli altri figli
Attraverso il salotto con lo sguardo: due faccine ci stanno guardando dal terzo gradino della scala che porta al piano di sopra. Una quasi dodicenne (a breve farà la maggiorità religiosa, mi dice Rachel) sta spazzando svogliatamente ma giudiziosamente, una di poco più piccola sbircia dentro il forno, il più piccolo ha quasi finito di stampare il suo gelato sulla maglia di mamma. Si apre la porta sul retro, verso la caotica cucina, e arriva un ragazzo con una enorme challah, il pane festivo, a forma di ghirlanda: sta per «entrare» il Sabato, è ora di sistemare la casa per accogliere la festa. Per Rachel è un Sabato come tutti gli altri, fatto di riposo e voci che si levano tutte insieme per cantare. Per me sarà sicuramente un po’ diverso da tutti gli altri, ora che l’ho incontrata.

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