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La Stampa Rassegna Stampa
19.12.2014 Dieci Comandamenti: Quello che Benigni non ha detto
Commento di Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 19 dicembre 2014
Pagina: 29
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Quello che Benigni non ha detto»

Riprendiamo dalla STAMPA, a pag. 29, con il titolo "Quello che Benigni non ha detto", il commento di Elena Loewenthal.

Molti, troppi applausi per i Comandamenti di Benigni. Una voce fuori dal coro, quella di Elena Loewenthal. Lo show di Benigni si inserisce nella lunga tradizione bimillenaria della appropriazione dell'ebraismo da parte del cristianesimo - seguito poi a ruota dall'islam nel VII secolo - rivestendolo con panni su misura per renderlo invisibile. Una operazione che continua.


Elena Loewenthal                 Roberto Benigni

Per indicare la fretta del «quattro e quattr'otto» in ebraico si usa dire: «L'ha fatto su una gamba sola». L'immagine evoca l'antica storia di un grande rabbino a cui qualcuno chiese d'insegnare tutta la Torah nel tempo in cui riusciva a stare in bilico così. E Hillel rispose: «Ama il prossimo tuo come te stesso. La Torah sta tutta qui. Ora però vai a studiarla!».

Nel suo monologo biblico Benigni ha giustamente citato questo assunto, attribuendolo a Gesù. E' pur vero che esso sta anche nel Nuovo Testamento. Ma, al di là del plauso trasversale che l'esperienza mediatica dei Dieci Comandamenti ha suscitato, c'è qualcosa che stride. Nelle due ore dedicate al secondo emistichio delle Tavole, da «onora il padre e la madre» in poi, Benigni non ha mai nominato la parola «ebraico». In questa lingua è stata scritta la Bibbia. A questo universo culturale appartiene la stragrande maggioranza delle cose che Benigni ha raccontato. Ha, è vero, citato il Talmud a proposito della donna. Giusto, bello. Ma quanti telespettatori sanno che il Talmud è la Torah orale, il corpus della tradizione ebraica, quel «mare» su cui naviga la parola d'Israele? Lui non l'ha detto.

Quando non era intento a efficaci riferimenti all'attualità, Benigni sguazzava nella tradizione ebraica. Ma soprattutto, partiva da un testo ebraico, perché tale è la Bibbia. Nelle sue divagazioni sull'onore dovuto ai genitori, sul «scegliere la vita» e non la morte - che è il primo, fondamentale precetto d'Israele, quello che ti impone di guardare prima di attraversare la strada - ha usato parole di una millenaria tradizione senza mai chiamarla per nome. Quando spiegava che Dio ci chiederà conto dei piaceri che ci siamo lasciati sfuggire, citava ancora il Talmud. Disquisendo sull'ambiguità del «commettere atti impuri» attestava millenni di rovello ebraico intorno a un verbo misterioso.

La tradizione ebraica è un esercizio di autonomia (e responsabilità) intellettuale dove la parola biblica è sondata in un continuo moltiplicarsi di significati. Tutto si dipana dalla vertiginosa coincidenza per cui in ebraico «incise» detto della pietra dei Comandamenti significa anche «libertà». C'è un'unica libertà che i grandi maestri della tradizione, da Hillel a Martin Buber, non si prendono: quella di attribuirsi parole altrui. Citare il nome di chi ti precede lungo la storia è un dovere filologico ancor prima che morale e spirituale. Benigni ha perso la strabiliante occasione di incastonare la propria performance in una non meno strabiliante catena di parole guidate da un sano principio di democrazia e rispetto per le voci che non sono la tua.

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