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La Stampa Rassegna Stampa
10.12.2014 Libia: guerra civile nel deserto
Analisi di Domenico Quirico

Testata: La Stampa
Data: 10 dicembre 2014
Pagina: 1
Autore: Domenico Quirico
Titolo: «Con l'esercito che sogna di riprendersi Tripoli»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 10/12/2014, a pag. 1-15, con il titolo "Con l'esercito che sogna di riprendersi Tripoli", l'analisi di Domenico Quirico (seconda puntata). Per leggere la prima ecco il link: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=56313


Domenico Quirico


Veicolo in fiamme in Libia

Il sole ci inondava, sciogliendosi nelle nostre fibre. Dalla sabbia saliva un calore gemello che ci univa alla terra. La nera irrequietezza che agita la natura prima dell’alba si è dissolta nella luce del deserto. Ancora una volta mi accorgo che uno degli aspetti più enigmatici della paura è che non è veramente proporzionale al grado di pericolo. Un diabolico frastuono risuona come una tempesta tropicale, ogni tanto si spegne in spari isolati per poi riaccendersi in salve assordanti. «Quando sentirai la voce della mitragliera da ventitré non ti puoi sbagliare, allora cominciano le cose serie».

Il capitano Ali al Hadj è un uomo felice; anche se le sue mitragliere russe si inceppano per la sabbia e bisogna aver sempre a portata di mano una latta d’olio, anche se i suoi soldati non hanno divise e scarpe e poche munizioni. Anche se ieri ha dovuto ritirarsi di qualche chilometro dall’incrocio chiave di Al Jelaat perché quelli di «Fajr», l’alba, come chiamano le milizie di Misurata, premevano troppo nel deserto.

«Non siamo mercenari»
Ma oggi vuole la rivincita. È contento, sdraiato al mio fianco sul dorso di una duna. Trentasei anni in divisa e finalmente comanda di nuovo dei soldati, non bande di guerriglieri, di thuwar, rivoluzionari più o meno finti, ma un esercito che obbedisce agli ordini del lontano governo di Tobruk. Il capitano non abbandona mai un grosso taccuino, come fosse un maestro. Eppure non gli ho mai visto scrivere niente, prendere appunti sui suoi shebab, ragazzi, le sue reclute.
«Vedi, non siamo una banda di città o di regione come gli altri, o dei mercenari, lo stipendio io non lo vedo da tre mesi. Non ci sono più banche… Questi sono di Tripoli, vieni qui fatti vedere! E loro … loro sono di Sebha, nel Sud, a centinaia di chilometri da qui...». E si fanno avanti tre ragazzoni neri che sembrano giganti in mezzo a questi soldati piccoli e nervosi. «E poi c’è lui, di Kikla, sì è un po’ anzianotto ma era nei reparti di assalto e ci sa fare. Ah! come ci si sa fare... e ha due figli che servono anche con me…».
Tutti, anche l’ultimo soldato, ti ripetono questo frase come una ossessione: «Noi siamo un esercito regolare, che obbedisce al generale Haftar e al parlamento e si batte contro i terroristi, siamo l’unico esercito libico». Si capisce perché: i loro nemici che tengono Tripoli li accusano di essere ex gheddafiani che vogliono cancellare la rivoluzione con una restaurazione rimessiticcia.
Il capitano deve conquistare Sabratha, un boccone grosso che dista ancora qualche chilometro ma il cerchio si stringe. «Avanziamo volontariamente un passo dopo l’altro ma avanziamo...» e per mostramelo ha mimato una piccola danza sulla sabbia tra le risate dei soldati. A Sabratha, davanti a noi, ci sono i fondamentalisti, il califfato, libici ma anche tunisini, pachistani, algerini riunitisi per la universale malora. Si battono con determinazione, non cederanno. Hanno nascosto le munizioni nelle tombe romane, hanno scavato le trincee tra le rovine archeologiche. Per mettersi al riparo dai bombardamenti degli aerei di Tobruk.

Il Califfato che incombe
Il colonnello Taesh che comanda questo fronte mi ha spiegato che le sue truppe attaccheranno la città solo quando saranno ben sicuri di poterla controllare e isolare con posti di blocco: «Non vogliamo saccheggi e vendette, non vogliamo come nel 2011 che compaiano migliaia di thuwar finti che poi non riusciamo a disarmare. Questa volta sarà l’esercito a mantenere l’ordine».
La guerra civile in Libia sembra semplice: due governi che si proclamano a vicenda illegittimi e si battono a Est e a Ovest. Ma poi ci sono i fondamentalisti, quelli di Derna soprattutto, bastione degli intransigenti, dove si scalmanano le bandiere nere con la shabada, la professione di fede. Si sono proclamati già obbediente provincia califfale di Barqa, la Cirenaica. E poi milizie di mercenari che, in questo sfasciume, si uniscono a chi li paga meglio; e i berberi, ambigui, che trafficano e vogliono vantaggi, e i tuareg a Sud. Difficile scegliere, capire in queste escandescenze omicide che danno le vertigini. Forse non resta, a dirla crudemente, che porsi la domanda: con chi sono schierati i turcimanni islamisti? E poi scegliere gli altri. Non c’è dubbio che questo vario torbidume sia alleato con «il governo» di Tripoli.
Il capitano vuole bene ai suoi ragazzi, non vuole gettarli via, prima dell’attacco si è raccomandato: «Se vedete abbandonate latte di benzina o un pick up, non avvicinatevi: i daesh lasciano dietro di sé esche, trappole esplosive che fanno saltare quando arrivate, quei dannati».
Ora la mitragliera da ventitré si fa sentire, ecco: le cose importanti iniziano. Solo che siamo inchiodati sotto una duna. Da un lato i cecchini, dall’altro le mitragliatrici. Sibili prolungati e acuti, tremolanti e stridenti producono nuvole sul fianco scosceso di sabbia dove ci teniamo schiacciati a terra. Su quella babele di rumori si impone il sordo ratatata della mitragliera: di tutti i rumori della guerra quel lento tamburellare è quello che più travolge il cuore. Indifferente, uno dei soldati comincia a gridare insulti nel suo trasmettitore: «Venite avanti, perché vi siete fermati figli di cani?». Il capitano sorride: «È così tutto il giorno, si insultano con i daesh, conoscono le rispettive frequenze. Sono ragazzi…».

Prigionieri delle dune
Sdraiato sulla duna con accanto un lanciarazzi tolto da un aereo e trasformato in arma terrestre vedo distintamente la macchia da cui tirano i cecchini. Siamo bloccati, il tempo passa e il vento d’inverno solleva una polvere che morde tra i denti. Il suono non viaggia alla stessa velocità del proiettile, il rumore dello sparo ti raggiunge con un secondo buono di ritardo.
Era freddo quando l’accampamento si è svegliato. Alla luce del giorno vedi muoversi delle ombre gradi e informi in questo lembo di deserto che si chiama Bir Zauria, il pozzo di Zauria; ma l’acqua è scomparsa forse mille anni fa. Sono loro, i soldati. Sono avvolti da maglioni e coperte che li appesantiscono e ingigantiscono.
Un rumore confuso fatto di esclamazioni, chiacchiere sparse, ordini, colpi di tosse emerge dal silenzio del deserto. Poi il rumore delle armi, dei barattoli di cibo, il rombo di decine di pick up che formano l’artiglieria mobile della battaglia e si mettono in moto.

Gli avvoltoi di Misurata
Un vecchio con la testa logora come un vecchio cappello sembra il padre di questi ragazzi: «Perché son qua? perché a Tripoli si sta peggio del tempo di Gheddafi il maledetto… hanno saccheggiato la mia città portato via tutto, i frigoriferi, i mobili, i dossier della polizia. Tutto a Misurata. E poi la gente scompare, arrestata. Come allora: solo che a quel tempo sapevi come arrangiarti, andavi da qualcuno, pagavi, facevi telefonare e almeno sapevi dove lo tenevano. Ora scompaiono e basta».
E poi c’è «l’ingegnere», esile figura secca con gli occhiali spessi, uno di città: «Il mio Paese si sta disintegrando giorno dopo giorno, io sono ingegnere meccanico, non un killer professionista. Mi sono arruolato perché voglio che i miei figli domani vivano in pace».
Una faccia da bambino ha Taher: con le palpebre gonfie sbuca dalla coperta, i suoi occhietti guardano intorno, ha un asciugamano avvolto attorno al capo come turbante mi vede e ammicca: «Un’altra notte è passata…». Si lava con l’acqua di una bottiglia e poi comincia a pregare. Dall’altra parte in questo momento, stanno facendo gli stessi gesti, con lo stesso fervore.
Adesso, per disimpegnarci da questo guaio, tirano ingegnosi cannoni mobili ricavati smontando i lanciarazzi e installandone una parte sui pick up. I ragazzi, confortati, gridano come impazziti «dio è grande» e sparano furiosamente, alla cieca, sporgendo il mitra sopra l’orlo della duna. Sì, venti minuti di combattimento donano più vita di quanta si potrebbe accumulare nel corso di una intera esistenza facendo altro. Non è la situazione dove rischi di morire, anche se accade, è dove scopri se continui a vivere. Non bisogna sottovalutare questa constatazione. La guerra è molte cose diverse, ed è inutile fingere che l’eccitazione non sia tra queste. La guerra non è solo nostra madre, ma anche nostra figlia. L’abbiamo cresciuta così come ha fatto con noi. La guerra è incredibilmente eccitante.

Il Mig 23 dei governativi
Poi è arrivato l’aereo: un Mig 23. Di solito sono dalla parte di coloro che non hanno aviazione, questa volta il caccia colpirà gli altri, oltre la duna, ed è una constatazione straordinariamente rassicurante. So cosa provano i fondamentalisti che sono a cinquecento metri da noi vedendolo virare placidamente per cercare l’angolo giusto di tiro. Ti schiacci a terra, ma non basterà… Ecco, ha tirato: sulla macchia dei cecchini tre alberi di luce si trasformano in vaporosi paracadute sulfurei, in letali meduse punteggiate di fuoco. Pennacchi di fumo bianco si sfilacciano cambiando colore e svaporando nel grigio. Si vede distintamente un gruppo di uomini che corre verso un riparo e sparisce inghiottito nel formicaio di sabbia.
Il cimitero è in un uno spiazzo ombreggiato dagli ulivi; sporge dalla montagna come la prua di una nave che fende l’oceano del deserto, centinaia di metri più in basso. Seppelliscono uno dei tre ragazzi uccisi nello scontro di Al Jelaat. Una pallottola del cecchino, l’ultimo impassibile passaggio dall’essere una persona all’essere nulla. Il fratello gli sfiora il viso con infinita tenerezza. Poi è la volta del padre: «Allah akbar, handullillah». Un gruppo di bambini gioca indifferente, dalla collinetta di fronte arrivano nel silenzio i loro gridi. I fedeli recitano il saluto agli angeli, una folla in jallabia candida che si è radunata in fila sui sentieri che portano al cimitero. Alcuni soldati sparano in aria, poi crepita la mitragliera piazzata su un pick-up: spara rabbiosamente verso la valle e il deserto dove è morto. Un becchino mette blocchi di cemento attorno e sopra il corpo. La famiglia si allinea e tutti passano loro davanti abbracciandoli e stringendo la mano. Anche io lo faccio.

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